In Germania, il cancelliere Willy Brandt era amatissimo e molto popolare, quasi una leggenda: un po’ come Kennedy in America. Ad ogni elezione, il suo partito vinceva con larga maggioranza.
Poi accadde che un suo stretto collaboratore fu colto con le mani nel sacco: era una spia dell’Est.
Brandt non era stato toccato direttamente, quel fatto riguardava solo quel suo collaboratore (Günther Guillaume, se non ricordo male); ma diede ugualmente le dimissioni. Quanto meno, aveva sbagliato a scegliersi i collaboratori: e questo bastava.
In America, qualche anno prima, il presidente Nixon era stato costretto a dimettersi per un motivo che visto oggi fa perfino sorridere: persone legate a lui avevano messo microspie nella sede del partito democratico. Lo scandalo Watergate era tutto qui, ridotto ai minimi termini: ne abbiamo viste di peggio. Anche Richard Nixon era stato eletto (due volte) con un vasto mandato popolare.
Tutto questo per dire che a me basta e avanza la condanna – magari una condanna definitiva: primo grado, appello e cassazione - intorno ai sette anni di carcere – di una sola persona per togliere dalla politica tutte le persone a lui strettamente vicine. Quanto meno, che facciano un passo indietro: anche se non hanno nessuna colpa personale, così come fece Willy Brandt.
Una condanna per corruzione è una cosa seria, soprattutto se capita a un politico, ancora di più a un ministro e dirigente di partito. L’altra sera in tv si parlava di queste cose, e uno si è chiesto se quel dibattito non fosse troppo lungo e pieno di dettagli difficili da capire, soprattutto per i giovani che all’epoca dei fatti non c’erano o erano troppo piccoli per capire: ecco, sono d’accordo. Secondo me questi dibattiti non hanno senso: se Cesare Previti è stato condannato a sette anni di carcere per corruzione, tutti quelli che stavano vicino a lui devono uscire dalla politica. Punto. Se non si comincia da qui...
N.B.: dopo le dimissioni di Brandt, il suo partito vinse le elezioni: con Helmut Schmidt alla guida. Dopo le dimissioni di Nixon, il partito repubblicano perse le elezioni successive, ma poi governò per 12 anni filati, con Reagan e con Bush; e poi - dopo Clinton - per altri otto anni filati, con Bush figlio. Insomma, a dare le dimissioni in questi casi ci si fa bella figura. Se non si comincia da qui...
PS: ho pubblicato questo post per la prima volta il 5 dicembre 2009, parlando in generale; stavolta c'è una dedica ed è per il ministro Scajola - ma niente di personale, s'intende. Prima o poi, si sa, ne salterà fuori un altro: basta aspettare.
PS2: ho pubblicato questo post per la seconda volta il 4 maggio 2010, e oggi è arrivata la condanna in appello a sette anni di carcere (sette anni di carcere, in appello) per Marcello Dell'Utri. Condanna per appoggio esterno alla mafia: alla mafia. Ripeto: sette anni di carcere, condanna in appello, mafia.
martedì 29 giugno 2010
giovedì 24 giugno 2010
Achille Campanile ( VI )
E' notte, ed ha paura della vita. Una volta aveva paura della morte, ma adesso ha paura della vita. Questo continuo agitarsi di tutti. Tutti fanno qualcosa. Tutti sono energici, tutti si sono sistemati, e lui no. Se appena uno si ferma, è travolto, non può più mettersi in carreggiata. Ma se ha paura della vita e della morte, dove deve andare?
Vita severa, scherzi, ma non vuoi che con te si scherzi.(Achille Campanile, il povero Piero, cap. I )
Ci sono giorni in cui, quando si passa davanti alle vetrine a specchio, ci si trova a posto; e giorni in cui è un disastro: la testa è troppo grande o troppo piccola, e non cade a piombo sulle spalle; anzi, è troppo in avanti o troppo indietro, come se fosse stata male avvitata. Gli unici specchi che ci danno soddisfazione sono quelli dove ci guardiamo abitualmente. Gli altri ci riserbano sempre delle sorprese.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. XX )
Se si vedesse la vita scorrer tutta in pochi minuti, ci accorgeremmo di aver commesso delitti, che non sembran tali perché diluiti nel tempo. Ma, concentrati, lo sembrerebbero. Abbiamo commesso delitti con la complicità del tempo.(Achille Campanile, In campagna è un'altra cosa, cap.III )
- Via, - dissi - non si riscaldi. Per farle piacere, darò quattro calci al mio cane.
- Lui non ha colpa. La colpa è del padrone, che dovrebbe badarvi.
- Va bene, - dico - darò quattro calci a mio zio, che è il padrone.(Achille Campanile, In campagna è un'altra cosa, cap.I )
Ho teso corde da campanile a campanile
ghirlande da finestra a finestra
catene d'oro da stella a stella
e danzo.(Arthur Rimbaud, les illuminations)
Vita severa, scherzi, ma non vuoi che con te si scherzi.(Achille Campanile, il povero Piero, cap. I )
Ci sono giorni in cui, quando si passa davanti alle vetrine a specchio, ci si trova a posto; e giorni in cui è un disastro: la testa è troppo grande o troppo piccola, e non cade a piombo sulle spalle; anzi, è troppo in avanti o troppo indietro, come se fosse stata male avvitata. Gli unici specchi che ci danno soddisfazione sono quelli dove ci guardiamo abitualmente. Gli altri ci riserbano sempre delle sorprese.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. XX )
Se si vedesse la vita scorrer tutta in pochi minuti, ci accorgeremmo di aver commesso delitti, che non sembran tali perché diluiti nel tempo. Ma, concentrati, lo sembrerebbero. Abbiamo commesso delitti con la complicità del tempo.(Achille Campanile, In campagna è un'altra cosa, cap.III )
- Via, - dissi - non si riscaldi. Per farle piacere, darò quattro calci al mio cane.
- Lui non ha colpa. La colpa è del padrone, che dovrebbe badarvi.
- Va bene, - dico - darò quattro calci a mio zio, che è il padrone.(Achille Campanile, In campagna è un'altra cosa, cap.I )
Ho teso corde da campanile a campanile
ghirlande da finestra a finestra
catene d'oro da stella a stella
e danzo.(Arthur Rimbaud, les illuminations)
martedì 22 giugno 2010
Compagno
“Due scarpe compagne” sono due scarpe uguali: in tutta l’Emilia, “compagno” è sinonimo di “uguale”. «Kostké l’è compägn», “questo qui è uguale”, vi sentirete dire al mercato o in un negozio se cercate qualcosa di simile a quello che state cercando: compagno, uguale.
Questo significato della parola “compagno” è diffuso un po’ per tutta la Pianura Padana, anche in Veneto si usano espressioni simili – pardon, “compagne”.
Di conseguenza, essendo emiliano per parte materna, quando sento persone che storcono il naso di fronte a questa parola mi meraviglio sempre (ancora oggi) e mi chiedo cosa c’è dietro. Uno psicoanalista potrebbe lavorare molto, su questa paura di essere uguali; di certo nessuno di noi vuole essere uguale ad un altro, è un sentimento naturale: io uguale a quello là? Ma no, ma dai, ma va là. E se poi “quello là” è povero, peggio ancora. No, meglio non essere “compagni” di un povero...
« Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo.»
(Atti degli Apostoli 2, 44-47)
Questo significato della parola “compagno” è diffuso un po’ per tutta la Pianura Padana, anche in Veneto si usano espressioni simili – pardon, “compagne”.
Di conseguenza, essendo emiliano per parte materna, quando sento persone che storcono il naso di fronte a questa parola mi meraviglio sempre (ancora oggi) e mi chiedo cosa c’è dietro. Uno psicoanalista potrebbe lavorare molto, su questa paura di essere uguali; di certo nessuno di noi vuole essere uguale ad un altro, è un sentimento naturale: io uguale a quello là? Ma no, ma dai, ma va là. E se poi “quello là” è povero, peggio ancora. No, meglio non essere “compagni” di un povero...
« Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo.»
(Atti degli Apostoli 2, 44-47)
Achille Campanile ( V )
Malgrado l'ora tarda, il vecchio eremita stava con le dita nel naso.
- Mi scusino, - disse ai nuovi venuti - ma noi eremiti stiamo sempre con le dita nel naso, perché nessuno ci vede. E' l'unico vantaggio della nostra solitudine, e avremmo torto a non approfittarne.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. X )
"Non si può leggere Campanile senza avere presente tutta la tradizione del romanzo ottocentesco, da Dumas a Salgari, sino a D'Annunzio. I personaggi di Campanile gridano "tuoni d'Amburgo!", hanno sorrisi che più nulla hanno d'umano ed esplodono in risate sataniche mentre il cuore batte loro vistosamente sotto il corsetto. (...) Certamente il riferimento costante è il romanzo d'appendice. Uno degli elementi fondamentali del feuilleton è l'agnizione, e sull'agnizione Campanile gioca, portandola all'esasperazione e poi negandola." (Umberto Eco, prefazione a "Ma che cosa è questo amore", ed. Corbaccio)
- Che ella non sappia mai - mormorò, con lo sguardo fisso nel vuoto. E, per fare commedia, disse forte:
- Io partirò. Anderò a Parigi. Spero di trovare il mare calmo.
- Ma che dici? - mormorò Filippo - A Parigi non c'è il mare.
- Allora, -disse Guerrando ad alta voce, perché tutti udissero, - spero di trovarlo calmo al mio ritorno qui.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. XVIII )
- Mi scusino, - disse ai nuovi venuti - ma noi eremiti stiamo sempre con le dita nel naso, perché nessuno ci vede. E' l'unico vantaggio della nostra solitudine, e avremmo torto a non approfittarne.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. X )
"Non si può leggere Campanile senza avere presente tutta la tradizione del romanzo ottocentesco, da Dumas a Salgari, sino a D'Annunzio. I personaggi di Campanile gridano "tuoni d'Amburgo!", hanno sorrisi che più nulla hanno d'umano ed esplodono in risate sataniche mentre il cuore batte loro vistosamente sotto il corsetto. (...) Certamente il riferimento costante è il romanzo d'appendice. Uno degli elementi fondamentali del feuilleton è l'agnizione, e sull'agnizione Campanile gioca, portandola all'esasperazione e poi negandola." (Umberto Eco, prefazione a "Ma che cosa è questo amore", ed. Corbaccio)
- Che ella non sappia mai - mormorò, con lo sguardo fisso nel vuoto. E, per fare commedia, disse forte:
- Io partirò. Anderò a Parigi. Spero di trovare il mare calmo.
- Ma che dici? - mormorò Filippo - A Parigi non c'è il mare.
- Allora, -disse Guerrando ad alta voce, perché tutti udissero, - spero di trovarlo calmo al mio ritorno qui.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. XVIII )
lunedì 21 giugno 2010
Radici cristiane
Non dirò che mi sono fatto quattro risate, leggendo e ascoltando in questi giorni le dichiarazioni dei vertici Fiat (Marchionne), dei vertici Confindustria (la signora Emma Marcegaglia), di esponenti del Governo Italiano (Umberto Bossi, Calderoli, Castelli, La Russa), e anche di autorevoli opinionisti e commentatori (lista interminabile); non mi sono messo a ridere perché l’argomento è serissimo, drammatico. Ma, mettendo in fila tutte queste dichiarazioni e pensando ai continuamente risorgenti dibattiti sulle “radici cristiane” dell’Europa e del nostro Paese, uno sghignazzo ci può anche stare; ed è uno sghignazzo preoccupatissimo, un riso davvero amaro.
Marchionne, per esempio, sfotte i lavoratori: dice che scioperano per vedere le partite di calcio, e che c’è assenteismo, e che allora vado in Polonia dove fanno meno storie. La signora Marcegaglia spiega alle donne che è giusto lavorare fino a settant’anni; e lo spiega nei dettagli, con un ghignetto soddisfatto, anche lei come Marchionne. Silvio Berlusconi dalla sua dorata cadrega di premier vara una manovra di sacrifici (per gli altri) proprio mentre suo figlio vara uno yacht enorme nuovo nuovo, lussuosissimo. Umberto Bossi e i vertici della Lega hanno una sola cosa in testa: federalismo (non equivochino gli Svizzeri e i Tedeschi: la traduzione letterale è “magna magna”), con secessione inclusa, così i problemi di quelli là se li risolvono loro, che non se ne può più dei poveri ed è giusto che i poveri non mangino alla mensa insieme ai miei figli.
Eccetera: si potrebbe continuare per pagine e pagine, e sono tutte dichiarazioni autentiche, spontanee, entusiaste, ineccepibilmente registrate da tutti i telegiornali.
Provo a dare qualche risposta alle battute idiote e alle asserzioni senza diritto di replica: l'assenteismo può anche essere dovuto alle madri e ai padri che vogliono stare dietro ai figli quando si ammalano, o quando ce n'è bisogno per evitare che finiscano male; la pensione a settant'anni può andar bene per i notai, gli avvocati, i parlamentari e i figli di papà (o le figlie di papà) che si sono trovati ricchi e felici senza nemmeno aver avuto bisogno di chiederlo; ma il pensiero di un muratore di sessantotto anni che va su e giù da un ponteggio mi fa soltanto spavento. Eccetera, anche qui gli esempi potrebbero essere infiniti: ma chi se ne frega, c'è da fare i sacrifici, lo chiede l'UE, c'è il deficit del bilancio, e io che c'entro?
Tutte queste persone sono in prima fila (primissima) quando c’è da fare un richiamo alle radici cristiane. Da quanto tempo questa gente non legge il Vangelo? Hanno almeno una vaga idea di quello che significa Cristianesimo? Da quello che dicono e da come si comportano, si direbbe di no: tra Dio e Mammona (Matteo 6,24 e Luca 16,13) hanno scelto Mammona senza ombra di dubbio e senza la minima esitazione.
