martedì 30 ottobre 2012

Un mondo migliore è possibile


La notizia che riporto qui sotto ha dell’incredibile, considerati i tempi in cui viviamo (è un ritaglio dal Venerdì di Repubblica del 19 ottobre 2012): il Comune di Settimo Torinese rende gratuiti i biglietti dei trasporti urbani. Non mi sono nemmeno chiesto di che partito sia l’assessore Nino Daniel, non mi importa più di quel tanto e spero solo che il suo esempio faccia scuola.
Queste cose si facevano in Emilia, negli anni ’70; e so per certo che fino a dieci anni fa a Reggio Emilia c’erano bus gratis che collegavano i comuni limitrofi alla città capoluogo. Ovviamente, le difficoltà di queste misure sono evidenti: i mezzi pubblici hanno un costo che va coperto, ed è per questo che gli esperimenti di Bologna e delle altre città emiliane hanno avuto durata breve; però porre la questione è importante.
Più trasporti pubblici, anche nei piccoli comuni, significa traffico più scorrevole e meno inquinamento: direi che ne vale la pena. Se una linea è poco utilizzata, treno o autobus che sia, la si migliori e le si faccia pubblicità. E’ ovvio che io se prendo i mezzi pubblici e arrivo in ritardo sul lavoro, rischiando il licenziamento, tornerò a usare la mia auto; è altrettanto ovvio che se all’abbonamento ai mezzi pubblici si aggiungono i parcheggi e pagamento e poi le multe, non è che si incoraggi l’utente.
I discorsi dei dirigenti di Trenitalia, per esempio, vanno proprio nella direzione opposta. E se invece provassimo a cambiare?

domenica 28 ottobre 2012

Benzene e aromatici

Davanti alla parola “aromatico”, un chimico penserà subito a un esagono: un esagono regolare, che non è un simbolo ma una vera e propria formula chimica, sia pur semplificata. E’ la formula chimica del benzene: ad ogni angolo dell’esagono bisogna immaginare un atomo di Carbonio.


Questo esagono, che sta ad indicare una conformazione molto stabile, fa parte di moltissimi composti presenti in natura (nelle resine delle conifere, nel bitume...). Quando in tv o nei giornali si parla di “benzene” si intende in realtà una grande varietà di composti chimici, che contengono l’esagono del benzene nella loro formula. Qui intorno ne metto qualche formula, solo come esempio. Le immagini vengono da www.wikipedia.it, da miei libri di scuola, dalla Garzantina.
Il nome di questo gruppo di composti chimici deriva dal fatto che il primo di essi fu isolato nella resina delle conifere; solo molti anni dopo si sarebbe arrivati alla sua formula precisa. Molti hanno ancora nelle narici l’odore della trementina, dell’acquaragia, del toluene, di molti solventi e benzine: per “aromatico” si intende queste cose qui, non necessariamente un odore piacevole. Il risvolto negativo della faccenda è questo: che molti dei composti aromatici possono essere o diventare cancerogeni. I composti aromatici, idrocarburi e non solo, sono presenti in gran numero anche in natura, nel catrame e nelle resine; entrano nella composizione delle materie plastiche (per esempio il PET, ma non nel polietilene e propilene, che non contengono l’esagono del benzene) . Il problema vero nasce quando vengono bruciati, come nei gas di scarico delle auto o nei roghi dei cassonetti, o magari nell’incendio di un magazzino di giocattoli: la quantità di composti che si formano dalla combustione è enorme, innumerabile, dipende non solo dal tipo di materia che brucia ma anche dal tipo di combustione, dalle altre materie vicine che si combinano, eccetera. Insomma, si può tranquillamente continuare a usare le bottiglie di plastica e tutti gli altri contenitori; il problema sta nel loro smaltimento.
A questo esagono, alla struttura della molecola del benzene, è legato un episodio che tutti gli studenti di chimica conoscono: un sogno dello scienziato tedesco Kekulé (Friedrich August Kekulé von Stradonitz, 1829-96). Il sogno è di quelli che sarebbero piaciuti a Jung: l’uroboros, il serpente che si morde la coda formando così un cerchio. Un simbolo antichissimo, che diede a Kekulé l’idea della struttura dei composti aromatici. L’idea sarebbe stata poi confermata dagli studi successivi, e c’è da dire che ci sono molti dubbi sulla verità di questo sogno, mentre invece non ce ne sono affatto sugli studi di Kekulé, che è stato il primo vero iniziatore della moderna chimica organica. Gli studi di Kekulé iniziano nel 1858, prima ancora della pubblicazione della Tavola Periodica degli Elementi.
Sul benzene e sui composti aromatici ci sarebbero un’infinità di altre cose da dire, interi corsi universitari, ma io mi fermo qui per non allungare troppo il discorso. C’è però una cosa che mi sta a cuore, e non riesco proprio a non dirla: della cancerogenicità di alcuni di questi composti, e di molti altri non aromatici, io sono stato messo al corrente agli inizi dei miei studi di chimica organica: l’anno era il 1975. Si sa, insomma: si sa da molto tempo. I gas di scarico delle automobili sono cancerogeni, ancora oggi. E’ recentissima l’inclusione nella lista delle sostanze cancerogene, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dei fumi dei motori diesel: avete sentito qualcuno che ne ha parlato? Per le automobili e per le moto si sta facendo la stessa cosa che per l’Ilva di Taranto, silenzio assoluto fino all’intervento di un pretore, poi polemiche a non finire. Chi vuole questo silenzio non è il Potere, non è una Casta, siamo noi stessi. Ogni tanto provo a parlarne e la conclusione (amarissima) è sempre la stessa: ai miei vicini interessano più la moto e il suv che i loro bambini. Io potrei dire: chi se ne frega, faccio la mia vita, figli non ne ho; loro invece i bambini in casa ce li hanno, magari anche più di uno, ma li portano a vedere il Gran Premio e gli mostrano felici l’elicottero in cielo. Così va il mondo, ormai io mi sono rassegnato.


PS: gli elicotteri non vanno a molla, e nemmeno gli aerei. I deltaplani, infine, sono mossi da un motore: chi l’avrebbe mai detto, così aerei e leggeri.

venerdì 26 ottobre 2012

Polimeri

Una collana di perle è l’immagine più facile per capire cos’è un polìmero, soprattutto quando non si sa niente di chimica ma si vorrebbe capire di cosa si sta parlando. Senza entrare in discorsi complicati, si può dire che una singola perla è il monòmero, tutta la collana è il polìmero: che può essere piccolo o enorme, addirittura infinito, e che può essere costituito da monomeri differenti dalle perle, magari di legno, di turchese, di smeraldo, o semplicemente di bigiotteria. Una catena, insomma: e “catena” è già un termine chimico.
I polìmeri però essere anche a forma di rete, estendersi per tutta una superficie e nelle tre dimensioni; si possono quindi usare molte altre immagini oltre a quella della collana o della catena, per esempio un lavoro a maglia, il gioco del domino, le costruzioni che regaliamo ai bambini.
Non si tratta di un argomento da poco, perché di polimeri sono piene le nostre case: tutte le materie plastiche sono costituite da polimeri, non solo le pellicole per avvolgere e conservare i cibi (polietilene) o le bottiglie di plastica (PET e simili), ma quasi ogni oggetto che usiamo oggi ha un polimero alla sua origine.
Avrei voluto mettere una definizione un po’ più scientifica dei polimeri, ma la Garzantina della Chimica ha più di dieci pagine sull’argomento, come si fa? Dalla Garzantina, mia fedele compagna e fonte inesauribile di informazioni, mi limito a rubacchiare qualche immagine: quelle che vedete qui intorno. Un’avvertenza per le immagini: ad ogni angolo, ad ogni piega, bisogna immaginare un atomo di Carbonio – una perlina, insomma. Le formule di chimica organica si scrivono così per semplicità, è una specie di stenografia.
La grande diffusione dei polimeri nelle nostre case comincia negli anni ’60; all’origine c’è la scoperta della “polimerizzazione stereospecifica”, avvenuta negli anni ’50 e che ha portato al Nobel per la Chimica l'italiano Giulio Natta e il tedesco Karl Ziegler, nel 1963. Anche prima del 1960 c’erano in commercio materie plastiche, ma è solo con le ricerche di Natta e di Ziegler che si sono potuti progettare e costruire i polimeri come li vediamo oggi, adatti ad ogni nostra esigenza.
In Natura, solo il Carbonio e il Silicio danno catene, cioè legano gli atomi uno a uno come perle; il Silicio avviene in piccole quantità (il silicone), invece con il Carbonio le possibilità di combinazione sono infinite. Anche in natura esistono dei polimeri, per esempio la cellulosa del legno (a suo modo, un polimero reticolato) è la ripetizione all’infinito di questo monomero qui sotto (i Chimici mi scuseranno per questa semplificazione, o almeno lo spero):
Alcuni polimeri erano già stati prodotti in epoche precedenti, ma senza trovare un utilizzo pratico perché non esisteva ancora un’industria capace di produrli su grande scala.  «...è un fatto storicamente acquisito che i primi polimeri sintetici furono sviluppati già nel XVI secolo, e che si deve a un alchimista tedesco, Bartholomeus Schobinger, l’invenzione di una plastica alla caseina ricavata direttamente dal formaggio (1530). L’impiego del ritrovato era limitato ai monili eppure, già a quei tempi, si rivelò utile come materiale sostitutivo del più pregiato corno animale. (Franco Foresta Martìn, Corriere della Sera 4.12.1994)»
Dalla caseina, cioè dal formaggio, in epoca più recente è stata prodotta una fibra tessile, da noi chiamata lanital: è una fibra proteica, cioè fatta di proteine; simile in qualche modo alla seta e alla lana. Dal punto di vista delle fibre tessili, a me piace molto la molecola del nylon 6.6, prodotta a partire da acido adipico ed esametilendiammina: si usa ancora molto, non solo per le calze ma anche per manopole, pulsanti, oggettini vari. Per me è poco più di un ricordo scolastico (ci sono diversi tipi di nylon), ma come esempio è spettacolare. (l'immagine qui sotto è di www.wikipedia.it )
Altri polimeri importanti, giusto per fare qualche nome tra i più utilizzati: polietilene, polipropilene, polistirene, pvc (polivinilcloruro), pet (polietilene tereftalato: un molecolone!), poliacrilonitrile, poliammide (i vari tipi di nylon), policarbonato, poliestere, polietilenglicole, poliuretano... L’elenco completo sarebbe molto lungo, ma tutti partono da una molecola piccola, ripetuta all’infinito e agganciata ad altre come in una catena, una collana di perle, una maglia, una rete, un gioco di costruzioni. Il polimero finale, quello che arriva nelle nostre mani, è quasi sempre innocuo e del tutto inerte, ma molti dei monòmeri e degli intermedi per arrivare al polimero sono pericolosi o cancerogeni; tra gli operai addetti alla sua produzione ci sono stati e ci sono molti che si sono ammalati anche gravemente. Il problema vero dei polimeri e di tutte le materie plastiche è il loro smaltimento, un problema sottovalutato nei primi decenni di produzione ma che ormai è cresciuto a tal punto che è diventato impossibile non vederlo.
Per finire (ma l’argomento sarebbe infinito, proprio come un polimero), l’altra sera al tg dovendo parlare di polimeri hanno mostrato queste immagini: palline di plastica colorate, il Big Ben, la Tour Eiffel, due carabinieri e due finanzieri: si risolve come un rebus, la notizia era l’evasione fiscale in tutta Europa, relativa a polimeri e intermedi chimici.
(la signora qui sopra è Maria Callas, foto scattata nel 1958; nel frattempo, Giulio Natta, sempre a Milano, non molto distante dal Teatro alla Scala...)

