Gli insulti milanesi, quelli di una volta, non erano quasi mai veri insulti ma piuttosto epiteti, metafore, giochi di parole; anche e soprattutto perché il carattere dei milanesi, quelli veri, era molto aperto e accogliente, ben diverso da quello che si vuol far credere oggi. Le cose cambiavano più a nord, verso Varese, verso Como, dove c’era gente più chiusa, anche per motivi puramente geografici. A Milano, in un posto situato proprio in mezzo alle principali vie di comunicazione, non si guardava più di tanto alla provenienza e al colore della pelle, all’accento “strano” ci si faceva l’abitudine, l’importante era la persona in sè e come si comportava; e su queste basi si è costruita la fortuna della città. Va da sè che poi le cose cambiano, che conta molto come si dice una parola piuttosto che la parola in sè: una volta ho visto una donna arrabbiarsi moltissimo con un collega che l’aveva definita “Miss Italia”. La donna era molto bella e sempre elegante, ma non era più giovane; e quella frase, «va là, Miss Italia», detta in quel modo era davvero pesante, e aveva colto un nervo scoperto. Magari, in un’altra occasione, la signora ci avrebbe riso sopra; ma non in quel momento, non in quel modo, e soprattutto non da quella precisa persona.
Tornando a noi e al discorso sul dialetto, un epiteto che era molto comune e che oggi non si ascolta quasi più è “balabiòtt”. Quando da giovane si cominciava a scherzare con i più vecchi, sul lavoro, era facile sentirsi rispondere così: «Va là, balabiòtt». Non è propriamente un insulto: “ballabiotto” si può infatti definire un abitante di Ballabio, che è un paese vicino a Lecco; e Ballabio è anche un cognome piuttosto comune, nel lecchese e in Brianza. Magari gli abitanti di Ballabio tra di loro si chiamano ballabiesi, o ballabini, non lo so di preciso; sta di fatto che “ballabiotto” in dialetto milanese (e un po’ in tutta la Lombardia) si può scomporre in due parole, “balla” e “biotto”. Dato che “biotto” significa nudo, ecco dunque evocata la figura del danzatore nudo: uno che balla nudo è un matto, quindi se ti dicono “balabiòtt” ti stanno dando, con maggiore o minore delicatezza, del matto. Fino alla riforma Basaglia, negli anni ’60 (e purtroppo molto spesso ancora oggi, come si vede nelle cronache) i matti nel manicomio venivano spesso lasciati nudi; e comunque non c’era l’abitudine di andare in giro svestiti, nemmeno d’estate. Anche le minigonne e i pantaloncini corti, come si sa, cominciano a vedersi e ad essere cosa normale solo a partire dagli anni ’60.
La figura del danzatore nudo, del “balabiòtt”, mi ha fatto venire alla mente un altro insulto quasi scomparso: “pelabròkk” (scritto come lo avrebbe scritto Gadda). E’ un insulto scomparso, e difficilmente traducibile con precisione, per mancanza di materia prima: non tanto i milanesi in sè (siamo sinceri: chi lo parla più, il dialetto, a Milano? c’è qualcuno che ci prova, o che fa finta, ma parlare in dialetto è un’altra cosa) quanto i rami di gelso e la bachicoltura, cioè l’industria della seta. Infatti le brocche, anche in lingua italiana, sono i rami delle piante: “O Valentino vestito di nuovo...” (una volta la si studiava a memoria a scuola, è di Giovanni Pascoli, dai “Canti di Castelvecchio”)
Pelabròkk, o “pelabrocch” (stessa pronuncia) è dunque il pelatore di rami, i rami con le foglie presi dalla pianta del gelso e “pelati” per dar da mangiare ai bachi della farfalla Bombyx mori, che produce la seta. Fino agli anni ’50 era ancora possibile trovare in Lombardia qualcuno che allevava i bachi da seta, quand’ero bambino io c’erano ancora moltissimi gelsi per le strade e nei campi, ma da decenni la seta arriva tutta dalla Cina o dall’India, non si pelano più le brocche in Lombardia ma qualcuno ancora usa quest’epiteto che sta a significare “fannullone, persona da poco”: è un lavoro che può fare anche un bambino, e che non richiede nessuna particolare abilità. Si può però aggiungere che è un lavoro che va fatto tutti i giorni, con continuità, perché i bachi da seta nella loro fase di crescita mangiano moltissimo; e quindi raccogliere e “pelare” i rami del gelso non è proprio una cosa da poco, ma il significato ormai è quello e non lo si può cambiare.
Devo queste informazioni (oltre che alla lettura di Gadda e di Delio Tessa) a Nanni Svampa, a Dario Fo, a Piero Mazzarella, a Roberto Brivio, e a tutti quegli attori e cantanti che tengono ancora vivo il dialetto milanese; in particolare la sequenza “danzatore nudo scorticatore di rami”, detta con estrema pacatezza, l’ho sempre trovata molto divertente ed è un vero peccato che non la si possa quasi più ripetere.
Anche l’insulto milanese più famoso, il celeberrimo “pirla”, non è propriamente un insulto. “Pirlare” significa ruotare, roteare sul proprio asse come fa la trottola – e anche la trottola ormai temo che sia un giocattolo quasi scomparso, ma che è stato molto comune per secoli. Si dice ancora oggi comunemente, dalle mie parti, “pirlare in giro”: andare in giro senza costrutto. Per esempio, quando ti mandano da un ufficio all’altro e si perde tempo: “mi hanno fatto pirlare in giro per tutta la mattina”. Pirlare, ruotare come una trottola: la trottola si muove, e molto, ma è un movimento che non porta da nessuna parte.
A Como, dove sono nato, fino a pochi anni fa però l’insulto più comune era un altro: non “pirla” ma piuttosto “bìgul”, cioè “bìgolo”, una parola che usano molto anche i veneti. Per i veneti, “bìgolo” è qualsiasi cosa che abbia un aspetto più o meno cilindrico, compresi gli spaghetti. Anche gli spaghetti, se li guardate bene, sono infatti “bìgoli”, dei cilindri. La base è molto piccola rispetto all’altezza, ma sono pur sempre dei cilindri.
Però se si va sulle somiglianze e sulle metafore questo post rischia di diventare un po’ troppo osceno, ed è infatti vero che il perno della trottola è anch’esso, alla fin dei conti, come dire, un autentico bìgolo – ma qui mi fermo, ho già scritto troppo e non vorrei che poi qualche motore di ricerca finisse col censurarmi.
PS: quando morì Luchino Visconti (milanesissimo) chiesero un ricordo a Walter Chiari (veronese di Milano, di origini pugliesi), che aveva recitato per Visconti in “Bellissima” del 1953, con Anna Magnani. Walter Chiari disse (esiste il filmato) che quando Visconti gli fece leggere la sceneggiatura di “Rocco e i suoi fratelli” non potè fare a meno di dire: «Ma qui c’è un immigrato del Sud, c’è il pugilato, questa è la mia storia...perché non lo fai fare a me?». E Visconti gli rispose così, con estrema gentilezza e misurando bene le parole: «Perchè tì, balabiòtt, te set tropp vècc.». Walter Chiari sorrideva nel ricordarlo: eh sì, era vero. Nel 1960 Chiari aveva già quarant’anni, troppo vecchio per quella parte, che poi andò al ventenne Alain Delon.
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