Marchionne, per esempio, sfotte i lavoratori: dice che scioperano per vedere le partite di calcio, e che c’è assenteismo, e che allora vado in Polonia dove fanno meno storie. La signora Marcegaglia spiega alle donne che è giusto lavorare fino a settant’anni; e lo spiega nei dettagli, con un ghignetto soddisfatto, anche lei come Marchionne. Silvio Berlusconi dalla sua dorata cadrega di premier vara una manovra di sacrifici (per gli altri) proprio mentre suo figlio vara uno yacht enorme nuovo nuovo, lussuosissimo. Umberto Bossi e i vertici della Lega hanno una sola cosa in testa: federalismo (non equivochino gli Svizzeri e i Tedeschi: la traduzione letterale è “magna magna”), con secessione inclusa, così i problemi di quelli là se li risolvono loro, che non se ne può più dei poveri ed è giusto che i poveri non mangino alla mensa insieme ai miei figli.
Eccetera: si potrebbe continuare per pagine e pagine, e sono tutte dichiarazioni autentiche, spontanee, entusiaste, ineccepibilmente registrate da tutti i telegiornali.
Provo a dare qualche risposta alle battute idiote e alle asserzioni senza diritto di replica: l'assenteismo può anche essere dovuto alle madri e ai padri che vogliono stare dietro ai figli quando si ammalano, o quando ce n'è bisogno per evitare che finiscano male; la pensione a settant'anni può andar bene per i notai, gli avvocati, i parlamentari e i figli di papà (o le figlie di papà) che si sono trovati ricchi e felici senza nemmeno aver avuto bisogno di chiederlo; ma il pensiero di un muratore di sessantotto anni che va su e giù da un ponteggio mi fa soltanto spavento. Eccetera, anche qui gli esempi potrebbero essere infiniti: ma chi se ne frega, c'è da fare i sacrifici, lo chiede l'UE, c'è il deficit del bilancio, e io che c'entro?
Tutte queste persone sono in prima fila (primissima) quando c’è da fare un richiamo alle radici cristiane. Da quanto tempo questa gente non legge il Vangelo? Hanno almeno una vaga idea di quello che significa Cristianesimo? Da quello che dicono e da come si comportano, si direbbe di no: tra Dio e Mammona (Matteo 6,24 e Luca 16,13) hanno scelto Mammona senza ombra di dubbio e senza la minima esitazione.
domenica 20 giugno 2010
Gulag e crociate
Ho letto poco di Josè Saramago, e me ne dispiace molto perché quello che ho letto era di altissima qualità; ma si fa spesso così, si rimanda, ed è un peccato. Di conseguenza, non avrei parlato di Saramago se non fosse stato per un titolo che mi ha colpito: l’Osservatore Romano che gli rimprovera di aver parlato delle Crociate ma non dei gulag.
Che dire? La prima cosa che mi è venuta in mente è che non si può parlare di tutto e occuparsi di tutto: probabilmente Saramago aveva un interesse particolare verso le Crociate. C’è chi si occupa del periodo napoleonico, chi di Roma antica, si vede che a Saramago piaceva quel periodo storico.
Ma poi, subito dopo, ho pensato: che bisogno c’è di condannare i gulag? Sui gulag la condanna è unanime, la verità è nota fin dalla morte di Stalin: cioè dal 1953. Dal 1953 in qua, nessuno ha mai contestato la verità sui gulag: tanto più che le notizie sui gulag, con i dettagli, furono diffuse dagli stessi vertici dell’URSS. Io sono nato nel 1958, e da che mi ricordo non ho mai trovato nessuno che fosse nostalgico di Stalin, o che parlasse bene di Stalin; ho trovato alcuni rari e sporadici leninisti (Lotta Comunista), ma stalinisti mai. Perché dunque Saramago avrebbe dovuto sfondare una porta aperta? Le Crociate invece hanno un’attualità, un riflesso nel presente; normale che ci sia chi se ne occupa ancora, anche al di fuori degli specialisti.
Piuttosto, come mai la Chiesa tace sul rinascente nazifascismo? Questa sì che è un dato preoccupante: l’ultima volta che ci fu un tale numero di fascisti e nazisti in Europa correva l’anno 1939, e si sa cosa venne dopo il 1939: vennero il 1940, 1941, 1942, 1943...
Piuttosto, come mai la Chiesa tace sulle dittature cilene e argentine degli anni ’70? Ci sono addirittura delle foto imbarazzantissime, con papa Woytila a braccetto di Pinochet, in anni ancora recenti, quando la verità sui campi di concentramento cileni e sui desaparecidos era lampante e documentatissima.
Dei gulag si parla poco perché non c’è bisogno di parlarne, la condanna è sempre stata unanime anche e soprattutto a sinistra: ecco probabilmente la ragione per cui Saramago non ha sentito il bisogno di parlarne. Volendo fare cosa utile, bisognerebbe forse tornare a parlare di cosa è successo in Serbia e in Croazia in anni recentissimi, o di cosa succede ancora oggi con le navi dei migranti africani... Ma forse è chiedere troppo, i tempi sono questi e non sono bei tempi.
PS: già che ci sono, un saluto affettuoso a Dino Boffo, ex direttore dell’Avvenire, quotidiano dei vescovi. Spero che stia bene e che se la passi bene, nonostante tutto.
Che dire? La prima cosa che mi è venuta in mente è che non si può parlare di tutto e occuparsi di tutto: probabilmente Saramago aveva un interesse particolare verso le Crociate. C’è chi si occupa del periodo napoleonico, chi di Roma antica, si vede che a Saramago piaceva quel periodo storico.
Ma poi, subito dopo, ho pensato: che bisogno c’è di condannare i gulag? Sui gulag la condanna è unanime, la verità è nota fin dalla morte di Stalin: cioè dal 1953. Dal 1953 in qua, nessuno ha mai contestato la verità sui gulag: tanto più che le notizie sui gulag, con i dettagli, furono diffuse dagli stessi vertici dell’URSS. Io sono nato nel 1958, e da che mi ricordo non ho mai trovato nessuno che fosse nostalgico di Stalin, o che parlasse bene di Stalin; ho trovato alcuni rari e sporadici leninisti (Lotta Comunista), ma stalinisti mai. Perché dunque Saramago avrebbe dovuto sfondare una porta aperta? Le Crociate invece hanno un’attualità, un riflesso nel presente; normale che ci sia chi se ne occupa ancora, anche al di fuori degli specialisti.
Piuttosto, come mai la Chiesa tace sul rinascente nazifascismo? Questa sì che è un dato preoccupante: l’ultima volta che ci fu un tale numero di fascisti e nazisti in Europa correva l’anno 1939, e si sa cosa venne dopo il 1939: vennero il 1940, 1941, 1942, 1943...
Piuttosto, come mai la Chiesa tace sulle dittature cilene e argentine degli anni ’70? Ci sono addirittura delle foto imbarazzantissime, con papa Woytila a braccetto di Pinochet, in anni ancora recenti, quando la verità sui campi di concentramento cileni e sui desaparecidos era lampante e documentatissima.
Dei gulag si parla poco perché non c’è bisogno di parlarne, la condanna è sempre stata unanime anche e soprattutto a sinistra: ecco probabilmente la ragione per cui Saramago non ha sentito il bisogno di parlarne. Volendo fare cosa utile, bisognerebbe forse tornare a parlare di cosa è successo in Serbia e in Croazia in anni recentissimi, o di cosa succede ancora oggi con le navi dei migranti africani... Ma forse è chiedere troppo, i tempi sono questi e non sono bei tempi.
PS: già che ci sono, un saluto affettuoso a Dino Boffo, ex direttore dell’Avvenire, quotidiano dei vescovi. Spero che stia bene e che se la passi bene, nonostante tutto.
sabato 19 giugno 2010
Achille Campanile ( IV )
Andiamo a fare colazione a Nervi. Che cosa strana: questa costiera è battuta dal sole dall’alba al tramonto, è esposta a mezzogiorno, pure ha qualcosa di nordico. Forse è il suo mare deserto, o sono le sue rocce strapiombanti, o le lontane terre azzurrognole all’orizzonte, che fanno pensare alla Norvegia. E’ un’idea, s’intende, che viene a quelli che non sono mai stati in Norvegia. Ma il senso esatto d’un paese non possono averlo che quelli che non ci sono mai stati.( Achille Campanile, "Battista al Giro d’Italia" )
Come dice Umberto Eco nella prefazione a "Ma che cosa è questo amore" (ed. Corbaccio), "L'esempio più bello è quello di Cervantes: tutto quello che Don Chisciotte fa è comico. Ma Cervantes non si limita a ridere d'un pazzo che scambia un mulino a vento per un gigante. Cervantes lascia capire che anche lui, Cervantes, potrebbe essere Don Chisciotte - anzi lo è. Come Don Chisciotte, ha combattuto contro i turchi credendo in un ideale di cui ora dubita, ha perso una mano e la libertà, non ha trovato la gloria. Il Don Quijote è perciò un grande romanzo umoristico."
- Per amare, - disse Carl'Alberto, - per sognare, non ci voglion palazzi incantati. Bastano due cuori innamorati e una piccola casa in riva al mare.
Tuttavia, Lucy fece osservare che, non essendovi a portata di mano una piccola casa in riva al mare, era forse più opportuno raggiungere in albergo la baronessa Irene, che certo li aspettava. Così fecero. Ma la baronessa riposava ancora, a giudicare dal rumore che s'udiva salendo le scale.
A questo punto sarà bene lasciarli un po' soli. In attesa che tornino all'aperto, l'Autore, per passare il tempo, condurrà i lettori a fare una passeggiatina per l'isola di Capri.
Volete? Allora andiamo.
Questa è Capri, questa è Anacapri, Marina piccola, Marina grande, salto di Tiberio e Faraglioni.
Ecco fatto. Non c'è altro da vedere.
Siccome è troppo presto per andare a disturbare il riposo di Carl'Alberto e di Lucy, fermiamoci un po' al caffè. (...)(Achille Campanile, Ma che cosa è questo amore, cap. VIII)
Come dice Umberto Eco nella prefazione a "Ma che cosa è questo amore" (ed. Corbaccio), "L'esempio più bello è quello di Cervantes: tutto quello che Don Chisciotte fa è comico. Ma Cervantes non si limita a ridere d'un pazzo che scambia un mulino a vento per un gigante. Cervantes lascia capire che anche lui, Cervantes, potrebbe essere Don Chisciotte - anzi lo è. Come Don Chisciotte, ha combattuto contro i turchi credendo in un ideale di cui ora dubita, ha perso una mano e la libertà, non ha trovato la gloria. Il Don Quijote è perciò un grande romanzo umoristico."
- Per amare, - disse Carl'Alberto, - per sognare, non ci voglion palazzi incantati. Bastano due cuori innamorati e una piccola casa in riva al mare.
Tuttavia, Lucy fece osservare che, non essendovi a portata di mano una piccola casa in riva al mare, era forse più opportuno raggiungere in albergo la baronessa Irene, che certo li aspettava. Così fecero. Ma la baronessa riposava ancora, a giudicare dal rumore che s'udiva salendo le scale.
A questo punto sarà bene lasciarli un po' soli. In attesa che tornino all'aperto, l'Autore, per passare il tempo, condurrà i lettori a fare una passeggiatina per l'isola di Capri.
Volete? Allora andiamo.
Questa è Capri, questa è Anacapri, Marina piccola, Marina grande, salto di Tiberio e Faraglioni.
Ecco fatto. Non c'è altro da vedere.
Siccome è troppo presto per andare a disturbare il riposo di Carl'Alberto e di Lucy, fermiamoci un po' al caffè. (...)(Achille Campanile, Ma che cosa è questo amore, cap. VIII)
giovedì 17 giugno 2010
Achille Campanile ( III )
L'amore è come la vita, che è sua figlia: senza che lo chiamiamo viene, ci tormenta un po' e poi passa. E' questo il suo lato migliore e più amaro. L'amore, come la vita, si fa sentire finché ci strapazza. E, quando ha finito di strapazzarci, non esiste più.
(Achille Campanile, Ma che cosa è questo amore, cap. XIV)
Come tutti i grandi umoristi, anche Campanile è un buon filosofo; e spesso è anche incline al pessimismo. Come tutti i grandi scrittori (e anche i grandi musicisti sono fatti così) , quando meno te lo aspetti ti colpisce con qualcosa che va diritto al cuore, e lo fa senza preavviso.
- Siamo come cristalli, - spiegò il ragazzo con bontà - un niente ci incrina. E ci diamo botte tremende l'un l'altro.(Achille Campanile, Manuale di conversazione, dal racconto "Solo per l'eternità")
D'altra parte, però, sappiamo con certezza che Campanile non si fida molto dei filosofi; e i pensatori di professione li mette nei suoi libri solo come personaggi di spalla.
Ai liquori, il pensatore chiuse gli occhi.
- Pensa? - gli domandò il barone.
Il pensatore si riscosse.
- Che crede, - disse - che io pensi sempre? Non ci mancherebbe altro. Ogni tanto mi riposo.
- Ma, giusto, - chiese ancora il barone - come ha fatto a diventare pensatore ?
L'altro si fece scuro in volto:
- Io - esclamò - non ero nato per fare il pensatore.
Scoppiò in una risata spaventevole, girando lo sguardo sui commensali.
- No, - aggiunse dopo un minuto. - Altri ideali mi sorridevano. Ma, si sa, noi siamo come le foglie al vento. La vita ci prende, a poco a poco ci piega, ci fiacca, ci deforma. A ogni ora le facciamo una concessione sempre più grave e un giorno ci troviamo cosí diversi da come ci eravamo visti nello specchio della prima giovinezza! La vita? Ah sì, un seguito di rimedi peggiori del male...(Achille Campanile, Ma che cosa è questo amore, cap. XIII)
(Achille Campanile, Ma che cosa è questo amore, cap. XIV)
Come tutti i grandi umoristi, anche Campanile è un buon filosofo; e spesso è anche incline al pessimismo. Come tutti i grandi scrittori (e anche i grandi musicisti sono fatti così) , quando meno te lo aspetti ti colpisce con qualcosa che va diritto al cuore, e lo fa senza preavviso.