mercoledì 24 ottobre 2012

Wafer

Una delle poche leggi ben fatte che abbiamo in questo disgraziato Paese è quella sugli ingredienti dei prodotti alimentari. Però ho notato che sono veramente in pochi a saper leggere cosa c’è scritto, e soprattutto capita spesso che la lista degli ingredienti sia scritta in caratteri minuscoli o che vada a finire su qualche piega; quindi approfitto di quest’etichetta ben leggibile, che si riferisce a una confezione di wafer, e provo a mettere in fila le nozioni di cui posso provare a parlare. Prima di tutto, gli ingredienti sono indicati in ordine di quantità: al primo posto bisogna mettere l’ingrediente principale, poi via via tutti gli altri, in ordine di quantità decrescente. Vale per tutti i prodotti alimentari, ed è quindi un’indicazione che va tenuta d’occhio: in un torrone, per esempio, se si comincia con “zucchero” siamo messi male e conviene lasciarlo sullo scaffale, perché il torrone si fa con il miele e con le mandorle. Il cioccolato fondente deve avere il cacao al primo posto nella lista degli ingredienti, mentre per il cioccolato al latte è giusto che il primo ingrediente sia lo zucchero: non perché ce ne sia di più rispetto al fondente, ma perché il cacao è diluito con il latte.
La prima indicazione sull’etichetta di questi wafer è la quantità di crema: 75%, quindi c’è più crema che biscotto (il wafer è una sfoglia molto sottile). Al primo posto, come ingrediente principale, c’è comunque la farina di frumento, che darei per conosciuta.
Il secondo ingrediente è “olio vegetale non idrogenato”: significa che questo wafer non è fatto con la margarina. Non è sempre così, altri wafer e biscotti nella lista degli ingredienti portano la dizione “grassi idrogenati” o magari il burro. Spiegare il significato di “idrogenati” o “non idrogenati” a chi non sa nulla di chimica è praticamente impossibile, così come il significato di “grassi saturi” e “grassi insaturi” che completa l’informazione; mi vedo quindi costretto a un’approssimazione. La spiegazione, molto semplificata, è che i grassi idrogenati sono le margarine.
Detto questo, non è che se ne sappia molto di più: le margarine possono essere fatte con materie prime buone, oppure non buone; gli oli e i grassi vegetali possono essere di moltissimi tipi, buoni o meno buoni. Questo punto è infatti una grave mancanza nella legge: sapere con precisione di quali oli e grassi si tratta è importante. Il fatto che manchi questa indicazione non è colpa del legislatore, ma piuttosto delle forti pressioni esercitate dalle multinazionali alimentari: non faccio i nomi ma è molto facile indovinarli, ce ne sono anche di italiane. Ogni volta che al Parlamento Europeo o Italiano si affronta la questione, c’è subito qualcuno che mette i bastoni fra le ruote: come è facile immaginare, il motivo è principalmente economico e di marketing. Personalmente, vista la difficoltà di capire di che olio si tratta, io scelgo i prodotti che contengono il burro.
“Sciroppo di glucosio disidratato”: il glucosio è uno zucchero, e va sommato allo “zucchero” indicato poco dopo, che va inteso come “saccarosio” (lo zucchero che si usa comunemente in casa) e al destrosio, un altro tipo di zucchero che è al settimo posto tra gli ingredienti. Si può far notare che gli zuccheri non sono ai primi posti in quest’etichetta, e difatti questo wafer non era molto dolce (per un wafer, lo zucchero è soprattutto nella crema).
“Siero di latte in polvere” e “latte scremato in polvere”: anche qui penso che ci sia poco da spiegare, da dire invece ci sarebbero molte cose ma è meglio rimandarle ad altra occasione. Il latte in polvere è comunque un ingrediente che si trova ovunque, anche nei salumi; in un wafer, entra nella composizione della crema.
La farina di soia è farina di soia, ma non so dire a cosa serva di preciso in questo caso; forse è presente nella composizione della lecitina: che è un emulsionante, serve per far stare insieme la crema, che altrimenti tenderebbe a separarsi. Anche la lecitina di soia (chimicamente fa parte delle proteine) è un ingrediente che si trova ovunque, dalla maionese in tubetto fino ai dolci e alle salse; in casa la usano in pochi, perché di solito quello che si fa in casa lo si mangia subito, e se le si mangia subito non c’è pericolo che le creme e la maionese si rompano (emulsione significa far stare insieme sostanze che non si mescolano fra di loro, come i grassi e gli oli con l’acqua).

Il sale è il sale da cucina, le bacche di vaniglia indicano che l’aroma è davvero naturale e non per modo di dire; e così siamo arrivati al lievito, che per un chimico è la parte più divertente. Ho infatti trovato molte persone preoccupatissime per la sfilza di termini chimici presenti negli ingredienti, ma non c’è proprio niente di cui preoccuparsi: termini come acido tartarico o difosfato disodico indicano sostanze presenti in natura, e il terribile “carbonato acido di sodio” è solo un altro nome del bicarbonato, quello che si usa per combattere l’acidità di stomaco. La funzione del lievito è quella di far rigonfiare la pasta del pane, o dei dolci; il rigonfiamento avviene attraverso la produzione di un gas, che è l’anidride carbonica: il gas che emettiamo normalmente con la respirazione. L’anidride carbonica si produce sia con il lievito naturale (per fermentazione) che con il lievito chimico (per reazione chimica o per riscaldamento in forno); quello che cambia è il sapore e la consistenza del prodotto finito.
PS: la confezione di wafer portava il logo di una catena di supermercati; invece una marca di wafer molto famosi, forse i più pubblicizzati, indica tra gli ingredienti i grassi idrogenati, cioè la margarina.
(la vignetta di Vannini viene da Repubblica di una decina d'anni fa, l'altra vignetta era sulla Settimana Enigmistica, www.aenigmatica.it )

