Mi ha veramente stufato, questa storia della crisi economica che viene da fuori e che noi non c’entriamo e ci tocca subirla da poveri innocenti: è una storiella che viene raccontata ad ogni istante, ad ogni dibattito, e per di più con quelli che dovrebbero fare opposizione a dire “sì, è vero, sono d’accordo”.
Siccome fin da piccolo sono stato rimproverato per questo atteggiamento, e mi hanno sempre detto di provare a guardare se invece io (io!) avevo fatto qualche sbaglio, di non star lì a fare la vittima e di dar la colpa agli altri, mi sento autorizzato a mettere per iscritto gli argomenti su cui vorrei invece che si parlasse per esteso. Per esempio:
- La fuga delle industrie dall’Italia, e soprattutto dalla Padania, dura da parecchio tempo: non è solo la Fiat e la Omsa che vanno in Serbia o la Bialetti che va in Cina: è di una decina di anni fa la notizia (passata sotto silenzio o quasi) che gli industriali e gli artigiani del Veneto tengono le loro riunioni in Romania, perché ormai sono tutti lì ed è più comodo. Questa fuga di massa ha molte ragioni, ma una mi sembra chiara: in Confindustria e Confartigianato non si fidano del Governo, non hanno fiducia nei Bossi e nei Berlusconi, men che meno nei Maroni e nei Cota e negli Zaia e nei Brunetta, e sanno bene che Tremonti non è in grado di governare il deficit di bilancio. A parole, dicono tutt’altro; nei fatti, dimostrano ampiamente di non fidarsi. E fuggono all’estero.
- Il ruolo dei sindacati in questa crisi è minimo, quasi zero: sia nel bene che nel male. I sindacati sono come gli avvocati in tribunale, come gli agenti dei calciatori e degli attori: l’avvocato vuole sempre fare assolvere il suo cliente, l’agente spara sempre cifre grosse per l’ingaggio. Tutto sta poi a vedere cosa si può ottenere. Si incolpano dunque i sindacati perché vogliono far guadagnare di più le persone che rappresentano? Questa sì che è bella, è un’antica barzelletta ma vedo che se la bevono ancora tutti, allegramente.
- E’ da un quarto di secolo, dalla metà degli anni ’80, che si insegna ai giovani, ripetutamente e con martellamenti assai insistenti, quali sono i lavori fighi e convenienti: il marketing, il pubblicitario, le vendite. Se si parte da queste premesse, cioè che l’importante è vendere e non importa cosa si vende e come lo si vende, si capisce bene che cosa è successo a questo Paese: a un manager cresciuto nel culto del “vendere vendere vendere” non importa un fico secco se la merce viene dalla Cina o da Kyssadove, lui vende e basta. Se poi le fabbriche chiudono e tutti si trasferiscono in Serbia o in Malesia, chi se ne frega: il venditore la sua parte ce l’ha lo stesso, il pubblicitario può continuare a inventare slogan, gli altri si arrangino che non è compito nostro.
- I padri di questi venditori (ormai quarantenni) erano in gran parte i leggendari industriali brianzoli e lombardi, quelli del boom economico. Ne ho conosciuti parecchi: il loro motto era lavorare, lavorare, lavorare, e non vendere, vendere, vendere. Se lavori bene poi la gente compera: e lavorare bene significa avere idee, progettare, essere affidabili, inventarsi ogni giorno qualcosa di nuovo. Molto più facile e molto meno faticoso comperare dai cinesi e dai malesi e rivendere qui: infatti i figli hanno la Ferrari, i padri non ce l’avevano; i figli fanno le vacanze a Sharm e alle Mauritius, i padri passavano le vacanze in fabbrica. I risultati si vedono: sempre più Suv e Bmw, e sempre più disoccupati.
C’è altro da dire? Oh sì, e tanto. Ma qui mi fermo, tanto a cosa serve? Non appena si prova ad affrontare seriamente il discorso, si alza su il Bossi e dice : «Zingari, finocchi, federalismo, secessione!». La volta dopo tocca a Tremonti, che dirà di essere sempre stato marxista; poi a Brunetta, che se la prenderà con gli statali fannulloni; l’importante è cambiare discorso, non discutere e non entrare mai nei fatti. Un anno fa, si sa, la crisi non esisteva nemmeno; e chi ne parlava era bollato come iettatore. Quest’anno la crisi c’è, e purtroppo bisogna fare i sacrifici. Comincia tu, però, che Piersilvio è in giro sullo yacht nuovo da sei milioni di euro e non ha proprio tempo; e nemmeno Renzino Bossi ha tempo, deve ancora fare un giro sulla pista di Monza con la sua moto nuova di pacca.