- Siamo come cristalli, - spiegò il ragazzo con bontà - un niente ci incrina. E ci diamo botte tremende l'un l'altro.(Achille Campanile, Manuale di conversazione, dal racconto "Solo per l'eternità")
D'altra parte, però, sappiamo con certezza che Campanile non si fida molto dei filosofi; e i pensatori di professione li mette nei suoi libri solo come personaggi di spalla.
Ai liquori, il pensatore chiuse gli occhi.
- Pensa? - gli domandò il barone.
Il pensatore si riscosse.
- Che crede, - disse - che io pensi sempre? Non ci mancherebbe altro. Ogni tanto mi riposo.
- Ma, giusto, - chiese ancora il barone - come ha fatto a diventare pensatore ?
L'altro si fece scuro in volto:
- Io - esclamò - non ero nato per fare il pensatore.
Scoppiò in una risata spaventevole, girando lo sguardo sui commensali.
- No, - aggiunse dopo un minuto. - Altri ideali mi sorridevano. Ma, si sa, noi siamo come le foglie al vento. La vita ci prende, a poco a poco ci piega, ci fiacca, ci deforma. A ogni ora le facciamo una concessione sempre più grave e un giorno ci troviamo cosí diversi da come ci eravamo visti nello specchio della prima giovinezza! La vita? Ah sì, un seguito di rimedi peggiori del male...(Achille Campanile, Ma che cosa è questo amore, cap. XIII)
martedì 15 giugno 2010
Monteverdiana ( II )
Dal SECONDO LIBRO DEI MADRIGALI di Claudio MONTEVERDI:
tre poesie.
Dolcissimi legami
di parole amorose
che mi legò da scherzo e non mi scioglie:
così egli dunque scherza, e così coglie?
Così l'alme legate
sono ne le catene insidiose;
almen chi si m'allaccia,
mi leghi ancor fra quelle dolci braccia.
(Torquato Tasso)
Non sono in queste rive
fiori così vermigli
come le labbra de la donna mia;
né il suon de l'aure estive
tra fonti e rose e gigli
fan del suo canto piu dolce armonia.
Canto che m'ardi e piaci,
t'interrompano solo i nostri baci!
(Torquato Tasso)
Dolcemente dormiva la mia Clori
e intorno al suo bel volto
givan scherzando i pargoletti amori.
Mirava io, da me tolto,
con gran diletto lei;
quando dir mi sentei: «Stolto, che fai?
Tempo perduto non s'acquista mai!»
Allor io mi chinai, così pian piano;
e baciandole il viso
provai quanta dolcezza ha il Paradiso.
(Torquato Tasso)
tre poesie.
Dolcissimi legami
di parole amorose
che mi legò da scherzo e non mi scioglie:
così egli dunque scherza, e così coglie?
Così l'alme legate
sono ne le catene insidiose;
almen chi si m'allaccia,
mi leghi ancor fra quelle dolci braccia.
(Torquato Tasso)
Non sono in queste rive
fiori così vermigli
come le labbra de la donna mia;
né il suon de l'aure estive
tra fonti e rose e gigli
fan del suo canto piu dolce armonia.
Canto che m'ardi e piaci,
t'interrompano solo i nostri baci!
(Torquato Tasso)
Dolcemente dormiva la mia Clori
e intorno al suo bel volto
givan scherzando i pargoletti amori.
Mirava io, da me tolto,
con gran diletto lei;
quando dir mi sentei: «Stolto, che fai?
Tempo perduto non s'acquista mai!»
Allor io mi chinai, così pian piano;
e baciandole il viso
provai quanta dolcezza ha il Paradiso.
(Torquato Tasso)
lunedì 14 giugno 2010
L'armatura morbida
La storia è questa: tre sarti si presentano dal Re, e gli propongono un modello nuovissimo in esclusiva. Si tratta dell'armatura morbida: mai sentita nominare? Il Re è curioso e la vuole provare; la indossa con fatica e gli sembra rigida come le altre, ma i tre sarti lo rassicurano: "una volta che l'avrete indosso non vorrete più toglierla!".
Davanti allo specchio, il buon Re è perplesso:
- Bella, anche se terribilmente pesante.
- Naturale. All'inizio è sempre così. Il prezzo è 13.847,50.
- 13.847,50 ??
- E' argentata. Modello De Luxe. Per i Capi di Stato.
Il Re compra, e va a casa dove trova sua moglie che gli chiede cosa fa con quell'affare indosso.
- Ma è l'armatura morbida, cara. E' morbida, leggerissima.
Ma non appena il Re si siede, a tavola, la sedia si schianta sotto il peso.
- Credo che ti abbiano fatto su, caro.
- Il Re non si fa mai fare su: ho bisogno di una sedia morbidizzata, ecco tutto.
La storia, a fumetti, è opera del cartoonist Bob Blechman, e l'ho ritrovata su un vecchio numero di Linus (molto vecchio: del 1973). E' una variante della favola di Andersen (I vestiti nuovi dell'Imperatore) , e la trovo sempre più inquietante più vedo come prosegue il mondo.
I disegni non sono belli, e anche la storia non è delle più allegre: ma non so cosa farci, mi torna sempre in mente e provo a liberarmene riassumendola qui (occupa sette pagine, nell'originale...)
E dunque il Re si rivolge ancora ai tre sarti, che gli forniscono anche la sedia morbidizzata: costosissima, enorme, e pesante. Ma, siccome il Re ha questa nuova armatura morbida, tutta la corte si adegua: anche le dame e i cavalieri corrono a comperare l'armatura morbida, ormai indispensabile.
E così ecco come si presenta il Castello del Re: moglie morbidizzata, letto morbidizzato, cortigiani e ministri morbidizzati, e perfino il gatto ha la sua armatura morbida, anche se il Re, distratto, finisce col pestargli la coda. Ma ecco che, dalla lontana Università, torna il figlio del Re: senza armatura, perché fin là la nuova moda non è ancora arrivata.
E siamo alla tragedia: il Re stringe al petto l'amato figlio, e l'armatura morbida lo uccide. Disperazione, cosa mai è successo? Come è potuto succedere?
La Regina ha la risposta pronta: - Quella tua armatura morbida!
I due genitori si raccolgono sul corpo del principe, piangendo. La Regina si rialza e dice:
- Spero che tu abbia imparato la lezione.
- Oh sì, oh sì... - dice il Re, disperato. - In un mondo senza armatura morbida, nessuno è sicuro.
Sipario, e fine della tragedia a fumetti. Se anche a voi è venuto in mente qualche paragone con il mondo reale, penso proprio che non si tratti di un caso.
PS: Questo post è già stato pubblicato il 28 dicembre 2009. Lo ripubblico oggi perché ho appena letto che il ministo Maroni vuole mettere i "body scanner" anche nelle stazioni ferroviarie. Per quanto riguarda me, cercherò di non viaggiare mai più: se anche per andare da Milano a Bologna bisogna sottoporsi a queste cose, significa che è ormai finita, hanno vinto i terroristi.
Va' pensiero
L'idea di usare il "Va' pensiero" come inno nazionale risale ad Enzo Tortora e al suo programma televisivo Portobello, molto popolare negli anni '70 : e questo la dice lunga sulla preparazione e la cultura di chi porta avanti questa idea.
Certamente, il coro dal terzo atto del Nabucco di Giuseppe Verdi (1842) è un brano musicale molto bello e toccante: ma è del tutto inadatto a svolgere la funzione di inno nazionale, come ben sanno i musicisti e gli appassionati d'opera. Per sapere, basterebbe chiedere.
Innanzitutto, questo coro va cantato piano : l'inizio è quasi inintellegibile, e poi la voce sale gradualmente, ma senza mai toccare l'emissione a piena voce, né tantomeno l'urlo che lo storpia in tante esecuzioni assembleari. Dovendo essere cantato a mezza voce, diventa molto difficile per chi non è cantante di professione; e chi non sa cantare, come me, è meglio che canti qualcos'altro.
E poi il soggetto: l'episodio biblico degli Ebrei a Babilonia, che sono schiavi e sottomessi e rimpiangono la Patria lontana ( O mia Patria sì bella e perduta...). Tanto è vero che, alla fine del famoso coro, arriva Zaccaria, il "Gran Pontefice degli Ebrei", e rimprovera aspramente il suo popolo: non si deve perdere la Fede! Bisogna aver Fede nel Signore, e anche saper reagire alle avversità senza rassegnarsi, dice nella sua aria Zaccaria (voce di basso) al coro che aveva appena cantato il "va' pensiero": che è un canto del ricordo e della nostalgia, del tutto inadatto alla funzione di inno nazionale. Un canto bellissimo, ma è questo il concetto che esprime. Basterebbe chiedere, informarsi, leggere...
L'immagine: Nabucco a Firenze, anno 1977
PS: questo post è del 2003, e speravo tantissimo di non doverlo più ripubblicare. Della questione si è occupato più volte, per esempio, Riccardo Muti: che ha spiegato, più volte, perché il coro dell'atto terzo del Nabucco non è adatto come inno nazionale. E' musica bellissima, ma non è adatto come inno nazionale.
PPS: sui giornali ho letto "il coro del Nabucco": ma di cori, nel Nabucco di Giuseppe Verdi, ce ne sono altri. Per esempio, l'opera si apre così:
Gli arredi festivi giù cadano infranti
il popol di Giuda di lutto s'ammanti
(versi di Temistocle Solera, anno 1842)
domenica 13 giugno 2010
Svampa
Giuliano 27 agosto 2005
Vedo in tv (una tv piccola, di quelle locali) una lunga intervista a Nanni Svampa. Svampa faceva cabaret con i Gufi, 40 anni fa; poi si è specializzato in canzoni milanesi e lombarde, diventando un punto di riferimento assoluto. E qui viene da pensare, perché cantare canzoni milanesi, 40 anni fa o anche 30, era una cosa di sinistra. Nanni Svampa non ha mai preso posizioni politiche precise, penso che sia una persona che guarda con occhio critico alle cose del mondo, ma non saprei dire se è di sinistra e del resto la cosa non ha importanza. Però di sinistra (comunista) era Roberto Leydi, il massimo etnomusicologo italiano, scomparso l'anno scorso, che si ispirava a Béla Bartok e ad Alan Lomax, pionieri del recupero della tradizione popolare balcanica e anglo-americana. Di sinistra è Giovanna Marini, e di sinistra è Giancarlo Nostrini, che da una ventina d'anni tiene su Radio Popolare una bella rubrica settimanale dedicata alla musica popolare di tutto il mondo ( la domenica alle 20). Il dialetto era di sinistra, perché in dialetto si esprimevano operai e contadini, ed era bello andarsi a cercare i canti popolari delle mondine e degli operai, degli anarchici (come De André) e della Resistenza alla dittatura fascista.
Ma poi cos'è successo? Il mio dialetto, il mio bel dialetto milanese che una volta faceva sorridere perché rimandava a Gino Bramieri, a Tino Scotti, a Piero Mazzarella, oggi è diventato in quasi tutta Italia sinonimo di razzismo e di arroganza. Basta accennare una mezza battuta in milanese e si passa per razzisti. E' successo, sarà ben difficile riparare i danni, e sappiamo bene chi sono i responsabili di questo grave danno d'immagine.
Anche Svampa, l'altra sera, sia pure senza sbilanciarsi troppo ( Svampa è un signore, e non perde tempo a fare polemiche) ha detto e ripetuto alcune cose, non di sinistra ma di semplice buon senso, che vorrei provare a riassumere. Innanzitutto che Milano, proprio per la sua natura di "terra di mezzo" (Mediolanum) è sempre stata aperta a tutti; e poi che il dialetto è una lingua viva, che si modifica in continuazione e che è aperta a tutte le influenze: il milanese di Carlo Porta risale ormai a quasi 200 anni fa, non lo parla più nessuno da decenni ed è giusto che sia così. E, soprattutto, che il dialetto serve per comunicare con gli altri, e non per chiudersi. Infine, che i cartelli "bilingui" all'ingresso dei comuni sono una cosa simpatica, ma per l'80% sono sbagliati, o nell'ortografia o nel nome originario del toponimo.
Ma poi il dialetto non lo parla più nessuno, soprattutto a Milano; e anch'io sono messo molto male, visto che in casa mia si parlava solo l'italiano. Però ho scritto "dialetto milanese", e non "lombardo": parlare di dialetto lombardo, o magari di lingua lombarda, non ha senso. Io abito in una storica zona di confine, tra Como e Milano: e non è uno scherzo, il confine c'era davvero. Risale al tempo del Barbarossa, ma c'era; e, fino a qualche anno fa, alle orecchie attente era possibile percepirlo. Esisteva un confine linguistico tra Como e Milano, ma anche tra Como e Varese, e addirittura tra paese e paese; ma tutto questo è sparito, appiattito e omologato. Rimane solo l'arroganza di chi crede di parlare a nome di tutti i lombardi, e invece ne rappresenta solo una minima parte.
(27 agosto 2005)
Vedo in tv (una tv piccola, di quelle locali) una lunga intervista a Nanni Svampa. Svampa faceva cabaret con i Gufi, 40 anni fa; poi si è specializzato in canzoni milanesi e lombarde, diventando un punto di riferimento assoluto. E qui viene da pensare, perché cantare canzoni milanesi, 40 anni fa o anche 30, era una cosa di sinistra. Nanni Svampa non ha mai preso posizioni politiche precise, penso che sia una persona che guarda con occhio critico alle cose del mondo, ma non saprei dire se è di sinistra e del resto la cosa non ha importanza. Però di sinistra (comunista) era Roberto Leydi, il massimo etnomusicologo italiano, scomparso l'anno scorso, che si ispirava a Béla Bartok e ad Alan Lomax, pionieri del recupero della tradizione popolare balcanica e anglo-americana. Di sinistra è Giovanna Marini, e di sinistra è Giancarlo Nostrini, che da una ventina d'anni tiene su Radio Popolare una bella rubrica settimanale dedicata alla musica popolare di tutto il mondo ( la domenica alle 20). Il dialetto era di sinistra, perché in dialetto si esprimevano operai e contadini, ed era bello andarsi a cercare i canti popolari delle mondine e degli operai, degli anarchici (come De André) e della Resistenza alla dittatura fascista.