lunedì 22 ottobre 2012

Evoluzione

L'evoluzione umana non è finita, avverte Desmond Morris. Per quanto mi riguarda, dopo aver letto questo articolo mi sono subito detto una cosa: che io non ho figli, e che quelli che invece hanno figli non appaiono affatto preoccupati di cosa succede all'ambiente in cui vivono.
L’EVOLUZIONE INFINITA
di DESMOND MORRIS,
da La Repubblica 24 giugno 2012
La scoperta scientifica annunciata qualche settimana fa sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences - la specie umana è ancora in evoluzione - sorprende tanto quanto affermare che l'acqua è bagnata. Certo che ci stiamo ancora evolvendo! (...) Procreiamo e quindi ci evolviamo. Il significato di fondo della riproduzione sessuale è insito nel fatto che essa consente a una specie di essere adattabile. Ogni generazione è il frutto dei successi riproduttivi dell'ultima generazione. E l'ultima generazione è generata sotto l'influenza dell'ambiente così come esso era durante il breve arco di tempo trascorso su questa Terra. Se quell'ambiente cambia, anche i successi procreativi cambieranno di conseguenza.
Non c'è niente di misterioso sulla morte: si tratta semplicemente di un meccanismo congenito dei nostri geni che ci consente di avere il tempo di riprodurci e di passare oltre. (...) Di conseguenza, per comprendere in che modo gli esseri umani si stiano evolvendo, tutto ciò che dobbiamo fare oggi è osservare in che modo sta cambiando il nostro ambiente. Se quest'ultimo è immutato, la nostra evoluzione si interromperà. Se viceversa è sottoposto a qualche tipo di sconvolgimento, allora la nostra evoluzione accelererà. Naturalmente, essendo noi animali di grossa taglia, il nostro processo evolutivo è molto lento.
Negli ultimi dodicimila anni abbiamo vissuto un unico grande cambiamento ambientale, come specie di primati: l'urbanizzazione. Fino al punto in cui scoprimmo l'agricoltura, avevamo sempre vissuto in piccole comunità tribali di cacciatori e raccoglitori. (...) Accadde così che la primigenia scimmia nuda antropomorfa, che si era evoluta per vivere in piccoli gruppi, all'improvviso si trovò circondata da estranei, in popolazioni urbane sempre più ampie. E questo processo perdura ancor oggi a ritmo sostenuto.
Questa è stata l'unica grande pressione esercitata dall'ambiente su noi uomini, intesi come specie. Chiunque scoprisse di essere incapace ad adattarsi a questo nuovo mondo affollato, pieno di trambusto, di stress sociale e di rumore, incontrerebbe difficoltà a metter su casa, famiglia e procreare. L'evoluzione per loro si interromperebbe e la specie andrebbe avanti.
Esistono molteplici modi con i quali l’evoluzione può accomiatarsi da soggetti di questo tipo, per esempio facendo sì che si suicidino, provocando in loro la depressione, procurando loro qualche disturbo da stress o interferendo direttamente nell'atteggiamento che hanno nei confronti dell'atto dell'accoppiamento.
Se alcune tipologie di persone non si riproducono in questo nuovo mondo urbano, ciò a poco a poco cambia la nostra specie. La cosa avrebbe un impatto anche nel caso in cui questi esseri umani diventassero "riproduttori limitati", permettendo alla nostra specie di diventare più efficiente, un nuovo tipo di Scimmia Antropomorfa Urbana.
Alcune correnti filosofiche e di pensiero hanno avuto un effetto negativo sul successo della procreazione. Per smettere di riprodursi non è necessario buttarsi giù da un alto edificio. Lo si può fare semplicemente prendendo la decisione di non riprodursi. Monaci, suore, preti cattolici, scapoli, nubili, gay e lesbiche hanno tutti probabilità di gran lunga inferiori di trasmette i propri geni e quindi di influenzare il futuro genetico della specie umana. Naturalmente, possono sempre influenzare il futuro culturale della nostra specie grazie ai loro insegnamenti o alla loro creatività. Ma il loro patrimonio genetico andrà in gran parte sprecato. Le loro uova ovuleranno, il loro sperma si formerà, ma vi saranno bassissime probabilità che si incontrino.
Un'altra categoria di persone per la quale vi sono minori probabilità di procreare può essere quella dei cosiddetti "intellettuali altruisti". Si tratta di coloro che osservando che la specie umana con i suoi sette miliardi esseri viventi oggi è già estremamente popolosa, avvertono l'esigenza - dato che questo trend non pare dar segno di voler decrescere in futuro – di limitare il numero della specie umana.
Se dunque tali individui decidono di conseguenza che è meglio non mettere al mondo figli, o quantomeno di avere una famiglia molto contenuta, contribuiranno meno al futuro della specie di coloro che non si danno pensiero di queste cose e si riproducono in piena libertà. (...)
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2012, The Telegraph

(l'articolo per intero è disponibile sul sito di Repubblica, www.repubblica.it )
(l'illustrazione è del magnifico Winsor Mc Cay, è di inizi 900, e proviene da un numero del mensile Linus degli anni '60; il consiglio è di fare clic sopra l'immagine e guardarla ingrandita)

domenica 21 ottobre 2012

Bagarini

Leggendo si fanno delle scoperte curiose. Per esempio, nel Don Chisciotte si racconta anche dei bagarini: che però non sono quelli che rivendono i biglietti. L’episodio è quello di Zoraide di Granata, uno dei racconti inseriti nella storia, che non coinvolge direttamente Sancho e il Cavaliere:
(...) Come ci fummo raccolti, rimanemmo un po' incerti se sarebbe stato meglio andar prima a rilevare Zoraide, ovvero impadronirci dei Mori bagarini che vogavano al remo nel vascello; e mentre stavamo cosí perplessi, venne a noi il nostro rinnegato a dirci cosa s'indugiasse, che ora era il momento, che tutti i suoi Mori non facevano alcuna vigilanza e anzi la piú parte di essi dormiva. Gli dicemmo a cosa pensavamo, ma egli rispose che il piú importante era impadronirci prima del vascello, cosa che si poteva fare con grandissima facilità e senza alcun pericolo, e che poi potevamo andare a prendere Zoraide. Ci parve giusto a tutti quel che diceva; cosicché, senza trattenerci di piú, facendoci egli da guida, arrivammo al vascello. Egli vi saltò dentro per primo e, impugnando una scimitarra, gridò in moresco: - Nessuno di voi si muova di qui, se non vuole rimetterci la vita. (...)
(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, parte prima capitolo XLI )
Il curatore della traduzione, Alfredo Giannini (il mio libro è la storica edizione Sansoni) aggiunge una nota che spiega il significato della parola: i Mori bagarini, dall’arabo bahar, “nave”erano i Mori che, “pagati, avevano sulle navi ufficio di rematori”. Infatti, sulle navi a remi c’erano anche lavoratori pagati, e non solo schiavi o prigionieri: succedeva così anche a Venezia, e va ricordato che Cervantes aveva un passato di combattente proprio sulle navi, e prese parte alla battaglia di Lepanto; magari le storie sono inventate, ma i dettagli ce li sta raccontando in prima persona.
Dato che con i bagarini ho avuto a che fare in passato, sono andato a cercare sul dizionario Zingarelli, che propone un’altra etimologia, sempre dall’arabo: “baggalin”, mercanti che vendono al minuto. La definizione precisa è : “incettatore di cose che si prevede di vendere a un prezzo più elevato”.
I bagarini sono un altro simbolo di come è cambiata la nostra società. Fino a tutti gli anni ’80, erano persone normali, un’attività non propriamente legale ma comunque non preoccupante. Comperare un biglietto della partita di calcio e rivenderlo a prezzo maggiorato era un modo come un altro per sbarcare il lunario, nessuno se ne è mai scandalizzato. Ma da metà anni ’90 in poi qualcosa era cambiato. A quel tempo era difficile accorgersi del cambiamento, e del resto l’attività dei bagarini non è una mai stata una cosa importante; ma da allora i vecchi bagarini sono quasi scomparsi, sostituiti quasi sempre da personaggi molto meno rassicuranti.
Ho frequentato il loggione della Scala per quasi vent’anni consecutivi, poi ho smesso. Non ho mai avuto bisogno dei bagarini perché i biglietti che comperavo io costavano poco, in inglese si chiamano “standing tickets”, i posti in piedi su in alto vicino al soffitto. E’ il posto dove si ascolta meglio, questioni di acustica. I bagarini erano sempre gli stessi, le stesse persone; ci si conosceva e ci si parlava, difficilmente venivano a chiedere o a offrire dei biglietti e questo poteva succedere perché avevano già il loro giro, negli alberghi di Milano c’era sempre qualche turista che all’ultimo momento chiedeva se c’era possibilità di andare alla Scala, e di solito in queste occasioni non si bada al prezzo.
Il giorno in cui mi resi definitivamente conto che qualcosa era cambiato è stato nel febbraio 1996, per una recita di un’opera poco nota, “Il giocatore” di Sergej Prokofiev (soggetto tratto da Dostoevskij). Un bagarino, che peraltro mi conosceva benissimo, aveva deciso che io non avevo risposto a un appello, quindi ero stato cancellato dalla lista: non era vero, ma lui aveva bisogno dei biglietti. Le code alla biglietteria erano state gestite per anni dagli spettatori stessi, anche dei bagarini ci si poteva tutto sommato fidare; ma da poco tempo era entrato in vigore un altro sistema, appoggiato in maniera non ufficiale anche dal teatro stesso.
Provo a sorvolare su quello che è successo: dico solo che sono entrato quel giorno perchè il bagarino si è reso conto che io ero molto più grosso e più alto di lui. Avrà tagliato fuori qualcun altro, suppongo. Da allora mi sono detto che non l’avrei più fatto, era la prima e l’ultima volta. Sono andato all’opera ancora per un anno, nel 1997; e sempre più raramente. Dopo, ho detto basta: mi sono guardato in giro, circolavano facce sempre meno rassicuranti, a me non piace dover litigare.
Insomma, gliel’ho data vinta: è andata così anche in politica, se ci pensate bene. Si fanno sempre più concessioni, a nessuna persona normale piace litigare, e si finisce per assecondare i bagarini – o fate voi chi, ci siamo capiti.
PS: per ulteriori riflessioni in proposito, rimando al mio post su Bartok e il Mandarino Meraviglioso.