Ma poi cos'è successo? Il mio dialetto, il mio bel dialetto milanese che una volta faceva sorridere perché rimandava a Gino Bramieri, a Tino Scotti, a Piero Mazzarella, oggi è diventato in quasi tutta Italia sinonimo di razzismo e di arroganza. Basta accennare una mezza battuta in milanese e si passa per razzisti. E' successo, sarà ben difficile riparare i danni, e sappiamo bene chi sono i responsabili di questo grave danno d'immagine.
Anche Svampa, l'altra sera, sia pure senza sbilanciarsi troppo ( Svampa è un signore, e non perde tempo a fare polemiche) ha detto e ripetuto alcune cose, non di sinistra ma di semplice buon senso, che vorrei provare a riassumere. Innanzitutto che Milano, proprio per la sua natura di "terra di mezzo" (Mediolanum) è sempre stata aperta a tutti; e poi che il dialetto è una lingua viva, che si modifica in continuazione e che è aperta a tutte le influenze: il milanese di Carlo Porta risale ormai a quasi 200 anni fa, non lo parla più nessuno da decenni ed è giusto che sia così. E, soprattutto, che il dialetto serve per comunicare con gli altri, e non per chiudersi. Infine, che i cartelli "bilingui" all'ingresso dei comuni sono una cosa simpatica, ma per l'80% sono sbagliati, o nell'ortografia o nel nome originario del toponimo.
Ma poi il dialetto non lo parla più nessuno, soprattutto a Milano; e anch'io sono messo molto male, visto che in casa mia si parlava solo l'italiano. Però ho scritto "dialetto milanese", e non "lombardo": parlare di dialetto lombardo, o magari di lingua lombarda, non ha senso. Io abito in una storica zona di confine, tra Como e Milano: e non è uno scherzo, il confine c'era davvero. Risale al tempo del Barbarossa, ma c'era; e, fino a qualche anno fa, alle orecchie attente era possibile percepirlo. Esisteva un confine linguistico tra Como e Milano, ma anche tra Como e Varese, e addirittura tra paese e paese; ma tutto questo è sparito, appiattito e omologato. Rimane solo l'arroganza di chi crede di parlare a nome di tutti i lombardi, e invece ne rappresenta solo una minima parte.
(27 agosto 2005)
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Achille Campanile ( II )
- Viaggiavo, - disse - in vettura letto e dovevo scendere ad una stazione intermedia, verso le sei del mattino. Poiché non avevo orologio, la paura di non destarmi in tempo e di non udire il segnale dell'impiegato non mi fece chiudere occhio. Nelle tenebre della cabina tendevo l'orecchio, per udire da un momento all'altro quella picchiatina discreta che sembrava dire al pigro viaggiatore: "Orsù, alzatevi! Fra mezz'ora siamo arrivati. "
Finalmente, udii un poderoso colpo alla porta; certo, il personale viaggiante aveva le mie stesse preoccupazioni, circa l'udito dei dormienti. Balzai in piedi, mi lavai, mi rasai, rifeci la mia valigia e, quando fui pronto, uscii nel corridoio. Qui domandai l'ora e allibii: era mezzanotte! Quello che avevo creduto il segnale del risveglio, non era che uno scontro ferroviario. Imprecando, mi rispogliai, m'insudiciai di nuovo la faccia, mi feci ricrescere la barba e mi rimisi a letto. (Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap.III)
Achille Campanile nasce a Roma nel 1899, e muore a Velletri nel 1976. Il suo primo grande successo è del 1924, un romanzo che s'intitola "Ma che cosa è questo amore?". Segue "Agosto moglie mia non ti conosco", del 1930, il cui soggetto è questo: su una nave da crociera, per scherzo, le signore indossano delle cinture di castità. Ma le chiavi delle cinture finiscono in mare, e senza le chiavi non è più possibile togliere le cinture; i mariti allora devono cercare dei palombari, che potranno recuperare le chiavi: sulla ricerca dei palombari è costruito l'intreccio della storia. Invece "Il povero Piero" è del 1959, e i racconti di "Manuale di conversazione" vincono il Premio Viareggio nel 1973. Altri racconti troviamo in "Gli asparagi e l'immortalità dell'anima", del 1974, e in "Vite degli uomini illustri" (1984). Invece, "Se la luna mi porta fortuna" è del 1927.
...però c'è uno, uno soltanto, che ogni mattina aspetta il sole. Lontano, nel cuore della foresta, un bestione enorme e simpaticone s'alza avanti ogni giorno, fa una toletta sommaria, e si mette ad aspettare. Appena vede apparire l'astro, drizza verso di lui la proboscide - si tratta appunto dell'elefante, l'unico animale che saluta il sole - e barrisce. Quali misteriose intese corrono fra gli elefanti e il sole? Non lo sapremo mai. Tra l'altro, può darsi che il sole sorga ogni giorno soltanto per un accordo convenuto con gli elefanti. (...) Sfidiamo qualunque scienziato a provare il contrario.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. I )
Finalmente, udii un poderoso colpo alla porta; certo, il personale viaggiante aveva le mie stesse preoccupazioni, circa l'udito dei dormienti. Balzai in piedi, mi lavai, mi rasai, rifeci la mia valigia e, quando fui pronto, uscii nel corridoio. Qui domandai l'ora e allibii: era mezzanotte! Quello che avevo creduto il segnale del risveglio, non era che uno scontro ferroviario. Imprecando, mi rispogliai, m'insudiciai di nuovo la faccia, mi feci ricrescere la barba e mi rimisi a letto. (Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap.III)
Achille Campanile nasce a Roma nel 1899, e muore a Velletri nel 1976. Il suo primo grande successo è del 1924, un romanzo che s'intitola "Ma che cosa è questo amore?". Segue "Agosto moglie mia non ti conosco", del 1930, il cui soggetto è questo: su una nave da crociera, per scherzo, le signore indossano delle cinture di castità. Ma le chiavi delle cinture finiscono in mare, e senza le chiavi non è più possibile togliere le cinture; i mariti allora devono cercare dei palombari, che potranno recuperare le chiavi: sulla ricerca dei palombari è costruito l'intreccio della storia. Invece "Il povero Piero" è del 1959, e i racconti di "Manuale di conversazione" vincono il Premio Viareggio nel 1973. Altri racconti troviamo in "Gli asparagi e l'immortalità dell'anima", del 1974, e in "Vite degli uomini illustri" (1984). Invece, "Se la luna mi porta fortuna" è del 1927.
...però c'è uno, uno soltanto, che ogni mattina aspetta il sole. Lontano, nel cuore della foresta, un bestione enorme e simpaticone s'alza avanti ogni giorno, fa una toletta sommaria, e si mette ad aspettare. Appena vede apparire l'astro, drizza verso di lui la proboscide - si tratta appunto dell'elefante, l'unico animale che saluta il sole - e barrisce. Quali misteriose intese corrono fra gli elefanti e il sole? Non lo sapremo mai. Tra l'altro, può darsi che il sole sorga ogni giorno soltanto per un accordo convenuto con gli elefanti. (...) Sfidiamo qualunque scienziato a provare il contrario.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. I )
sabato 12 giugno 2010
Achille Campanile ( I )
- Stavo pensando, - gli disse - al Colosseo. Che roba! Dev'essere vecchio come il cucco.
- Non credo, - replicò il pensatore. - il cucco dev'essere anteriore.(Achille Campanile, ma che cosa è questo amore, cap.V)"Uno scrittore alla rovescia, così naturale da fare persino rabbia" : così Umberto Eco definiva Achille Campanile, in uno dei suoi articoli su questo scrittore, uno dei più grandi del Novecento. " (...) e come tutti coloro che negli ultimi vent'anni hanno scritto su di lui sono diventato uno dei suoi personaggi. Tutti gli esegeti di Campanile hanno infatti la curiosa abitudine di iniziare il proprio discorso affermando che, contrariamente all'opinione di tutti gli altri esegeti, essi riconoscono che Campanile è un grande scrittore (...) " (Umberto Eco, dalla prefazione a "Ma che cosa è questo amore", ed. Corbaccio). Avendo letto un bel po' dei libri di Campanile (non tutti, qualcuno me lo tengo sempre da parte per i momenti bui), posso dire che la questione se Campanile sia soltanto un umorista oppure uno Scrittore con la S maiuscola mi sembra del tutto inutile. Perché Campanile è davvero un grande umorista, e di questo ringraziamo il Cielo con grande devozione e con profondi inchini; e poi perché Campanile scrive in un italiano bellissimo. Un italiano così limpido, per quello che mi riguarda, io l'ho trovato soltanto in Italo Calvino e in Primo Levi; e aggiungerei anche Italo Svevo, che però scriveva in tutt'altro modo. Ma qui il discorso si fa complicato, e io non ne sono all'altezza. Chiudo il mio intervento critico e passo subito alle cose serie.«Appena seduto, Battista, con un'aria soddisfatta e una fame da lupi, tirò fuori l'involto del pane e del salame. Per mezzo d'un temperino, spaccò il panino e se lo pose delicatamente sui ginocchi. Poi guardò le quattro fette di salame ad una ad una contro luce e, con tenerezza materna, le liberò delle loro pelli, badando di non danneggiarle e ingoiando ogni tanto un po' di saliva. Quindi cominciò a deporle nell'interno del panino; cercava di lasciare scoperto quanto meno spazio gli riuscisse, dimostrando, nei limiti del possibile, le singolari risorse della sua ingegnosità. Ciò fatto, guardò il pane e salame con la gioia dell'artista che mira l'opera propria. (La quale gioia, in verità, è una leggenda: noi non conosciamo che artisti i quali mirano con rabbia l'opera propria).
Sorridendo, ricongiunse le due metà del panino; con la carta che avvolgeva il pane e il salame, improvvisò un tovagliolo e se lo mise sui ginocchi. Mentre s'accingeva soddisfatto a dare il primo morso al suo pranzo, fermò la mano e il panino a mezz'aria:
- Vuol favorire? - disse al vicino.
Questi alzò il capo dal giornale, s'accorse per la prima volta di Battista.
- Grazie - mormorò. Prese il panino e ne fece un sol boccone.
Cominciava a cadere una pioggerella sottile.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. I )
- Non credo, - replicò il pensatore. - il cucco dev'essere anteriore.(Achille Campanile, ma che cosa è questo amore, cap.V)"Uno scrittore alla rovescia, così naturale da fare persino rabbia" : così Umberto Eco definiva Achille Campanile, in uno dei suoi articoli su questo scrittore, uno dei più grandi del Novecento. " (...) e come tutti coloro che negli ultimi vent'anni hanno scritto su di lui sono diventato uno dei suoi personaggi. Tutti gli esegeti di Campanile hanno infatti la curiosa abitudine di iniziare il proprio discorso affermando che, contrariamente all'opinione di tutti gli altri esegeti, essi riconoscono che Campanile è un grande scrittore (...) " (Umberto Eco, dalla prefazione a "Ma che cosa è questo amore", ed. Corbaccio). Avendo letto un bel po' dei libri di Campanile (non tutti, qualcuno me lo tengo sempre da parte per i momenti bui), posso dire che la questione se Campanile sia soltanto un umorista oppure uno Scrittore con la S maiuscola mi sembra del tutto inutile. Perché Campanile è davvero un grande umorista, e di questo ringraziamo il Cielo con grande devozione e con profondi inchini; e poi perché Campanile scrive in un italiano bellissimo. Un italiano così limpido, per quello che mi riguarda, io l'ho trovato soltanto in Italo Calvino e in Primo Levi; e aggiungerei anche Italo Svevo, che però scriveva in tutt'altro modo. Ma qui il discorso si fa complicato, e io non ne sono all'altezza. Chiudo il mio intervento critico e passo subito alle cose serie.«Appena seduto, Battista, con un'aria soddisfatta e una fame da lupi, tirò fuori l'involto del pane e del salame. Per mezzo d'un temperino, spaccò il panino e se lo pose delicatamente sui ginocchi. Poi guardò le quattro fette di salame ad una ad una contro luce e, con tenerezza materna, le liberò delle loro pelli, badando di non danneggiarle e ingoiando ogni tanto un po' di saliva. Quindi cominciò a deporle nell'interno del panino; cercava di lasciare scoperto quanto meno spazio gli riuscisse, dimostrando, nei limiti del possibile, le singolari risorse della sua ingegnosità. Ciò fatto, guardò il pane e salame con la gioia dell'artista che mira l'opera propria. (La quale gioia, in verità, è una leggenda: noi non conosciamo che artisti i quali mirano con rabbia l'opera propria).
Sorridendo, ricongiunse le due metà del panino; con la carta che avvolgeva il pane e il salame, improvvisò un tovagliolo e se lo mise sui ginocchi. Mentre s'accingeva soddisfatto a dare il primo morso al suo pranzo, fermò la mano e il panino a mezz'aria:
- Vuol favorire? - disse al vicino.
Questi alzò il capo dal giornale, s'accorse per la prima volta di Battista.
- Grazie - mormorò. Prese il panino e ne fece un sol boccone.
Cominciava a cadere una pioggerella sottile.(Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, cap. I )
venerdì 11 giugno 2010
Chi vota Lega è un imbecille?
- Qui bisogna fare come in Jugoslavia!
Spero di aver capito male e faccio ripetere, ma il mio conoscente insiste:
- Sì, come la Jugoslavia!
Mi si gela il sangue nelle vene: possibile che siano bastati dieci o quindici anni per far dimenticare tutto? I telegiornali e i giornali straripavano di immagini orrende, di resoconti spaventosi: morti, stupri, cecchini per le strade a sparare su tutti, bombardamenti, distruzione, fosse comuni con centinaia di morti...Tutto dimenticato, mai visto, mai sentito?
- Sì, però in Slovenia...
E via, con un ghignetto soddisfatto. L’importante è che io abbia torto e che il Bossi abbia ragione, e non importa come. L’importante è ridurre tutto a uno stupido conflitto personale, fra me e lui: e io sono solo un antipatico vanaglorioso che legge Repubblica, che deve solo stare zitto e non disturbare.
Ed è vero, in Slovenia sono stati più furbi e più abili che in Bosnia, in Serbia, nel Kossovo, in Croazia, nel Montenegro: e anche Cechi e Slovacchi si sono lasciati abbastanza pacificamente; ma il ragionamento che c’è dietro è di quelli che fanno agghiacciare il sangue nelle vene. Come si fa a sbrigare con un’alzatina di spalle e un sorrisetto tutti quei morti, quegli stupri, quei cecchini per le strade? Era questa la Jugoslavia del dopo Tito; e sotto il regime di Tito, pur deprecabile, la Jugoslavia aveva vissuto i suoi anni più tranquilli, e in pace.
Quello che c’è dietro a questi ragionamenti è l’idea, semplice e sbagliatissima, che per star bene basti scaricare “quelli là”: gli altri, quelli che non sono dei nostri, i lazzaroni, i meridionali; magari, che so, gli handicappati.
Ragionamenti come questo ne ascolto tutti i giorni, ormai da una ventina d’anni: fare come il duce, fare come le esse esse, ci vorrebbe il fascismo ma per davvero. Ti cantilenano in faccia “ci sono troppi straanieeri...”, e mai che ti canticchino “c’è troppa corruuzioone...”. Leggono i giornali, e ne parlano, solo quando uno straniero compie un reato; ma non si ascolta una parola quando a decapitare un vicino di casa secondo un rituale orrendo è uno stimatissimo negoziante commerciante comasco (comasco doc, con negozio storico a cento metri dal Duomo), oppure quando si legge delle tre ragazze valtellinesi (valtellinesi doc) che uccidono una suora per puro divertimento, oppure quando si legge dei ragazzi di Varese (di Varese Varese, mica foresti) che compiono omicidi da setta satanica, oh, allora, come si sorvola volentieri, come si parla d’altro. E se poi si parla della corruzione, degli assessori beccati sulla soglia di Palazzo Marino con la mazzetta in tasca, delle cliniche milanesi che operano anche i sani al solo scopo di far soldi, degli assessori regionali coinvolti nel traffico d’armi con l’Africa, ah che silenzio che pace che bello parlare dell’Inter e del Milan. L’importante, ora e sempre, è che la colpa di tutto sia sempre e soltanto di quelli là, quelli di sotto del Po, quelli che non sono come noi.
Spero di aver capito male e faccio ripetere, ma il mio conoscente insiste:
- Sì, come la Jugoslavia!
Mi si gela il sangue nelle vene: possibile che siano bastati dieci o quindici anni per far dimenticare tutto? I telegiornali e i giornali straripavano di immagini orrende, di resoconti spaventosi: morti, stupri, cecchini per le strade a sparare su tutti, bombardamenti, distruzione, fosse comuni con centinaia di morti...Tutto dimenticato, mai visto, mai sentito?
- Sì, però in Slovenia...
E via, con un ghignetto soddisfatto. L’importante è che io abbia torto e che il Bossi abbia ragione, e non importa come. L’importante è ridurre tutto a uno stupido conflitto personale, fra me e lui: e io sono solo un antipatico vanaglorioso che legge Repubblica, che deve solo stare zitto e non disturbare.
Ed è vero, in Slovenia sono stati più furbi e più abili che in Bosnia, in Serbia, nel Kossovo, in Croazia, nel Montenegro: e anche Cechi e Slovacchi si sono lasciati abbastanza pacificamente; ma il ragionamento che c’è dietro è di quelli che fanno agghiacciare il sangue nelle vene. Come si fa a sbrigare con un’alzatina di spalle e un sorrisetto tutti quei morti, quegli stupri, quei cecchini per le strade? Era questa la Jugoslavia del dopo Tito; e sotto il regime di Tito, pur deprecabile, la Jugoslavia aveva vissuto i suoi anni più tranquilli, e in pace.
Quello che c’è dietro a questi ragionamenti è l’idea, semplice e sbagliatissima, che per star bene basti scaricare “quelli là”: gli altri, quelli che non sono dei nostri, i lazzaroni, i meridionali; magari, che so, gli handicappati.
Ragionamenti come questo ne ascolto tutti i giorni, ormai da una ventina d’anni: fare come il duce, fare come le esse esse, ci vorrebbe il fascismo ma per davvero. Ti cantilenano in faccia “ci sono troppi straanieeri...”, e mai che ti canticchino “c’è troppa corruuzioone...”. Leggono i giornali, e ne parlano, solo quando uno straniero compie un reato; ma non si ascolta una parola quando a decapitare un vicino di casa secondo un rituale orrendo è uno stimatissimo negoziante commerciante comasco (comasco doc, con negozio storico a cento metri dal Duomo), oppure quando si legge delle tre ragazze valtellinesi (valtellinesi doc) che uccidono una suora per puro divertimento, oppure quando si legge dei ragazzi di Varese (di Varese Varese, mica foresti) che compiono omicidi da setta satanica, oh, allora, come si sorvola volentieri, come si parla d’altro. E se poi si parla della corruzione, degli assessori beccati sulla soglia di Palazzo Marino con la mazzetta in tasca, delle cliniche milanesi che operano anche i sani al solo scopo di far soldi, degli assessori regionali coinvolti nel traffico d’armi con l’Africa, ah che silenzio che pace che bello parlare dell’Inter e del Milan. L’importante, ora e sempre, è che la colpa di tutto sia sempre e soltanto di quelli là, quelli di sotto del Po, quelli che non sono come noi.
mercoledì 9 giugno 2010
Il nagottino d'oro
A Milano e dintorni, “niente” si dice “nagòtt” . Ne consegue che “il nagottino d’oro” è un nientino, cioè nulla: ma d’oro. E’ un modo di dire che mi è sempre piaciuto molto, lo si dice in senso affettuoso o con ironia, comunque sempre scherzando: «bravo, hai vinto un nagottino d’oro», e simili. Gianni Brera, che era molto fantasioso, ne faceva risalire l’etimologia a qualche influsso tedesco (austriaco o longobardo, chissà): per lui “nagòtt” era “kein Gott”, nessun Dio. Ma è un etimo un tantino improbabile, più facile che la parola venga da goccia, come dimostra la variante “nagotta”, che significa la stessa cosa e che non è tanto una declinazione al maschile o femminile ma piuttosto una variazione eufonica, legata alla metrica della frase che si sta dicendo.
Il “nagottino d’oro” mi torna in mente ogni volta che arriva la stagione dei regali (però poi c’è sempre qualche ricorrenza in ballo, pazienza). Non che io sia tirchio, come qualcuno insinua, è che a me piace fare regali ben pensati e calibrati su misura: alle volte il destinatario rimane perplesso, ma poi il regalo piace (beh, non sempre ci riesco). Sotto le feste, “ti ho regalato un nagottino d’oro” (un nagutìn d’or) , è un’espressione del genere di quelle di prima, sempre usata in senso scherzoso-affettuoso, a meno di non essere proprio malvagi nel profondo dell’anima: e di solito la frase è seguita dall’ostensione del regalo, fin lì tenuto nascosto.
Tutto questo per dire che non solo io non amo i regali costosi, ma che è proprio il fatto che siano d’oro, o di diamanti, o di perle, a rendermi antipatica l’idea. Di solito in un gioiello io guardo l’idea, il disegno, se sta bene addosso a chi lo porta, eccetera; il materiale di cui è fatto per me è secondario. Meglio un bell’anello di bigiotteria che un monile d’oro brutto, insomma: questo è quello che penso io, ma poi so che il mondo non va così e che è piuttosto vero il contrario.
Che dire? Che da qualche anno non mi capita più di essere coinvolto in regali impegnativi, e ne sono contento. I regali si fanno tutto l’anno, per fare un bel regalo c’è sempre tempo. E, soprattutto, trovo insensato spendere una caterva di soldi per un braccialetto d’oro ad un battesimo (cosa se ne fa un neonato?), o per una dozzina di rose col gambo lungo ad un onomastico (quando ho saputo quanto costavano sono stato male).
Personalmente, soprattutto quando si è in coppia, penso che piuttosto che spendere soldi in un braccialetto d’oro o in un mazzo di rose sia meglio tener da parte i soldi, aggiungervi qualcosa, e poi farsi una bella vacanza. Ma così facendo ho riservato delusioni infinite ad alcune signore o ragazze, e sono ancora molto perplesso al riguardo, anche dopo anni (decenni, in qualche caso). E’ anche per questo che la storia del nagottino d’oro continua ad essermi molto simpatica: ma io sono Vergine con ascendente Vergine, segno di Terra quanto mai potente, direi che non faccio testo – voi continuate pure a fare come più vi piace...
Il “nagottino d’oro” mi torna in mente ogni volta che arriva la stagione dei regali (però poi c’è sempre qualche ricorrenza in ballo, pazienza). Non che io sia tirchio, come qualcuno insinua, è che a me piace fare regali ben pensati e calibrati su misura: alle volte il destinatario rimane perplesso, ma poi il regalo piace (beh, non sempre ci riesco). Sotto le feste, “ti ho regalato un nagottino d’oro” (un nagutìn d’or) , è un’espressione del genere di quelle di prima, sempre usata in senso scherzoso-affettuoso, a meno di non essere proprio malvagi nel profondo dell’anima: e di solito la frase è seguita dall’ostensione del regalo, fin lì tenuto nascosto.
Tutto questo per dire che non solo io non amo i regali costosi, ma che è proprio il fatto che siano d’oro, o di diamanti, o di perle, a rendermi antipatica l’idea. Di solito in un gioiello io guardo l’idea, il disegno, se sta bene addosso a chi lo porta, eccetera; il materiale di cui è fatto per me è secondario. Meglio un bell’anello di bigiotteria che un monile d’oro brutto, insomma: questo è quello che penso io, ma poi so che il mondo non va così e che è piuttosto vero il contrario.
Che dire? Che da qualche anno non mi capita più di essere coinvolto in regali impegnativi, e ne sono contento. I regali si fanno tutto l’anno, per fare un bel regalo c’è sempre tempo. E, soprattutto, trovo insensato spendere una caterva di soldi per un braccialetto d’oro ad un battesimo (cosa se ne fa un neonato?), o per una dozzina di rose col gambo lungo ad un onomastico (quando ho saputo quanto costavano sono stato male).
Personalmente, soprattutto quando si è in coppia, penso che piuttosto che spendere soldi in un braccialetto d’oro o in un mazzo di rose sia meglio tener da parte i soldi, aggiungervi qualcosa, e poi farsi una bella vacanza. Ma così facendo ho riservato delusioni infinite ad alcune signore o ragazze, e sono ancora molto perplesso al riguardo, anche dopo anni (decenni, in qualche caso). E’ anche per questo che la storia del nagottino d’oro continua ad essermi molto simpatica: ma io sono Vergine con ascendente Vergine, segno di Terra quanto mai potente, direi che non faccio testo – voi continuate pure a fare come più vi piace...
martedì 8 giugno 2010
Tòcio
- Prima di tutto bisognerebbe stabilire cos’è il tocio. – mi dice freddamente l’amico M.
Sapendo che M. è di origine veneta, come me, mi ero permesso un piccolo scherzo in una conversazione fra colleghi, sul lavoro; visto che la questione, sia pur molto amichevole, non accennava a risolversi, mi ero girato verso di lui e ammiccando, dopo tutti quei se, gli avevo buttato lì un verso di una canzone famosa, di quelle che una volta si cantavano in gita e che quindi conoscevano tutti: «Se il mare fosse tocio, e i monti de polenta...». Eh sì, se il mare fosse tocio, e i monti de polenta...
Ma a lui la mia battuta non era piaciuta, e il motivo era questo: essendo veneto di Marostica, a casa sua si diceva “pocio”, e non “tocio”. Differenza fondamentale: anche se io stavo dalla sua parte in quella discussione, mica si può fraternizzare con uno che dice tocio invece di pocio.
Ma la canzone dice proprio così:
La mia morosa vecchia / larì larà
La tengo di riserva / larì larà
E quando spunta l’alba
La mando a pascolar.
Perché non m’ami più?
Eccetera: mica sto qui a cantarla tutta. Nella seconda strofa (o era la terza?) sorge quest’immagine magnifica, degna di Gargantua e Pantagruel: i monti che diventano polenta, e il mare che è un immenso intingolo in cui immergere tanto ben di dio. Polenta e baccalà, che meraviglia.
Il “tocio” (io lo so perché i miei nonni erano veneti) è appunto quella cosa che in italiano se dise “intingolo”: con un bel diminutivo, “tocéto”, a renderlo ancora più buono. Per me era normale e naturale, anche mia mamma (che è emiliana) ormai diceva tocio e tocéto, pensavo che fosse cosa di dominio pubblico; invece scopro che a Marostica si dice pocio, parola che somiglia di più al milanese “puccia”, una parola che a me è sempre suonata poco elegante.
A dire il vero, il tocio e tocéto mi piacciono ancora molto, anche con il pane; e se qualcuno ha qualche sinonimo locale da propormi ascolto e prendo nota con piacere. Però intanto mi è tornato in mente quello che diceva Roberto Leydi, torinese, forse il maggior storico della musica popolare e delle nostre tradizioni: che il dialetto viene usato principalmente in due modi, ed uno è quello naturale e normale delle persone che parlano il dialetto come lingua sorgiva, materna; l’altro è il dialetto di chi vuole chiudersi e soprattutto isolare “gli altri”, quelli di fuori. La seconda opzione, spiegava ancora Leydi, si trova – sorprendentemente – anche fra le persone istruite.
Ecco, quando ascolto parlare quelli della Lega Nord mi tornano sempre in mente quelle parole di Leydi; e conoscendo bene i miei lombardi (soprattutto questi qua di Varese e di Como) so bene quanto possano essere chiusi, gretti, tirchi. Per fortuna, non sono tutti così: ma questo genere di lombardo, parente strettissimo dell’Avaro di Molière, è quello che sta trionfando in questo momento storico, e che detta legge a tutti quanti, isole comprese.