sabato 20 ottobre 2012

Idiosincrasie

Alla voce “idiosincrasie” il dizionario dà due sfumature diverse, non solo in senso negativo. La definizione dello Zingarelli è questa: « Idiosincrasie: composto di idios, “proprio” e “synkrasis”, mescolanza; “speciale mescolanza di umori e temperamento risultante da essa” (...) 1. in medicina, particolare sensibilità di alcuni individui a determinate sostanze medicamentose o alimentari 2. forte avversione per qualcosa o per qualcuno, incompatibilità ripugnanza.»
Trattandosi di qualcosa di proprio e di personale (“idios”), ognuno ha le sue proprie idiosincrasie; e questo mi sembra scontato. Oggi, più che altro per passare il tempo, porto qui le mie idiosincrasie: in senso negativo, ed evitando di parlare di argomenti troppo impegnativi (per quanto riguarda le cose serie, ho quasi tre anni di blog qui in archivio).
Per esempio, e per rimanere nella categoria delle cose fastidiose ma facilmente evitabili, non sopporto le letture ad alta voce, pubbliche e private, di poesie e di romanzi. Trovo soprattutto fastidiosi e imbarazzanti gli autori che si esaltano coi propri versi, una vera piaga che colpisce anche i migliori. Ovviamente, ci sono delle belle eccezioni: trovo magnifiche le letture fatte da Arnoldo Foà e da Romolo Valli, e apprezzo molto il lavoro sulla poesia fatto da Marco Paolini nei suoi spettacoli.
Non sopporto formula uno, moto, rallies. Un gran premio di moto o di formula uno è la cosa più noiosa che esiste, ho smesso di occuparmene da quando avevo sedici o diciassette anni.
Non sopporto gli alberghi a cinque stelle, quelli di lusso; non capisco il senso della disposizione delle posate e dei bicchieri, eccetera. Fosse per me, ci sarebbero solo delle buone trattorie: l’importante è mangiar bene, e se vado in albergo mi basta che la stanza sia pulita e in ordine.
In musica, non sopporto Frank Sinatra e tutto ciò che è swing mi irrita; anche qui con qualche eccezione, non sono mai stato un estremista e sto solo raccontando cosa mi succede. Non mi piace il rock degli anni ’50, in primo luogo trovo stomachevoli (I’m sorry) i telefilm di Happy Days, Elvis Presley e tutto il suo mito. Devo però ammettere che “Blue Moon” nel film di Jim Jarmusch (Mystery train) ci sta benissimo, e che ho un bel ricordo personale per un’inattesa “Love me tender”: forse perché sono canzoni diverse dal solito e noiosissimo Elvis.
Ho una vera avversione per Michael Jackson: aveva la mia stessa età, l’ho seguito fin da bambino perché mi aveva colpito che uno che avrebbe potuto andare a scuola con me potesse cantare e ballare così bene; l’ho ritrovato molti anni dopo e non ho mai capito come mai un bambino nero, dall’aspetto così chiaramente afroamericano, abbia finito col trasformarsi in quel modo. Soprattutto, mi stupisce molto che i neri d’America ammirino così tanto uno dei loro che si è fatto stirare i capelli, assottigliare il naso, e tutto quel che segue. La sua musica mi è sempre sembrata banale, e la sua vita mi sembra una specie di racconto dell’orrore.
Allo stesso modo, ho sempre trovato banale e irritante David Bowie; e ho sentito ripetere all’infinito frasi del tipo “Prince è un genio come Stravinskij”, del tutto incomprensibili. (chi dice queste cose sicuramente non conosce Stravinskij). Ho ascoltato Prince, non mi è dispiaciuto, ma si tratta sempre di musica abbastanza banale, niente di sorprendente comunque.
Non sopporto più tutti i cantanti italiani degli anni ’60 e ’70, erano ovunque, ne ho subìto una vera overdose e non ne posso più. Li metto tutti assieme, De André e Al Bano, Lucio Dalla e Orietta Berti, Mino Reitano e Lucio Battisti, Claudio Baglioni e Loredana Bertè, li so a memoria e continuano a ripropormeli, ma io – come direbbe Rino Gaetano – non li reggae più (a proposito, Bob Marley...un’altra cosa noiosissima).
Non sopporto le radio commerciali, radio deejay e tutti i suoi conduttori mi fanno senso per la quantità imbarazzante di luoghi comuni e di scemenze ripetute all’infinito, per di più molto compiaciuti di se stessi (è un trend, baby, è la moda, se non sei così sei uno sfigato...magari poi dicono di votare a sinistra, figuriamoci se sanno cosa significa).
Non sopporto Gabriele D’Annunzio, che io continuo a chiamare Rapagnetta (è il suo cognome originario). E’ vero, ha scritto “La pioggia nel pineto”, ma per tutto il resto lo trovo un personaggio disgustoso, a partire dell’esaltazione della guerra (cosa che lo accomuna a F.T.Marinetti, altro personaggio orribile).
Nel sesso, non sopporto cose come gli spogliarelli, il burlesque, le calze a rete, le fiere del sesso, il sadomaso, il bondage, i lifting esagerati, le labbra gonfiate alla Nicole Minetti. Ma qui vado su un discorso che vorrei evitare, se non altro perché finora sono sempre riuscito a evitare le visite sul blog con chiavi di ricerca di questo tipo, e mi dispiacerebbe trovarmi un’alluvione di visitatori importuni.
Concludo con Marilyn Monroe: ho imparato a volerle bene quando ho visto le sue foto fuori dal set, non più personaggio pubblico ma una donna normale. Ha fatto film molto brutti o poco significativi, dove le facevano fare soltanto le parti che sappiamo, l’oca bionda o poco più; in quei film non la trovo attraente, mi è invece piaciuta molto nell’unico film che ha girato con un regista davvero grande, John Huston. Per questo motivo, l’unica immagine che metto in questo post è dedicato a lei, a Marilyn Monroe: una foto dal set di “The misfits” (Gli spostati, regia di John Huston, anno 1961). L’attore che è con lei è molto famoso, ma in questa foto non è facilmente riconoscibile: Eli Wallach. Se gli fate un paio di baffi da messicano, comincia un po’ (ma poco) ad assomigliare all’amico di Clint Eastwood nei film di Sergio Leone.
quest'immagine viene dal sito http://mudwerks.tumblr.com

mercoledì 17 ottobre 2012

Leonardo

L’acqua disfa li monti e le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potesse.
(Leonardo da Vinci, citato da Luigi Veronelli su L'Espresso 16.9.94)

martedì 16 ottobre 2012

Detersivi ( III )