Sapendo che M. è di origine veneta, come me, mi ero permesso un piccolo scherzo in una conversazione fra colleghi, sul lavoro; visto che la questione, sia pur molto amichevole, non accennava a risolversi, mi ero girato verso di lui e ammiccando, dopo tutti quei se, gli avevo buttato lì un verso di una canzone famosa, di quelle che una volta si cantavano in gita e che quindi conoscevano tutti: «Se il mare fosse tocio, e i monti de polenta...». Eh sì, se il mare fosse tocio, e i monti de polenta...
Ma a lui la mia battuta non era piaciuta, e il motivo era questo: essendo veneto di Marostica, a casa sua si diceva “pocio”, e non “tocio”. Differenza fondamentale: anche se io stavo dalla sua parte in quella discussione, mica si può fraternizzare con uno che dice tocio invece di pocio.
Ma la canzone dice proprio così:
La mia morosa vecchia / larì larà
La tengo di riserva / larì larà
E quando spunta l’alba
La mando a pascolar.
Perché non m’ami più?
Eccetera: mica sto qui a cantarla tutta. Nella seconda strofa (o era la terza?) sorge quest’immagine magnifica, degna di Gargantua e Pantagruel: i monti che diventano polenta, e il mare che è un immenso intingolo in cui immergere tanto ben di dio. Polenta e baccalà, che meraviglia.
Il “tocio” (io lo so perché i miei nonni erano veneti) è appunto quella cosa che in italiano se dise “intingolo”: con un bel diminutivo, “tocéto”, a renderlo ancora più buono. Per me era normale e naturale, anche mia mamma (che è emiliana) ormai diceva tocio e tocéto, pensavo che fosse cosa di dominio pubblico; invece scopro che a Marostica si dice pocio, parola che somiglia di più al milanese “puccia”, una parola che a me è sempre suonata poco elegante.
A dire il vero, il tocio e tocéto mi piacciono ancora molto, anche con il pane; e se qualcuno ha qualche sinonimo locale da propormi ascolto e prendo nota con piacere. Però intanto mi è tornato in mente quello che diceva Roberto Leydi, torinese, forse il maggior storico della musica popolare e delle nostre tradizioni: che il dialetto viene usato principalmente in due modi, ed uno è quello naturale e normale delle persone che parlano il dialetto come lingua sorgiva, materna; l’altro è il dialetto di chi vuole chiudersi e soprattutto isolare “gli altri”, quelli di fuori. La seconda opzione, spiegava ancora Leydi, si trova – sorprendentemente – anche fra le persone istruite.
Ecco, quando ascolto parlare quelli della Lega Nord mi tornano sempre in mente quelle parole di Leydi; e conoscendo bene i miei lombardi (soprattutto questi qua di Varese e di Como) so bene quanto possano essere chiusi, gretti, tirchi. Per fortuna, non sono tutti così: ma questo genere di lombardo, parente strettissimo dell’Avaro di Molière, è quello che sta trionfando in questo momento storico, e che detta legge a tutti quanti, isole comprese.
lunedì 7 giugno 2010
Durezza
Sulle etichette delle acque minerali sono scritte un sacco di cose, alcune interessanti da leggere ma poco decifrabili (le analisi chimiche), ma ci sono anche tante scemenze di cui si farebbe volentieri a meno (per fare un solo esempio dei tanti possibili, cosa vuol dire “acqua allegra”?).
Insomma, districarsi fra le etichette delle acque minerali è diventato difficile, e anch’io più di una volta mi sono trovato a non capirci niente e a trovarmi sul carrello l’acqua minerale “sbagliata”.
In realtà c’è un solo dato che andrebbe evidenziato, ed è la durezza, il contenuto di sali. La durezza, oppure il “residuo fisso”: si tratta dello stesso dato ma espresso in maniera diversa.
Si sa (almeno, spero che lo sappiano tutti ma ne dubito...) che tutte le acque contengono sali, tanti tipi di sali diversi; sapere quanti sali contengono è importante. Non si tratta di un indice di qualità, un’acqua minerale può essere buona sia con molti sali (durezza elevata, residuo secco elevato) che con pochi sali (durezza bassa, residuo secco quasi inesistente); dipende dall’uso che dobbiamo farne.
Per esempio, un’acqua dura (intorno a 40 gradi francesi, come la Ferrarelle o l’Uliveto) è ottima quando si corre e si suda molto, ha la stessa funzione di un integratore perché ripristina i sali che abbiamo perso correndo e sudando; un’acqua con pochi sali (sugli 8 gradi francesi, come la Fiuggi e quasi tutte le acque provenienti da fonti alpine – ce ne sono molte sul mercato) è invece indicata per chi tende a produrre calcoli renali, la famosa renella (della categoria faccio parte anch’io...).
Tutto qua. Il resto, come le fesserie sul contenuto di sodio, sono pura fuffa, magari divertente ma buona solo per i pubblicitari che sono sempre in cerca del “cattivo” da mettere al bando. Ma qui il cattivo non c’è: se la durezza è bassa, è basso anche il contenuto di sodio; e poi non è che, se si soffre di calcoli, bere acque ricche di calcio e di magnesio sia molto salutare – però adesso mi fermo, io non sono un medico ed è ai medici che ci si deve rivolgere per queste indicazioni. E che siano medici seri, mi raccomando: si sa che molti “esperti” sono a libro paga.
Purtroppo, non tutte le etichette riportano il dato della durezza: su tutte c’è il residuo fisso, che è la stessa cosa ma è più difficile da leggere. La “durezza”, espressa in gradi francesi o gradi tedeschi, fu introdotta dai chimici proprio per maggior chiarezza e semplicità, ed è un peccato che non sia maggiormente evidenziata.
Per il resto, leggere le analisi sulle etichette mi è sempre piaciuto, fin da bambino quando ancora non sapevo che cos’erano tutte quelle parole difficili (ione idrocarbonico: le bollicine); ma dubito che siano di qualche utilità pratica. Quello che è importante è che la fonte non sia inquinata: e mi preoccupa molto constatare che intorno alla famosa fabbrica dell’acqua minerale che ho qui vicino a casa, hanno costruito ovunque. Fino a una decina d’anni fa, quei terreni erano prati e campi coltivati; oggi ci sono case e strade. E si sa che case e strade significano annessi e connessi, e sarebbe interessante sapere nome e cognome di chi ha dato il permesso di costruire sopra la falda acquifera; ma così è successo ovunque, soprattutto in Padania e soprattutto ad opera di quei partiti politici che dicono (a parole) di difendere il territorio.
PS: Quando faccio questo ragionamento, di solito mi ricordano che l’acqua deve essere batteriologicamente pura: ed è vero, ma ci mancherebbe altro – un’acqua in bottiglia che non sia batteriologicamente pura? Roba da mandargli i carabinieri e farli arrestare...
Insomma, districarsi fra le etichette delle acque minerali è diventato difficile, e anch’io più di una volta mi sono trovato a non capirci niente e a trovarmi sul carrello l’acqua minerale “sbagliata”.
In realtà c’è un solo dato che andrebbe evidenziato, ed è la durezza, il contenuto di sali. La durezza, oppure il “residuo fisso”: si tratta dello stesso dato ma espresso in maniera diversa.
Si sa (almeno, spero che lo sappiano tutti ma ne dubito...) che tutte le acque contengono sali, tanti tipi di sali diversi; sapere quanti sali contengono è importante. Non si tratta di un indice di qualità, un’acqua minerale può essere buona sia con molti sali (durezza elevata, residuo secco elevato) che con pochi sali (durezza bassa, residuo secco quasi inesistente); dipende dall’uso che dobbiamo farne.
Per esempio, un’acqua dura (intorno a 40 gradi francesi, come la Ferrarelle o l’Uliveto) è ottima quando si corre e si suda molto, ha la stessa funzione di un integratore perché ripristina i sali che abbiamo perso correndo e sudando; un’acqua con pochi sali (sugli 8 gradi francesi, come la Fiuggi e quasi tutte le acque provenienti da fonti alpine – ce ne sono molte sul mercato) è invece indicata per chi tende a produrre calcoli renali, la famosa renella (della categoria faccio parte anch’io...).
Tutto qua. Il resto, come le fesserie sul contenuto di sodio, sono pura fuffa, magari divertente ma buona solo per i pubblicitari che sono sempre in cerca del “cattivo” da mettere al bando. Ma qui il cattivo non c’è: se la durezza è bassa, è basso anche il contenuto di sodio; e poi non è che, se si soffre di calcoli, bere acque ricche di calcio e di magnesio sia molto salutare – però adesso mi fermo, io non sono un medico ed è ai medici che ci si deve rivolgere per queste indicazioni. E che siano medici seri, mi raccomando: si sa che molti “esperti” sono a libro paga.
Purtroppo, non tutte le etichette riportano il dato della durezza: su tutte c’è il residuo fisso, che è la stessa cosa ma è più difficile da leggere. La “durezza”, espressa in gradi francesi o gradi tedeschi, fu introdotta dai chimici proprio per maggior chiarezza e semplicità, ed è un peccato che non sia maggiormente evidenziata.
Per il resto, leggere le analisi sulle etichette mi è sempre piaciuto, fin da bambino quando ancora non sapevo che cos’erano tutte quelle parole difficili (ione idrocarbonico: le bollicine); ma dubito che siano di qualche utilità pratica. Quello che è importante è che la fonte non sia inquinata: e mi preoccupa molto constatare che intorno alla famosa fabbrica dell’acqua minerale che ho qui vicino a casa, hanno costruito ovunque. Fino a una decina d’anni fa, quei terreni erano prati e campi coltivati; oggi ci sono case e strade. E si sa che case e strade significano annessi e connessi, e sarebbe interessante sapere nome e cognome di chi ha dato il permesso di costruire sopra la falda acquifera; ma così è successo ovunque, soprattutto in Padania e soprattutto ad opera di quei partiti politici che dicono (a parole) di difendere il territorio.
PS: Quando faccio questo ragionamento, di solito mi ricordano che l’acqua deve essere batteriologicamente pura: ed è vero, ma ci mancherebbe altro – un’acqua in bottiglia che non sia batteriologicamente pura? Roba da mandargli i carabinieri e farli arrestare...
domenica 6 giugno 2010
L'enciclopedia delle xxxxxxx
Penso che episodi come questo, ormai di routine, diano l'esatta misura della mentalità burocratica e sostanzialmente stupida che ci governa da qualche anno in qua. Riporto la notizia e poi aggiungo il mio commento:
Compra sulla spiaggia per sette euro un borsellino griffato, ma autenticamente falso da un 'vu cumprà' e viene sanzionata con una multa da 1.000 euro dai vigili urbani che avevano assistito alla scena. È accaduto sulla spiaggia di Jesolo, dove da qualche giorno è stata dichiarata guerra al commercio abusivo.
A vedersi consegnare il primo verbale di multa della stagione è stata una turista austriaca di 65 anni, in vacanza nella località balneare veneziana. La donna è stata colta sul fatto da due agenti della polizia locale appostati con il binocolo in una altana di salvataggio nei pressi di Piazza Mazzini, che le hanno contestato l'acquisto, avvenuto tra gli ombrelloni della spiaggia. Dopo aver atteso il pagamento del borsellino, i due vigili urbani sono entrati in azione.
A Jesolo mille euro di multa
Il primo verbale di multa della stagione è stato notificato a una turista austriaca, che aveva acquistato un borsellino per sette euro da un 'vu cumprà'. L'assessore alla sicurezza: "Questa estate nessuna tolleranza"VENEZIA -
"È doveroso combattere un fenomeno - spiega il sindaco Francesco Calzavara - che rischia di diventare ingestibile: ricevo lamentele tutti i giorni, in una un turista mi ha segnalato di aver avuto 48 visite di ambulanti in spiaggia". Sulla stessa linea anche l'assessore comunale alla sicurezza Andrea Boccato. "Mi spiace per la turista - commenta -, ma questa estate non ci sarà nessuna tolleranza".
(da "La Repubblica" on line, 06 giugno 2010)
Per un cd o un dvd, posso capire: si sa che c'è la Siae, eccetera eccetera. Ma le cose cambiano per occhiali, borsette, portafogli: che ne so io delle marche "griffate"? Confesso la mia assoluta ignoranza.
Ne consegue che, per legge, adesso devo sapere assolutamente che esiste quella tal griffe e quell'altra, saper distinguere i marchi commerciali, eccetera.
A me è successo questo, per esempio: ero in giro e non avevo gli occhiali da sole; siccome il sole cominciava a dar fastidio, sono andato da una bancarella (la prima che ho trovato) e ne ho comperati un paio. Costavano poco, non erano un gran che: ma comunque meglio che niente.
La marca, la griffe? Ho portato gli occhiali da vista per più di trent'anni, per me - dieci diottrie - gli occhiali erano solo quelli, da portare tutto il giorno. E le montature erano scelte in base alla loro robustezza, perché le lenti erano pesanti.
Ho da tempo le mie teorie in proposito: siamo in mano ai paninari, solo a un paninaro degli anni '80 poteva venire in mente di multare qualcuno perché non sa riconoscere le griffes, oppure perché delle griffes se ne frega.
Compra sulla spiaggia per sette euro un borsellino griffato, ma autenticamente falso da un 'vu cumprà' e viene sanzionata con una multa da 1.000 euro dai vigili urbani che avevano assistito alla scena. È accaduto sulla spiaggia di Jesolo, dove da qualche giorno è stata dichiarata guerra al commercio abusivo.
A vedersi consegnare il primo verbale di multa della stagione è stata una turista austriaca di 65 anni, in vacanza nella località balneare veneziana. La donna è stata colta sul fatto da due agenti della polizia locale appostati con il binocolo in una altana di salvataggio nei pressi di Piazza Mazzini, che le hanno contestato l'acquisto, avvenuto tra gli ombrelloni della spiaggia. Dopo aver atteso il pagamento del borsellino, i due vigili urbani sono entrati in azione.