Dal punto di vista chimico, i saponi sono una cosa diversa dagli altri detersivi. Per spiegare la differenza tra i vari tipi di detergenti è però necessario fare un po’ di storia, sperando di non essere troppo noiosi. Il sapone vero e proprio esiste da moltissimo tempo, pare addirittura che se ne siano trovate tracce risalenti all’antica Mesopotamia; però la sua diffusione è stata molto limitata fino agli inizi dell’800, quando cominciò la produzione industriale. L’impulso definitivo alla diffusione capillare del sapone arriva nel 1861, quando il belga Ernest Solvay brevetta il suo sistema per la produzione del carbonato di sodio, l’ormai proverbiale “soda solvay”.
Come ci si lavava, prima? Alla domanda hanno già risposto molto bene autori importanti come Giorgio Cosmacini e Carlo Maria Cipolla, sono due medici e due scrittori molto piacevoli e i loro libri sono di quelli da non perdere; ci sono poi i libri di Legoff e della sua scuola, altrettanto belli. Di conseguenza non mi inoltro più di tanto nei dettagli: si sa per esempio che gli antichi greci e romani usavano l’olio di oliva per detergersi, raschiando poi via lo sporco insieme all’olio; il più delle volte ci si lavava solo con acqua, e va ricordato che l’acqua corrente calda e fredda nelle case esiste da poco più di un secolo. Di conseguenza, era molto frequente (in chi poteva permetterselo) l’uso dei profumi: insomma, prima della Rivoluzione Francese ci si lavava poco, molto meno di oggi. Nei libri degli autori di quel periodo (per esempio le Memorie di Casanova, o i resoconti dalle corti dei re di Francia) esistono particolari che oggi definiremmo raccapriccianti, e che invece erano normali anche presso le persone ricche e importanti. Forse siamo noi che siamo diventati troppo raffinati, chissà.
Per lavare i panni invece si usava la lisciva, detta anche ranno o liscivia: si produce con la cenere di legna, mischiata ad acqua. Un sistema antichissimo che visto da oggi può sembrare strano, ma dal punto di vista del chimico è più che comprensibile, direi elementare: l’abc della chimica, una delle prime reazioni che si studiano. Quando si brucia la legna, se è ben secca e se la si brucia bene fino in fondo, quello che rimane è il residuo del Potassio e del Sodio, sotto forma di ossidi; la cellulosa (fatta di Carbonio, Idrogeno, Ossigeno) è volata via col fumo, trasformandosi in anidride carbonica e vapore acqueo. Abbiamo dunque la nostra cenere, composta da ossidi di sodio e di potassio: aggiungendovi acqua si producono i rispettivi idrossidi, più conosciuti come Soda caustica e Potassa caustica. Si può anche aggiungere che il carbonato di sodio (la soda solvay) si trova anche in natura, gli antichi egizi lo prendevano da una cava situata in una località detta Natron, e ancora oggi il nome scientifico del Sodio è Natrium, simbolo chimico Na.
Il sapone si produce facendo bollire oli e grassi (sia vegetali che animali) con uno di questi idrossidi; il risultato finale varia a seconda delle materie prime usate e della perizia di chi produce il sapone, ma la reazione è una sola e caratteristica, e nelle analisi chimiche degli oli e dei grassi, e in tutti i loro processi industriali, è molto importante un dato che si chiama proprio Numero di Saponificazione.
L’industria della soda è stata una delle primissime industrie moderne, forse la prima fabbrica moderna in assoluto: ha inizio nel 1792, poco dopo la Rivoluzione Francese, con il metodo ancora rudimentale approntato dal chimico Nicolas Leblanc. Va ricordato che è di quegli anni la pubblicazione dell’Enciclopédie di Diderot e D’Alembert, che contribuì molto a diffondere conoscenze prima riservate a pochi. Già a partire da quella data la produzione del sapone diventa più facile, e il successivo brevetto di Ernest Solvay, nel 1861, è il passo decisivo verso l’odierna industria cosmetica e della detergenza.
Le materie prime erano di varia provenienza, dalle ossa (il midollo contiene grassi) fino all’olio e al grasso di balena descritti in Moby Dick; oggi sono i saponi sono quasi tutti di origine vegetale, soprattutto palma e cocco. Il sapone di Marsiglia, quello vero, è fatto con gli scarti della lavorazione delle olive: l’ho usato sul lavoro, nell’industria della seta, ed è un sapone meraviglioso che lascia la pelle morbidissima, ma ha un forte odore vegetale, che rimane addosso e che a molti non piace. Una delle materie prime più importanti per il sapone era il sego, cioè la parte solida del grasso animale; con il sego si facevano anche le candele. Ancora oggi molte saponette recano in commercio recano l’indicazione “tallow oil”, olio di sego; resta da vedere se davvero si tratta di sego, ma è probabile. Comunque sia, la composizione chimica del sego è riproducibile anche per sintesi, e con altre materie prime.
Come si sarà capito, le materie prime usate per produrre il sapone sono in gran parte commestibili; si usavano ovviamente materiali di scarto, ossa e pelli, oli non particolarmente appetibili, eccetera. Ma viene il dubbio che un antico insulto, “mangiasapone”, faccia riferimento non solo al fatto di non lavarsi mai, ma che ci sia stato qualcuno che abbia davvero mangiato il sapone; ovviamente con mal di pancia inevitabile, per non dir di peggio. Insomma, è possibile che sia successo veramente; la stessa cosa capitava con le candele, e va ricordato che si parla di tempi di carestia, a metà ‘800 era molto diffusa anche qui da noi la denutrizione, la pellagra, e se si è in queste condizioni non si va molto per il sottile.
Tornando alla cenere, mi ha stupito molto vedere che ci sono detersivi che nella pubblicità e nell’etichetta si vantano di avere cenere, parti di minerali, saponaria, eccetera (la saponaria è una pianta); se fosse vero si tratterebbe di un non senso, una pura trovata pubblicitaria. I nostri nonni e bisnonni usavano la cenere e l’erba saponaria perché non c’era di meglio in giro, questa è l’unica cosa da dire: i prodotti oggi in commercio sono molto meglio della cenere e dei sassi tritati...
Un esempio famoso fra gli addetti ai lavori sono i granelli colorati di un importante detersivo degli anni 60. La pubblicità insisteva molto su questi granelli, colorati in blu: aprendo la scatola si vedeva infatti il detersivo bianco, e in mezzo al bianco tanti granellini blu. La realtà era che i granellini blu erano assolutamente identici a quelli bianchi: non era una truffa, ma una semplice trovata pubblicitaria. Il detersivo era ottimo, la novità stava nell’introduzione degli enzimi, che permettevano di lavare a basse temperature, già durante l’ammollo. Siccome gli enzimi c’erano ma non si vedevano, qualche pubblicitario aveva avuto la trovata di inventarsi i granellini blu. D’altronde, il mestiere del pubblicitario è quello che è.

Chimicamente, oli e grassi sono classificati fra gli acidi: degli acidi grassi ho parlato qui, al grasso di balena e a Moby Dick di Herman Melville ho dedicato alcune puntate qui, sempre in chiave chimica.
Sempre dagli acidi grassi si è partiti, dagli anni ’50 in su, a produrre e mettere in commercio altri tipi di detergenti: le parole chiave sono etossilazione e solfatazione, reazioni chimiche completamente diverse da quella che porta ai saponi. Parlarne qui sarebbe molto difficile, servirebbe un vero e proprio corso di chimica; sono comunque la gran parte dei “saponi” in commercio, per esempio tutto lo shampoo è fatto di etossilati e solfatati, e molte saponette e saponi sono a base di laurilsolfato, alchilbenzensolfonato e simili, in diverse proporzioni. La ragione principale è questa: con gli etossilati (lauriletere solfato e simili) è veramente possibile arrivare a un pH neutro, e anche leggermente acido. Il sapone vero, invece, a pH neutro perde la sua consistenza, diventa molliccio e fa perfino un po’ senso a toccarlo; le saponette “neutre” in commercio se fatte col vero sapone non sono in realtà chimicamente neutre, ma vengono portate a un pH sempre alcalino, ma che non reca problemi alla pelle. Il vero problema del sapone è infatti il pH: se facendo bollire i grassi con la soda si mettono le quantità sbagliate, può rimanere della soda in eccesso, che va neutralizzata. Per quanto mi riguarda, sconsiglio di produrre il sapone in casa: bisogna essere molto esperti e ben attrezzati, c’è rischio di farsi male. Olio bollente e soda caustica possono schizzarvi addosso, fanno male entrambi; e il sapone industriale costa poco.
Un discorso a parte spetta anche ai disinfettanti; mi piacerebbe parlarne ma qui si entra fino al collo nelle formule chimiche, non si può proprio farne a meno. Per oggi basterà dire che nelle nostre case non è affatto necessario disinfettare e sterilizzare, a meno che non ci sia in corso un’epidemia di colera: basta pulire, tener pulito.
Per finire, due curiosità cinematografiche: nel girare “Dead poets society” (L’attimo fuggente, 1989, più volte passato in tv) il regista Peter Weir raccomandò ai ragazzi protagonisti di non lavarsi i capelli con lo shampoo, ma con il sapone. Il film si svolge negli anni ’50, lo shampoo non era ancora in commercio; la differenza si vede, lavandosi col sapone i capelli non rimangono vaporosi.  Questa notizia l’ho dovuta leggere, ammetto che non ci avrei mai fatto caso; mi sono invece accorto subito, mettendomi a ridere da solo al cinema (e cercando di non far rumore) che all’inizio di “Il signore degli anelli”, nel villaggio degli hobbit, la schiuma del calderone dove si lavano i panni non è sapone ma è soffice e vaporosa schiuma di detersivo, lauriletere solfato. Gli hobbit conoscevano già l’etossilazione? Devo dire che non me l’aspettavo, ma non avendo letto Tolkien non riuscirò mai a sapere se nell’originale questa possibilità è prevista.

lunedì 15 ottobre 2012

Detersivi ( II )