A Jesolo mille euro di multa
Il primo verbale di multa della stagione è stato notificato a una turista austriaca, che aveva acquistato un borsellino per sette euro da un 'vu cumprà'. L'assessore alla sicurezza: "Questa estate nessuna tolleranza"VENEZIA -
"È doveroso combattere un fenomeno - spiega il sindaco Francesco Calzavara - che rischia di diventare ingestibile: ricevo lamentele tutti i giorni, in una un turista mi ha segnalato di aver avuto 48 visite di ambulanti in spiaggia". Sulla stessa linea anche l'assessore comunale alla sicurezza Andrea Boccato. "Mi spiace per la turista - commenta -, ma questa estate non ci sarà nessuna tolleranza".
(da "La Repubblica" on line, 06 giugno 2010)
Per un cd o un dvd, posso capire: si sa che c'è la Siae, eccetera eccetera. Ma le cose cambiano per occhiali, borsette, portafogli: che ne so io delle marche "griffate"? Confesso la mia assoluta ignoranza.
Ne consegue che, per legge, adesso devo sapere assolutamente che esiste quella tal griffe e quell'altra, saper distinguere i marchi commerciali, eccetera.
A me è successo questo, per esempio: ero in giro e non avevo gli occhiali da sole; siccome il sole cominciava a dar fastidio, sono andato da una bancarella (la prima che ho trovato) e ne ho comperati un paio. Costavano poco, non erano un gran che: ma comunque meglio che niente.
La marca, la griffe? Ho portato gli occhiali da vista per più di trent'anni, per me - dieci diottrie - gli occhiali erano solo quelli, da portare tutto il giorno. E le montature erano scelte in base alla loro robustezza, perché le lenti erano pesanti.
Ho da tempo le mie teorie in proposito: siamo in mano ai paninari, solo a un paninaro degli anni '80 poteva venire in mente di multare qualcuno perché non sa riconoscere le griffes, oppure perché delle griffes se ne frega.
venerdì 4 giugno 2010
Il futuro della Cultura in Italia
In casi come questo, copio e incollo (e ringrazio): fin da quand’ero piccolo so bene che mettersi in disparte a leggere è considerato un difetto. Invece di tenerne conto, mi sono riempito la casa di libri: e adesso pago. Mi avevano avvertito, non ne ho tenuto conto, che fesso che sono stato.
«Caro Serra, non crede che, fra i sintomi del quadro patologico molto grave della nostra società, il più orribile sia il culto dell'ignoranza, con il parallelo disprezzo della cultura? L'Italia registra milioni di analfabeti totali e di ritorno, la scuola pubblica è governata da ministri incompetenti e viene mortificata a vantaggio della scuola privata. L'antico triangolo insegnanti-studenti-famiglie s'è spezzato: il secondo e il terzo lato tendono ad allearsi contro il primo, che bada a difendersi dall'aggressività degli altri. Conseguenze: pare che aumenti il numero degli insegnanti vittime della depressione e che migliaia di studenti escano dalle scuole messi male sul piano delle conoscenze storiche, scientifiche, linguistiche. Sconcerta il compiacimento di essere ignoranti. Lo stesso Tremonti, uomo dotto e colto, in un'assemblea di leghisti ha elogiato chi non legge libri. Coltivare l'ignoranza è molto peggio che coltivare la canapa indiana.» Marcello Savini (email)
«Caro Savini, ho dovuto tagliare drasticamente la sua lunghissima lettera, che fa un'articolata analisi dello stato languente della scuola pubblica. Mi premeva pubblicarne la sostanza: individuare nell'arretratezza (anzi, nell'arretramento) culturale del Paese la prima causa della sua crisi. Sono d'accordo, e credo di esserlo, in parte, anche per ragioni di formazione personale: vengo da una «scuola», quella della sinistra storica, nella quale cultura era sinonimo di liberazione, e le «catene dell'ignoranza» non erano considerate meno umilianti della soggezione sociale ed economica. La frase del ministro Tremonti ha colpito molto anche me. Una furbata da comiziante, ma una furbata tutt'altro che casuale: la convinzione che la cultura sia inutile, e peggio ancora sia una sorta di vizio delle élite oziose, è ampiamente diffusa in larghi strati della società. Fare soldi in fretta, e contarli subito, piuttosto che investire in un futuro del quale non si immagina più niente. Io credo sia questo - una cinica rassegnazione, e a ben vedere una sorta di complesso di inferiorità nazionale- a produrre ciò che lei chiama "culto dell'ignoranza". Si desidera imparare, cambiare, migliorare, se ci si sente prossimi a un inizio, a una partenza, a un'avventura. Non si vuole imparare più niente quando si pensa di essere già arrivati a destinazione. Spero che il Pd, alla ricerca delle "dieci parole chiave" per ricostruirsi un linguaggio intellegibile e una dignità politica, metta ai primi due posti la parola salario e la parola cultura. Bastano quasi da sole a definire la sinistra.»
(Michele Serra, dal "Venerdì di Repubblica", 26 maggio 2010)
«Caro Serra, non crede che, fra i sintomi del quadro patologico molto grave della nostra società, il più orribile sia il culto dell'ignoranza, con il parallelo disprezzo della cultura? L'Italia registra milioni di analfabeti totali e di ritorno, la scuola pubblica è governata da ministri incompetenti e viene mortificata a vantaggio della scuola privata. L'antico triangolo insegnanti-studenti-famiglie s'è spezzato: il secondo e il terzo lato tendono ad allearsi contro il primo, che bada a difendersi dall'aggressività degli altri. Conseguenze: pare che aumenti il numero degli insegnanti vittime della depressione e che migliaia di studenti escano dalle scuole messi male sul piano delle conoscenze storiche, scientifiche, linguistiche. Sconcerta il compiacimento di essere ignoranti. Lo stesso Tremonti, uomo dotto e colto, in un'assemblea di leghisti ha elogiato chi non legge libri. Coltivare l'ignoranza è molto peggio che coltivare la canapa indiana.» Marcello Savini (email)
«Caro Savini, ho dovuto tagliare drasticamente la sua lunghissima lettera, che fa un'articolata analisi dello stato languente della scuola pubblica. Mi premeva pubblicarne la sostanza: individuare nell'arretratezza (anzi, nell'arretramento) culturale del Paese la prima causa della sua crisi. Sono d'accordo, e credo di esserlo, in parte, anche per ragioni di formazione personale: vengo da una «scuola», quella della sinistra storica, nella quale cultura era sinonimo di liberazione, e le «catene dell'ignoranza» non erano considerate meno umilianti della soggezione sociale ed economica. La frase del ministro Tremonti ha colpito molto anche me. Una furbata da comiziante, ma una furbata tutt'altro che casuale: la convinzione che la cultura sia inutile, e peggio ancora sia una sorta di vizio delle élite oziose, è ampiamente diffusa in larghi strati della società. Fare soldi in fretta, e contarli subito, piuttosto che investire in un futuro del quale non si immagina più niente. Io credo sia questo - una cinica rassegnazione, e a ben vedere una sorta di complesso di inferiorità nazionale- a produrre ciò che lei chiama "culto dell'ignoranza". Si desidera imparare, cambiare, migliorare, se ci si sente prossimi a un inizio, a una partenza, a un'avventura. Non si vuole imparare più niente quando si pensa di essere già arrivati a destinazione. Spero che il Pd, alla ricerca delle "dieci parole chiave" per ricostruirsi un linguaggio intellegibile e una dignità politica, metta ai primi due posti la parola salario e la parola cultura. Bastano quasi da sole a definire la sinistra.»
(Michele Serra, dal "Venerdì di Repubblica", 26 maggio 2010)
giovedì 3 giugno 2010
Il futuro del Teatro in Italia
- Ma esiste il pubblico che recepisce tutto questo? La scena teatrale non è forse cambiata radicalmente, in un impoverimento progressivo, tra l'indifferenza o lo spregio dei governanti e l'assottigliarsi del dialogo con le grandi platee, che sembrano sempre più lontane dal suo tipo di ricerca?
«Parlare di pubblico in generale è un'astrazione, non esiste un unico interlocutore, ci sono tanti individui diversi. Oggi il pubblico teatrale è un'élite, parola che negli anni Sessanta era scorretta politicamente, mentre adesso è altro. Grazie alla televisione e a Internet non c'è più alcuna élite nella comunicazione e nell'arte, nessun prodotto artistico è inaccessibile, e il teatro come élite vuol dire un luogo rigenerante e positivo fatto per chiunque abbia voglia di andarci nel desiderio di condividere un'esperienza non raggiungibile nell'isolamento e davanti al gelo di uno schermo».
Quanto ai governi che nella crisi tagliano i contributi alla cultura, «il solo modo per fronteggiare tutto questo», sostiene Brook, «è prendere esempio dai massimi maestri di tutti i tempi: Shakespeare e Mozart erano due lavoratori costretti ad arrangiarsi con gli strumenti che avevano a disposizione, l'uno creando un teatro popolare, l'altro accettando le commissioni dei suoi sponsor, ma entrambi senza compromettere l'autenticità e l'onestà della rispettiva ricerca. Malgrado la mancanza di fondi e l'idiozia dei governanti, l'arte resta il luogo del possibile».
(Peter Brook, intervista a Leonetta Bentivoglio, da “La Repubblica” del 16 maggio 2010)
Peter Brook è uno dei più grandi registi di teatro dei nostri tempi, ha fatto spettacoli leggendari che ogni tanto arrivano anche da noi, e ha anche girato dei film molto belli, sia per il cinema che per la tv. Il suo parere è quindi molto interessante, e va tenuto in gran conto. Ragionando sul nostro Paese, però, mi sono venute in mente due o tre suggestioni sulle quali provo a lavorare.
- Brook parla di élite in senso positivo, ma si dimentica di parlare dei prezzi dei biglietti: che sono altissimi, non credo che uno studente o un pensionato possano permetterseli. Da anni ormai il teatro è roba da ricchi, perché i biglietti costano moltissimo.
- Brook sorvola anche sull’uso del microfono e dell’amplificazione, ormai d’obbligo nei nostri teatri: penso che sia perché lui non li usa, ma il problema esiste. Ha ancora un senso il teatro, con il microfonino invece delle vibrazioni della voce umana? Secondo me no, a meno che non si tratti di uno spettacolo come quelli di Marco Paolini, o di Ascanio Celestini, dove capire ogni parola è fondamentale; – ma per Shakespeare, per Pirandello, per il musical, e figuriamoci per Sofocle, il microfonino è la vera negazione del teatro.
- Brook parla di “ricerca” citando Mozart e Shakespeare; la ricerca, caso mai, la faceva Johann Sebastian Bach, e solo quando componeva il Clavicembalo ben temperato. Mozart e Shakespeare, ma anche Goldoni e Giuseppe Verdi, invece si divertivano, si arrabbiavano, facevano la fame, facevano i soldi, erano artigiani alle prese con un lavoro che gli piaceva e che dava molte soddisfazioni, ma che era anche infame e disprezzato. Ma non starò qui a fare la storia del teatro, ci mancherebbe altro.
Questo parlare di “ricerca” a proposito del teatro, però, è significativo sul cambiamento che è avvenuto negli ultimi cent’anni: penso che nell’Ottocento nessuno avrebbe parlato di “ricerca”, come fa invece Peter Brook. Gli spettacoli di Brook sono bellissimi, ma solo perché c’è Peter Brook dietro questi spettacoli; e la stessa cosa succedeva con Giorgio Strehler. Nel teatro non si può teorizzare più di quel tanto, teorizzare e fare ricerca va bene, ma poi bisogna mettere in pratica, perché il teatro è lavoro quotidiano.
Concludendo, è vero: i tagli governativi porteranno alla povertà gli attori, facendoli così tornare al loro stato originario, a come erano sempre stati prima del Novecento. E questa è una notizia terribile, ma qualcosa di positivo c’è: nel teatro ci sono troppo figli di papà, eccetera. Fare teatro era diventata una cosa di moda, roba da fighetti e da mantenute, se mi si passa il termine; da ora in avanti, se il teatro ritorna povero e fuori moda, rimarranno a fare teatro solo quelli che ci credono veramente, e quelli che ne sono capaci. Perché il teatro non è roba da dilettanti, anche il più scalcinato dei clown deve saper suonare uno strumento e saper fare le capriole; e, da questo punto di vista (e solo da questo punto di vista, sia ben chiaro), non vedo l’ora che si ricominci.
«Parlare di pubblico in generale è un'astrazione, non esiste un unico interlocutore, ci sono tanti individui diversi. Oggi il pubblico teatrale è un'élite, parola che negli anni Sessanta era scorretta politicamente, mentre adesso è altro. Grazie alla televisione e a Internet non c'è più alcuna élite nella comunicazione e nell'arte, nessun prodotto artistico è inaccessibile, e il teatro come élite vuol dire un luogo rigenerante e positivo fatto per chiunque abbia voglia di andarci nel desiderio di condividere un'esperienza non raggiungibile nell'isolamento e davanti al gelo di uno schermo».
Quanto ai governi che nella crisi tagliano i contributi alla cultura, «il solo modo per fronteggiare tutto questo», sostiene Brook, «è prendere esempio dai massimi maestri di tutti i tempi: Shakespeare e Mozart erano due lavoratori costretti ad arrangiarsi con gli strumenti che avevano a disposizione, l'uno creando un teatro popolare, l'altro accettando le commissioni dei suoi sponsor, ma entrambi senza compromettere l'autenticità e l'onestà della rispettiva ricerca. Malgrado la mancanza di fondi e l'idiozia dei governanti, l'arte resta il luogo del possibile».
(Peter Brook, intervista a Leonetta Bentivoglio, da “La Repubblica” del 16 maggio 2010)
Peter Brook è uno dei più grandi registi di teatro dei nostri tempi, ha fatto spettacoli leggendari che ogni tanto arrivano anche da noi, e ha anche girato dei film molto belli, sia per il cinema che per la tv. Il suo parere è quindi molto interessante, e va tenuto in gran conto. Ragionando sul nostro Paese, però, mi sono venute in mente due o tre suggestioni sulle quali provo a lavorare.
- Brook parla di élite in senso positivo, ma si dimentica di parlare dei prezzi dei biglietti: che sono altissimi, non credo che uno studente o un pensionato possano permetterseli. Da anni ormai il teatro è roba da ricchi, perché i biglietti costano moltissimo.
- Brook sorvola anche sull’uso del microfono e dell’amplificazione, ormai d’obbligo nei nostri teatri: penso che sia perché lui non li usa, ma il problema esiste. Ha ancora un senso il teatro, con il microfonino invece delle vibrazioni della voce umana? Secondo me no, a meno che non si tratti di uno spettacolo come quelli di Marco Paolini, o di Ascanio Celestini, dove capire ogni parola è fondamentale; – ma per Shakespeare, per Pirandello, per il musical, e figuriamoci per Sofocle, il microfonino è la vera negazione del teatro.
- Brook parla di “ricerca” citando Mozart e Shakespeare; la ricerca, caso mai, la faceva Johann Sebastian Bach, e solo quando componeva il Clavicembalo ben temperato. Mozart e Shakespeare, ma anche Goldoni e Giuseppe Verdi, invece si divertivano, si arrabbiavano, facevano la fame, facevano i soldi, erano artigiani alle prese con un lavoro che gli piaceva e che dava molte soddisfazioni, ma che era anche infame e disprezzato. Ma non starò qui a fare la storia del teatro, ci mancherebbe altro.
Questo parlare di “ricerca” a proposito del teatro, però, è significativo sul cambiamento che è avvenuto negli ultimi cent’anni: penso che nell’Ottocento nessuno avrebbe parlato di “ricerca”, come fa invece Peter Brook. Gli spettacoli di Brook sono bellissimi, ma solo perché c’è Peter Brook dietro questi spettacoli; e la stessa cosa succedeva con Giorgio Strehler. Nel teatro non si può teorizzare più di quel tanto, teorizzare e fare ricerca va bene, ma poi bisogna mettere in pratica, perché il teatro è lavoro quotidiano.
Concludendo, è vero: i tagli governativi porteranno alla povertà gli attori, facendoli così tornare al loro stato originario, a come erano sempre stati prima del Novecento. E questa è una notizia terribile, ma qualcosa di positivo c’è: nel teatro ci sono troppo figli di papà, eccetera. Fare teatro era diventata una cosa di moda, roba da fighetti e da mantenute, se mi si passa il termine; da ora in avanti, se il teatro ritorna povero e fuori moda, rimarranno a fare teatro solo quelli che ci credono veramente, e quelli che ne sono capaci. Perché il teatro non è roba da dilettanti, anche il più scalcinato dei clown deve saper suonare uno strumento e saper fare le capriole; e, da questo punto di vista (e solo da questo punto di vista, sia ben chiaro), non vedo l’ora che si ricominci.
martedì 1 giugno 2010
Il futuro dell'Opera in Italia
Quando ho visto questa pagina di pubblicità qui a fianco, sviato anche e soprattutto dal fatto che la ballerina è capovolta e non facilmente individuabile a prima vista, ho pensato alla réclame di un tonno in scatola.
Distratto da altri pensieri, ho girato pagina e poi sono tornato indietro: no, un “tonno Petruzzelli” non l’avevo mai sentito, suonava bene ma il nome Petruzzelli nella mia memoria era associato un’altra cosa. Ed eccolo lì, il teatro d’opera di Bari che si fa pubblicità con una pagina intera su un noto settimanale: la stagione d’opera, concerti e balletti del Teatro Petruzzelli di Bari. Ma perché mai il Teatro Petruzzelli si fa pubblicità su un giornale nazionale? Forse al Petruzzelli non ci va nessuno e hanno bisogno dei turisti per riempirlo, come fa da tempo l’Arena di Verona?
Sono interrogativi tutt’altro che banali, anche e soprattutto alla luce dei recenti tagli governativi agli enti lirici e a tutto il mondo della cultura. Vedo quindi di ragionarci sopra un po’ e parto dalla mia esperienza personale: a casa mia nessuno si interessava di musica, al massimo qualche canzone. Anche tra i vicini di casa, e tra i parenti, non c’era nessuno appassionato di musica, a parte il festival di Sanremo e la musica per andare a ballare, niente di niente. Però io sapevo cos’era l’Opera: non mi piaceva per niente, ma sapevo che c’era: in tv davano spesso opere e concerti, anche in diretta; il mio maestro alle elementari ci aveva fatto ascoltare dei dischi (penso che fossero suoi) con il coro del Trovatore, eccetera. E poi c’era anche la radio, il terzo canale si prendeva facilmente, e poi c’erano solo tre canali di radio da prendere, prima o poi ci si finiva sopra e si ascoltavano quelle cose strane e ridicole, chissà mai cosa ci troveranno, chissà come fanno ad ascoltarla.
Però qualcosa mi era rimasto dentro, e dopo i 18 anni mi sono accorto che c’era molto di buono, e da allora ho ascoltato tutto l’ascoltabile o quasi, sono andato ai concerti e ho frequentato i teatri d’opera, eccetera. Quando decisi di comperare un’Aida (anno 1979, avevo quasi ventun anni), cioè la prima opera completa della mia vita, trovai a Como un negozio dove un signore onesto e competente, dopo aver visto che ne capivo poco o niente e avevo pochi soldi in tasca, mi consigliò un’edizione discografica un po’antica ma molto ben fatta.
Ecco, facciamo il paragone con quello che è successo dopo. Non ho raccontato queste cose per fare la mia autobiografia (chi se ne frega), ma per fare un confronto con quello che è successo dagli anni ’80 in qua: quante opere liriche può aver visto in tv, o ascoltato alla radio, un bambino di questi ultimi vent’anni? Come fa a sapere se l’opera gli piace oppure no? La risposta è semplice: se non ha nessuno in casa che è appassionato di musica, può arrivare anche a venticinque o trent’anni senza aver mai ascoltato niente di niente, festival di Sanremo e radiodigei a parte.
L’ultima opera lirica trasmessa in diretta dalla Rai è un Macbeth che apriva la stagione della Scala: fece un milione di ascoltatori, e i commentatori ridacchiarono e insultarono sprezzanti chi aveva preso quella decisione: il comico Panariello, il sabato sera, ne faceva sei milioni; e poi nel Macbeth non si poteva mettere la pubblicità, due ore senza neanche un minuto di pubblicità, che spreco, che bestemmia. Di conseguenza, si decise una volta per tutte che il comico Panariello era sei volte meglio di Giuseppe Verdi: sipario chiuso, e non se ne parlò più.
Tutto quello che è venuto in seguito non è che la conseguenza di questi fatti. Ormai siamo a due generazioni di giovani (25 anni di tv commerciale non sono mica pochi) che sono cresciuti senza sapere che cos’è l’Opera e che cos’è una Sinfonia, o un Quartetto d’archi: significa un taglio netto e irreparabile con la tradizione e con il nostro passato.
Lo si voglia o no, è così. Milioni di giovani, e anche di quarantenni e di cinquantenni, trovano patetico e ridicolo uno strumento musicale non elettronico, e violini e violoncelli gli sembrano soltanto un pezzo di mobile – e un mobile antico, di quelli del bisnonno, perché oggi i mobili di legno non si fanno più.
Conclusione: se fate scorrere i nuovi canali della tv digitale, non ce n’è uno dedicato alla cultura. Eppure, la Rai da sola adesso ha tredici canali a disposizione: fare un canale come “Arte” avrebbe costi bassissimi, visto il magazzino Rai, e magari qualcuno potrebbe appassionarsi ancora a queste vecchie e ridicole cose. Ma non se ne parla nemmeno, non c’è nessun dibattito in corso, si dà per scontato che i nuovi canali servono per raccogliere pubblicità e per le partite di calcio da trasmettere a pagamento, con l’apposita smart card. E i dischi, i cd, i dvd? Tutta roba vecchia, obsoleta, ormai si scarica da internet, i negozi gestite da persone competenti capaci di consigliarti sono completamente scomparsi, non solo nelle piccole città ma anche a Milano.
E’ la fine, la fine di una tradizione che ha tenuto alto il nome dell’Italia nel mondo: negli anni ’30 eravamo famosi più che altro per i gangsters i fascisti e i mafiosi, ma poi c’era Toscanini; negli anni ’70 e ‘80 eravamo sempre mal visti come italiani, ma poi c’era Claudio Abbado, c’era Giulini, c’erano Muti e Chailly, c’era Maurizio Pollini, Pavarotti, Mirella Freni... Fine della corsa. L’Italia ha voltato pagina, e per sempre: se volete l’Opera andate in Cina, in Corea, o magari a Berlino.
Distratto da altri pensieri, ho girato pagina e poi sono tornato indietro: no, un “tonno Petruzzelli” non l’avevo mai sentito, suonava bene ma il nome Petruzzelli nella mia memoria era associato un’altra cosa. Ed eccolo lì, il teatro d’opera di Bari che si fa pubblicità con una pagina intera su un noto settimanale: la stagione d’opera, concerti e balletti del Teatro Petruzzelli di Bari. Ma perché mai il Teatro Petruzzelli si fa pubblicità su un giornale nazionale? Forse al Petruzzelli non ci va nessuno e hanno bisogno dei turisti per riempirlo, come fa da tempo l’Arena di Verona?
Sono interrogativi tutt’altro che banali, anche e soprattutto alla luce dei recenti tagli governativi agli enti lirici e a tutto il mondo della cultura. Vedo quindi di ragionarci sopra un po’ e parto dalla mia esperienza personale: a casa mia nessuno si interessava di musica, al massimo qualche canzone. Anche tra i vicini di casa, e tra i parenti, non c’era nessuno appassionato di musica, a parte il festival di Sanremo e la musica per andare a ballare, niente di niente. Però io sapevo cos’era l’Opera: non mi piaceva per niente, ma sapevo che c’era: in tv davano spesso opere e concerti, anche in diretta; il mio maestro alle elementari ci aveva fatto ascoltare dei dischi (penso che fossero suoi) con il coro del Trovatore, eccetera. E poi c’era anche la radio, il terzo canale si prendeva facilmente, e poi c’erano solo tre canali di radio da prendere, prima o poi ci si finiva sopra e si ascoltavano quelle cose strane e ridicole, chissà mai cosa ci troveranno, chissà come fanno ad ascoltarla.
Però qualcosa mi era rimasto dentro, e dopo i 18 anni mi sono accorto che c’era molto di buono, e da allora ho ascoltato tutto l’ascoltabile o quasi, sono andato ai concerti e ho frequentato i teatri d’opera, eccetera. Quando decisi di comperare un’Aida (anno 1979, avevo quasi ventun anni), cioè la prima opera completa della mia vita, trovai a Como un negozio dove un signore onesto e competente, dopo aver visto che ne capivo poco o niente e avevo pochi soldi in tasca, mi consigliò un’edizione discografica un po’antica ma molto ben fatta.
Ecco, facciamo il paragone con quello che è successo dopo. Non ho raccontato queste cose per fare la mia autobiografia (chi se ne frega), ma per fare un confronto con quello che è successo dagli anni ’80 in qua: quante opere liriche può aver visto in tv, o ascoltato alla radio, un bambino di questi ultimi vent’anni? Come fa a sapere se l’opera gli piace oppure no? La risposta è semplice: se non ha nessuno in casa che è appassionato di musica, può arrivare anche a venticinque o trent’anni senza aver mai ascoltato niente di niente, festival di Sanremo e radiodigei a parte.
L’ultima opera lirica trasmessa in diretta dalla Rai è un Macbeth che apriva la stagione della Scala: fece un milione di ascoltatori, e i commentatori ridacchiarono e insultarono sprezzanti chi aveva preso quella decisione: il comico Panariello, il sabato sera, ne faceva sei milioni; e poi nel Macbeth non si poteva mettere la pubblicità, due ore senza neanche un minuto di pubblicità, che spreco, che bestemmia. Di conseguenza, si decise una volta per tutte che il comico Panariello era sei volte meglio di Giuseppe Verdi: sipario chiuso, e non se ne parlò più.
Tutto quello che è venuto in seguito non è che la conseguenza di questi fatti. Ormai siamo a due generazioni di giovani (25 anni di tv commerciale non sono mica pochi) che sono cresciuti senza sapere che cos’è l’Opera e che cos’è una Sinfonia, o un Quartetto d’archi: significa un taglio netto e irreparabile con la tradizione e con il nostro passato.
Lo si voglia o no, è così. Milioni di giovani, e anche di quarantenni e di cinquantenni, trovano patetico e ridicolo uno strumento musicale non elettronico, e violini e violoncelli gli sembrano soltanto un pezzo di mobile – e un mobile antico, di quelli del bisnonno, perché oggi i mobili di legno non si fanno più.
Conclusione: se fate scorrere i nuovi canali della tv digitale, non ce n’è uno dedicato alla cultura. Eppure, la Rai da sola adesso ha tredici canali a disposizione: fare un canale come “Arte” avrebbe costi bassissimi, visto il magazzino Rai, e magari qualcuno potrebbe appassionarsi ancora a queste vecchie e ridicole cose. Ma non se ne parla nemmeno, non c’è nessun dibattito in corso, si dà per scontato che i nuovi canali servono per raccogliere pubblicità e per le partite di calcio da trasmettere a pagamento, con l’apposita smart card. E i dischi, i cd, i dvd? Tutta roba vecchia, obsoleta, ormai si scarica da internet, i negozi gestite da persone competenti capaci di consigliarti sono completamente scomparsi, non solo nelle piccole città ma anche a Milano.
E’ la fine, la fine di una tradizione che ha tenuto alto il nome dell’Italia nel mondo: negli anni ’30 eravamo famosi più che altro per i gangsters i fascisti e i mafiosi, ma poi c’era Toscanini; negli anni ’70 e ‘80 eravamo sempre mal visti come italiani, ma poi c’era Claudio Abbado, c’era Giulini, c’erano Muti e Chailly, c’era Maurizio Pollini, Pavarotti, Mirella Freni... Fine della corsa. L’Italia ha voltato pagina, e per sempre: se volete l’Opera andate in Cina, in Corea, o magari a Berlino.
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