Partendo sempre dall’etichetta qui a fianco, che è molto ben fatta e che appartiene a un detersivo in polvere tra i più conosciuti, dopo aver parlato dei tensioattivi, cioè del detersivo vero e proprio, si scopre che il principale ingrediente, stando alle percentuali, è la zeolite. Dietro questo nome misterioso (ma il finale in –lito dovrebbe essere molto più di un’indicazione) c’è un minerale di origine vulcanica, vagamente parente della pomice e del tufo; la sua caratteristica principale è la porosità. Le funzioni delle zeoliti nella polvere del detersivo sono tre, tutte molte importanti: la prima è la diluizione del principio attivo, un po’ come avviene nelle medicine. Un principio attivo si può diluire in un liquido (acqua, alcool...) oppure, come in questo caso, con altre polveri inerti. Basterà prendere una scatola di compresse dall’armadietto delle medicine: nella lista degli ingredienti ci sono cose come talco, sale, gelatine, cellulose, stearati, che servono per la diluizione del principio attivo e per la confezione delle compresse o delle capsule. Si potrebbe usare anche il principio attivo da solo, in molti casi, ma la quantità sarebbe molto piccola e servirebbero le bilance di precisione; tornando ai detersivi, le zeoliti hanno anche altre due funzioni importanti, per tenere in sospensione lo sporco rimosso e come protezione contro il calcare. La porosità del minerale da cui provengono è infatti utile anche per “addolcire” le acque, cioè per ridurne la durezza (della durezza delle acque ho già scritto qui anche se in altro contesto). I cristalli delle zeoliti contengono molecole d’acqua, che si liberano riscaldando la pietra: un fenomeno comune a molti minerali, ma che nelle zeoliti è particolarmente vistoso proprio a causa della loro struttura. Questa è la definizione che ne dà www.wikipedia.it (solo la parte iniziale, la voce completa è molto lunga; anche l'immagine viene da wikipedia): Le zeoliti (dal greco zein, "bollire" e lithos, "pietra" per il motivo che se le zeoliti vengono riscaldate si rigonfiano) sono una famiglia di minerali con una struttura cristallina regolare e microporosa caratterizzati da una enorme quantità di volumi vuoti interni ai cristalli. La parola zeolite (pietra che bolle) fu coniata dallo studioso svedese Axel Fredrik Cronstedt che osservò il liberarsi di vapore acqueo (dovuto all'acqua intrappolata nelle cavità) scaldando uno di questi minerali.
Ci sono poi gli sbiancanti, indicati su quest’etichetta con due voci distinte: sbiancanti a base di ossigeno e sbiancanti ottici. Il primo è probabilmente perborato di sodio (per saperlo bisognerebbe fare un’analisi chimica), l’indicazione “a base di ossigeno” informa che non vi sono prodotti a base di cloro, come la candeggina e prodotti simili in polvere: il cloro può essere irritante per la pelle e le vie respiratorie, e il candeggio a base di ossigeno è un po’ più delicato per i tessuti. Gli sbiancanti ottici sono invece veri e propri coloranti, lievemente fluorescenti: un piccolo trucco, che però funziona molto bene. Un tessuto può infatti essere perfettamente pulito e igienizzato, ma giallastro: lo sbiancante ottico va a coprire anche questo difetto (mia mamma è molto contenta del bianco di questo detersivo).
Per i fosfonati riporto la voce di wikipedia, quasi per intero perché stavolta molto concisa: fosfonati o acidi fosfonici sono composti organici (...) I bifosfonati furono i primi composti di questa classe ad essere sintetizzati nel 1897 da Baeyer e Hoffman, per le loro importanti qualità farmacologiche. Dalla seconda metà del ventesimo secolo, i fosfonati furono impiegati come importanti agenti chelanti: essi formano un legame molto forte con atomi metallici, eliminandone le proprietà catalitiche e trovando applicazione ad esempio nella desalinizzazione. I fosfonati hanno un'elevatà solubilità in acqua. In termini più semplici anche i fosfonati, come le zeoliti ma in maniera diversa, contribuiscono a tenere sotto controllo il calcare; fino a tutti gli anni ’60 a questo scopo erano molto utilizzati i fosfati, che sono invece di origine minerale. In seguito i fosfati furono proibiti perché si tratta di fertilizzanti, e gli scarichi delle lavatrici vanno a finire prima o poi in mare, favorendo la crescita delle alghe. Il fenomeno si chiama “eutrofizzazione”, e molti di noi si ricordano ancora di questa proliferazione abnorme delle alghe marine nell’Adriatico. La causa di questo fenomeno ha comunque molte origini, la colpa non era tutta dei detersivi, e va ricordato che i fosfati vengono sempre usati in agricoltura.
Gli enzimi servono sempre per togliere lo sporco, come i tensioattivi; la loro natura è però completamente diversa, perché fanno parte della biochimica, cioè sono presenti anche nell’organismo delle creature viventi. Gli enzimi sono di moltissimi tipi, e alcuni tipi di enzimi aiutano anche la nostra digestione; la loro presenza nel detersivo consente di operare anche a temperature molto basse, permettendo il risparmio di corrente elettrica e una minore usura di vestiti e lenzuola durante il lavaggio. Un capitolo sugli enzimi porterebbe via molto spazio, per parlarne con completezza servirebbe un corso di livello universitario, per questo motivo mi fermo qui.
Mi prendo però ancora una puntata per parlare dei saponi, più che altro dal punto di vista storico.
(continua)

domenica 14 ottobre 2012

Detersivi ( I )

Ho trovato l’etichetta qui a fianco sulla confezione di un detersivo in polvere per lavatrice, uno dei più famosi. E’ un’etichetta molto bella, ben fatta, e ne approfitto per parlare un po’ dei detersivi e della loro composizione.

La parola più importante di questo elenco è Tensioattivo: è il nome che si usa in chimica per indicare tutta la categoria delle molecole che servono per la detergenza. Queste sostanze possono avere formule chimiche e composizione molto differenti, ma hanno tutte una caratteristica comune: vanno ad agire sulla tensione superficiale dei liquidi (da qui il nome). “Tensione superficiale” può sembrare una parola difficile, ma basterà pensare alle gocce d’acqua per capire di cosa si tratta: la forma delle gocce, non solo dell’acqua ma di tutti i liquidi, è dovuta alla tensione superficiale. Un’altra esperienza molto facile è questa: riempire lentamente un bicchiere (meglio se col bordo stretto) e osservare che lo si può riempire anche oltre la sua normale capienza, perché si forma come una pellicola. Anche questa è tensione superficiale: la spiegazione del fenomeno sarebbe molto complessa, però si tratta di un’esperienza molto comune, la si può notare anche nelle bottiglie (in questo caso il “menisco” è concavo, e non convesso come nel bicchiere). Il tensioattivo va ad agire sulla tensione superficiale, non dell’acqua ovviamente ma dell’unto, del grasso, e questo serve per disperderlo nell’acqua di lavaggio.
Un’altra cosa importante da dire sui tensioattivi riguarda la loro composizione: anche qui si usano due parole solo apparentemente difficili, lipòfilo e idròfilo. Lipofilo (stessa radice di lipìdi e di liposuzione) significa “simile ai grassi”; “idrofilo” significa “simile all’acqua”. Le molecole dei tensioattivi sono nello stesso tempo lipofile e idrofile: la parte che somiglia ai grassi si mescola all’unto, la parte che è affine all’acqua lo porta via. Come tutti sappiamo, per togliersi di dosso il sale dell’acqua marina è sufficiente una doccia senza saponi; se invece abbiamo le mani sporche di grasso il sapone è indispensabile. Il sale si scioglie in acqua, il grasso e l’unto invece hanno bisogno del tensioattivo.
La composizione dei tensioattivi è variabile: quelli che fanno schiuma sono i tensioattivi anionici (anche qui la spiegazione completa sarebbe molto lunga e complessa); i tensioattivi che non fanno schiuma sono i “non ionici”. Trattandosi di un detersivo per lavatrice, la quantità di schiuma che si forma è ovviamente molto importante. I saponi (che fanno schiuma) sono anionici, ma sono differenti chimicamente dai tensioattivi anionici più recenti; anche su questa differenza sorvolo, ne parlerò magari in un’altra occasione. La chimica è molto complessa, il discorso sarebbe interessante ma porterebbe via molto spazio.
Interessante è anche il discorso sulla schiuma: un eccesso di schiuma indica che avete messo troppo detersivo. La schiuma infatti comincia a formarsi quando non c’è più unto.
A questo proposito, si può aprire una parentesi e parlare di come vengono presentati i detersivi: le dosi che vediamo nella pubblicità sono sempre esagerate, ed è consigliabile ridurre sempre le dosi. Bisognerà fare un po’ di prove prima di trovare la misura giusta, ma l’interesse dei produttori è farvi consumare più di quel che serve. Con la lavatrice è un po’ complicato, ma per esempio col dentifricio non è necessario spremere lungo tutta la lunghezza dello spazzolino, ne basta meno della metà; per i lavapiatti, nel lavaggio a mano, la schiuma indica che avete messo troppo detersivo. Un po’ di schiuma va bene, ma se ce ne è troppa avete superato la dose giusta.
Molte case produttrici di detersivi danno grande enfasi all’aggiunta di saponaria, sapone di Marsiglia, cenere, pezzi di minerali...tutte cose interessanti dal punto di vista storico (proverò a parlarne domani), ma di dubbia utilità pratica. Il sapone di Marsiglia, per esempio, è un tipo di sapone: un ottimo sapone, ma né più né meno che un sapone, non certo una bacchetta magica.
Può essere utile un accenno al laurilsolfato: ho letto un articolo recente sui detersivi che ne parlava come se fosse qualcosa che fa male alla salute, in realtà un detersivo non è roba da mangiare, basta questo semplice avvertimento. Inoltre lavarsi troppo fa male, irrita la pelle: basta chiedere al dermatologo per averne conferma. Questo non significa che dobbiamo andare in giro sporchi e unti, perché come in tutte le cose esiste la giusta via di mezzo: i saponi e i detersivi, insieme al grasso dello sporco, portano via anche quel grasso che dà morbidezza alla pelle. Di conseguenza (per esempio) se d’estate siamo sudati e non sporchi, il più delle volte basterà una doccia con l’acqua, soprattutto se il sudore è fresco. Il “lauril” del laurilsolfato significa che la materia prima viene dall’alloro, o meglio che nell’alloro (nel lauro) è stata isolata per la prima volta; questo olio (un olio è un grasso) si trova anche in molti altri prodotti di origine vegetale, come palma e cocco. L’olio di palma e l’olio di cocco sono infatti all’origine di quasi tutti gli shampoo e i detergenti che usiamo comunemente, e i loro nomi chimici ne mostrano chiaramente l’origine; quanto al “solfato” significa soltanto che l’olio è stato reso solubile in acqua, e qui posso rimandare a quanto si è scritto all’inizio di questo post, cioè al significato delle parole lipofilo e idrofilo.
(continua)
(le immagini delle gocce d’acqua le ho trovate in rete, sono molto belle e le ho messe qui come esempio della tensione superficiale; il fumetto era quasi sicuramente su http://mudwerks.tumblr.com ; l’etichetta viene da – come dire? – diciamo che me l’ha data un’olandesina con accanto un pulcino nero...)

mercoledì 10 ottobre 2012

Mr. Collins

Sono stato pregato di scrivere la storia del Diamante, e invece di quella ho scritto la storia di me stesso. Strano, e proprio non me lo so spiegare.
(William Wilkie Collins, “La pietra di luna”, prima parte capitolo secondo, pag.23 ed. Garzanti tascabile)

martedì 9 ottobre 2012

John Mc Cormack

Erano tutte canzoni che conoscevo, e il nome di John Mc Cormack era una garanzia assoluta; nonostante questo, quando sono arrivato a casa e ho iniziato ad ascoltare quel cd, mi sono chiesto cosa mai avessi comperato. Mamma mia, che cos’è questa cosa? Però non era la prima volta, a questi shock mi ero ormai abituato; ci ho ragionato un momento e poi ho concluso che forse ero io a non essere ben sintonizzato, e così era. Ho continuato ad ascoltare questo strano disco, mi sono abituato a quello stile di canto così “old fashioned” (very old fashioned, metà ‘800 o forse addirittura metà ‘700, tradizione orale rimasta intatta) e adesso ormai di quel cd conoscono a memoria ogni millesimo di secondo, ogni parola, ogni attimo in cui Mc Cormack. Se io sapessi cantare, potrei perfino ripetere passo per passo, a memoria, ognuna di queste ventitrè canzoni: ma cantare come John Mc Cormack non è possibile, è una grazia concessa a pochissimi esseri umani.
In conclusione, superate le primissime perplessità, quel cd è diventato uno dei miei più ascoltati in assoluto; se fosse stato un 33 giri si sarebbe usurato e avrei dovuto cambiarlo. Ne metto qui sotto la copertina, fronte e retro, sperando che si riescano a leggere tutti i titoli (mi sembra di sì, facendo clic sull’immagine diventa tutto abbastanza leggibile).
Queste musiche sono molto famose, anche per chi non si interessa di musica tradizionale: fanno parte della colonna sonora di moltissimi film americani, dalle origini del sonoro fino ai nostri giorni, alcune melodie è quasi impossibile non averle mai sentite. Si trovano nei western e nei film di guerra, così come nelle storie di folletti e di magie; e un po’ in tutti i film di lingua inglese dove c’è qualcuno che deve fischiettare o canticchiare qualcosa. Una volta mi hanno spiegato di cosa si tratta: hanno la stessa struttura dei reels, il ritmo tipico di danza che siamo abituati ad associare a scozzesi e irlandesi (cornamuse comprese), però l’arrangiamento è diverso e soprattutto ad essere diverse sono le indicazioni dinamiche: “Down by the Salley Gardens” è un reel, ma suonato molto lentamente, e così suonato e cantato diventa una melodia dolce e struggente, una delle più belle che io abbia mai ascoltato.
Conoscevo già molte di queste canzoni perché le avevo trovate in altri dischi, quelli incisi da Kathleen Ferrier; voce magnifica e commovente di contralto. L’interpretazione di John Mc Cormack è molto diversa, ma comunque bella. In Mc Cormack, l’emozione nasce tutta dalla musica e dalla tecnica vocale perfetta; Kathleen Ferrier ha qualcosa in più, qualcosa che vorrei definire ultraterreno – ma qui mi conviene fermarmi, e rimando al post che ho scritto su di lei (qui).
Alcune di queste canzoni, le più antiche, risalgono al Settecento e sono state trascritte anche da Haydn e da Beethoven: era un lavoro ben pagato, quando non c’erano i dischi si vendevano gli spartiti, ed era un’industria molto redditizia. Altre trascrizioni moderne sono state fatte da Benjamin Britten, da gruppi rock e folk, e anche da cantanti di musica leggera.
John Mc Cormack (1884-1945), nato ad Athlone in Irlanda, è stato uno dei più grandi tenori di inizio Novecento, e forse uno dei più grandi nella storia del disco. Tenore mozartiano, grande stilista, tecnica impeccabile, dizione perfetta, il tipo di voce che gli appassionati d’opera chiamano “tenore di grazia”: lo stesso repertorio di Tito Schipa e di Alfredo Kraus, e in gran parte anche di Beniamino Gigli e di Luciano Pavarotti.  Una curiosità da segnalare è questa: Mc Cormack fu molto amico di James Joyce, fino a che i due vissero in Irlanda si frequentarono molto, e studiavano insieme. Di questa frequentazione, e degli studi comuni, sono molto ricche le pagine di “Ulysses”. In seguito, le loro strade si divisero: Joyce come cantante non valeva molto, e andò a Trieste dove aveva trovato un impiego come insegnante alla Berlitz School; John Mc Cormack invece iniziò una fortunatissima carriera internazionale, sotto la direzione dei più grandi direttori d’orchestra.
In questo cd non ci sono arie d’opera, ma solo le canzoni tradizionali inglesi e irlandesi, quelle della sua infanzia e quelle che cantava con gli amici a Dublino. Le arie d’opera cantate da Mc Cormack sono dei capolavori di tecnica vocale, vere meraviglia per la tenuta del fiato, l’intonazione perfetta, la dizione impeccabile anche in italiano; le canzoni irlandesi stupiscono per l’adesione alla tradizione vocale, ma anche – per noi abituati alle scuole d’inglese – per la pronuncia ben diversa da quella che ci hanno insegnato. Con quelle erre ben arrotate e quelle vocali nitide e rotonde, alla scuola d’inglese ci direbbero che non va bene, che non è la pronuncia giusta. Invece John Mc Cormack le canta proprio così, e fa persino un po’ rabbia; ma lui era irlandese madre lingua, e poteva permetterselo.
Altre curiosità: le incisioni di Mc Cormack cominciano addirittura nel 1904, col fonografo a cilindri; prese parte come attore al primo film inglese a colori (Wings of the Morning,1937), e ha una piccola parte, non citato nei titoli di testa, in Citizen Kane di Orson Welles (1941), da noi conosciuto con il titolo “Quarto potere”: uno dei film più importanti nella storia del cinema.
La carriera di Mc Cormack si è svolta soprattutto fra Londra (Covent Garden) e New York, e ha purtroppo toccato pochissimo l’Italia; anche per questo motivo da noi è poco conosciuto.
Un’ultima curiosità: John Mc Cormack ebbe il titolo di Conte, non dalla Corona d’Inghilterra ma da papa Pio XI, nel 1928, per le sue numerose opere di carità. (queste informazioni vengono da wikipedia in inglese, nell’edizione italiana per il momento una voce su John Mc Cormack non c’è).
Down by the Sally Gardens
(Words: W. B. Yeats, 1889. Tune: Maids of the Mourne Shore, Trad.)
It was down by the Sally Gardens, my love and I did meet.
She crossed the Sally Gardens with little snow-white feet.
She bid me take love easy, as the leaves grow on the tree,
But I was young and foolish, and with her did not agree.
In a field down by the river, my love and I did stand
And on my leaning shoulder, she laid her snow-white hand.
She bid me take life easy , as the grass grows on the weirs
But I was young and foolish, and now am full of tears.
Down by the Sally Gardens, my love and I did meet.
She crossed the Sally Gardens with little snow-white feet.
She bid me take love easy, as the leaves grow on the tree,
But I was young and foolish, and with her did not agree...

She moved through the fair
(by Padraic Collum)
My young love said to me, "My mother won't mind
And my father won't slight you for your lack of kind"
And she stepped away from me and this she did say:
It will not be long, love, till our wedding day"
As she stepped away from me and she moved through the fair
And fondly I watched her move here and move there
And then she turned homeward with one star awake
Like the swan in the evening moves over the lake
Last night she came to me, my dead love came in
So softly she came that her feet made no din
As she laid her hand on me and this she did say
"It will not be long, love, 'til our wedding day"

Jeannie with the light brown hair(Stephen Foster)
I dream of Jeannie with the light brown hair
Borne like a vapor on the summer air
I see her tripping where the bright streams play
Happy as the daisies that dance on her way.
Many were the wild notes her merry voice would pour,
Many were the blithe birds that warbled them o'er
I dream of Jeannie with the light brown hair
Floating like a vapor on the soft, summer air.)
I sigh for Jeannie, but her light form strayed
Far from the fond parts round her native glade;
Her smiles have vanished and her sweet songs flown
Flitting like the dreams that have cheered us and gone....

domenica 7 ottobre 2012

Beethoven

Dopo tre minuti di conversazione, la domanda mi sorge spontanea: «Ma tu la conosci, la musica di Beethoven?» La risposta del mio collega è immediata e sicura: «Ma certo che conosco Beethoven!» Lo dice quasi offeso, come se avessi detto uno sproposito. Io penso che forse nemmeno Maurizio Pollini lo direbbe con altrettanta sicurezza, però non dico niente e concludo che è meglio sorvolare, tanto più che sta arrivando molto lavoro e la chiacchierata sulla musica (peraltro piacevole) è meglio rimandarla ad altra occasione.

Conoscere Beethoven? Certo, come no: Per Elisa, il basso della Sonata Chiaro di Luna, ta-ta-ta-taaaam, e cos’altro ancora? Forse quel pezzettino della Nona Sinfonia che è diventato inno dell’Unione Europea, e che fanno suonare anche a scuola, col flautino, nell’ora di musica obbligatoria. Cos’altro? Penso proprio che la conoscenza di Beethoven da parte del mio collega Enzo, discreto chitarrista, si fermi qui ancora oggi: meno di tre minuti di musica, e amen. Il fatto è che la maggior parte delle persone non è capace di andare oltre i tre minuti di una canzone, il pensiero che si possa costruire un percorso musicale oltre quella durata non li sfiora nemmeno, figuriamoci una composizione che dura un’ora intera (come la Nona Sinfonia) e che ti costringe a rimanere attento per tutto quel tempo. L’attenzione massima per un cagnolino, o per un bambino di tre anni: tre minuti è il massimo che ti è concesso, ma proprio il massimo, dopo di che il bambino e il cagnolino se ne sono già scappati altrove.
Ero anch’io così, fino ai 14 anni: anch’io, come molti altri della mia età, rimanevo sbalordito davanti a quei dischi dei Pink Floyd o dei Cream dove un solo pezzo copriva un’intera facciata, venti minuti consecutivi senza interruzione. Poi, però, dopo un anno, non ho più avuto 14 anni e ho imparato non solo ad ascoltare con attenzione composizioni complesse, a leggere dall’inizio alla fine libri di mille pagine, perfino ad affrontare le conversazioni di amici e parenti, in silenzio, ascoltando senza interrompere e senza sovrapporre il mio io all’esposizione e al ragionamento delle altre persone. Tutto questo potrà sembrare noioso, rognoso, antipatico, ma a chi ne è capace si schiude tutto un mondo, orizzonti nuovi; di quel silenzio e di quell’attenzione si è ripagati, e in abbondanza. C’è anche un altro lato della medaglia: che se davvero avete letto quel libro, se davvero avete visto e capito quel film, se davvero siete capaci di ascoltare un’intera Sonata di Beethoven, i vostri amici e conoscenti vi taglieranno inesorabilmente fuori.
Il lato tragico di tutto questo è che questi signori del “certo che lo conosco!” sono andati al governo, hanno pontificato, fatto leggi e regolamenti. Il mondo in cui viviamo è opera di questi signori e signore, ne sono molto spaventato, ed è il solo motivo per cui ne sto parlando oggi.
Ludwig van Beethoven, tedesco di origini fiamminghe, nasce a Bonn nel 1770: Mozart ha quattordici anni, Haydn (punto di riferimento per ogni musicista, ancora oggi) ne ha trentotto. Comincia come bambino prodigio, ma smette presto: non è un’attività che gli si addice, e oggi ne vediamo bene tutte le ragioni. Ritorna sul palcoscenico dopo i vent’anni, ma come compositore; i libri dicono che esistono tre “periodi” beethoveniani, io ne ho sempre visti soltanto due, che sfumano l’uno nell’altro: il periodo in cui Beethoven è giovane e sta bene di salute, estroverso e ricco di entusiasmo (tutte le Sinfonie, Nona compresa) e un secondo periodo, dai quarant’anni in su, quando la sordità comincia a farsi sentire e alla malattia incombente si aggiungono le delusioni della vita, le stesse che anche noi sopportiamo, e che ci attendono pazienti fino a quando non le raggiungiamo, come tappe inevitabili nel nostro percorso.
Di quest’ultimo periodo, più o meno a partire dall’opera 99, sono i più grandi e complessi capolavori di tutta la storia della musica, imprese magnifiche da affrontare anche per un semplice ascoltatore. Le composizioni di Beethoven sono state numerate in ordine cronologico da Beethoven stesso: prima non si faceva, Beethoven è stato uno dei primi a ragionare sul suo catalogo; l’utilità pratica, per noi, è che guardando quel numerino si capisce subito il periodo della vita di Beethoven in cui quella musica è nata.
Per la musica di Beethoven e le indicazioni dettagliate, anche riguardo alla più piccola composizione, il libro di riferimento è quello di Poggi e Vallora, editore Einaudi; è un libro recente e si dovrebbe trovare senza difficoltà. Di mio non vorrei aggiungere nulla, Beethoven è così grande e sorprendente, in ogni sua composizione, che verrebbe solo da stare in silenzio ad ascoltarlo.
Mi sembra inutile anche parlare della vita personale di Beethoven, sulla quale sono state dette e scritte un’infinità di stupidaggini, molto più simili ai pettegolezzi che alle informazioni serie e ragionate. Beethoven era probabilmente un uomo cordiale ma molto riservato, la sua biografia e i suoi pensieri sono qui, nella sua musica; che è la musica di un uomo giovane e sereno, allegro, e poi sempre più disilluso, stanco, chiuso nei ricordi belli della sua esistenza.
Aggiungo comunque qualche mio ricordo personale, sperando che possa essere d’aiuto a qualcuno.
Per esempio, il Concerto per violino e orchestra (op.61) eseguito da Isaac Stern con l’orchestra della Scala nei primi anni ’80: il Concerto è bellissimo, solare, estroverso, e a un certo punto è previsto che tutta l’orchestra si fermi e il solista suoni da solo una cadenza, che può anche essere improvvisata. Isaac Stern era un ometto piccolino, lì da solo sul palcoscenico della Scala quasi scompariva: eppure, duemila persone in silenzio assoluto, orchestrali e attrezzisti compresi, solo il pianissimo del violino Isaac Stern, non un sospiro, non un movimento. Un’emozione unica, irripetibile: solo l’ascolto in teatro può rendere questi momenti, nessun disco o cd o “scaricato da internet” renderà mai questi momenti.
O ancora la Sonata per pianoforte detta “Waldstein” (op.53) dove i pensieri di Beethoven scorrono arruffati e confusi, come capita spesso a noi prima di addormentarci, o camminando per strada, e si va avanti così per molto tempo, fino a quando un tema quasi da carillon, un ricordo infantile, qualcosa di bello che avevamo dimenticato, ritorna e ci illumina, rendendo almeno in parte quella felicità che avevamo perduto; da quel momento in poi (è al minuto 4:35 del secondo tempo, dopo una lunga pausa sospesa, nell’edizione discografica di Claudio Arrau) i pensieri tornano a scorrere limpidi e sereni, fino alla conclusione finale.
E non può mancare il Fidelio, l’unica opera lirica di Beethoven, dove il soggetto è l’amore coniugale (qualcosa che fu negato all’autore) e dove c’è, nel primo atto, un quartetto costruito su una melodia semplicissima e infantile, quasi un altro carillon, costruito in maniera perfetta e dove ogni personaggio riesce ad esprimere con chiarezza assoluta i suoi sentimenti, e a farli arrivare fino a noi.
Mi prendo ancora un paio di righe, per una delle Bagatelles op.126 per pianoforte (non dico quale, sono brevissime e divertenti), per i Quartetti (gli ultimi sono vere imprese titaniche, vette da scalare che poi si aprono su panorami inaspettati), per le ultime Sonate, per le Variazioni su un valzer di Diabelli... E poi c’è qualcosa che forse conosciamo in pochi: fuori dal catalogo ufficiale, una lunga lista di canzoni scozzesi, irlandesi, britanniche, canzoni normali, però arrangiate dal giovane Ludwig van Beethoven. L’arrangiamento da solo vale il prezzo del biglietto, la copertina del cd la metto qui sotto.
(nelle illustrazioni, prese da riviste o da programmi di sala, il pianoforte di Beethoven e Beethoven giovane in una stampa d’epoca; i fumetti di Charles M. Schulz vengono dal mensile Linus, annate 1999 e 1966)