1.
- T’ha cercato lamonica, dov’eri? – mi chiede il signor Agosta, un po’ preoccupato.
- Vado subito a cercarla – rispondo io.
Il signor Agosta è una persona gentile e attenta, siamo nella stessa stanza d’ospedale da diversi giorni (il tempo per le analisi, le diagnosi, eccetera) abbiamo fatto amicizia e ormai lo conosco bene, così come è successo con i miei altri due compagni d’avventura. Non ero andato lontano, non è mica facile andar lontani in un ospedale dopo un’operazione, per di più con tutto quel trespolo da portarsi dietro. Non un trespolo di pappagallini, ma un’alberatura di sacche, di flebo, di cose varie, montato su rotelline: è uno strumento molto utile e chi è stato in ospedale sa bene di cosa si tratta. Una volta non era così, si pensava che i malati dovessero starsene a letto immobili; poi si è scoperto che è meglio se ti alzi subito e fai una passeggiata, e così ho fatto.
- Adesso lei si alza e va a farsi un giro – mi avevano detto il giorno dopo l’operazione. Così, subito? Ma io sto male, mi gira la testa, mi fa male il pancino, non ho ancora smaltito l’anestesia...Non importa, c’è l’infermiera che ti assiste. E così vado, non lontano ma vado: tutto il corridoio fino alla sala d’attesa, poi magari trovi qualcuno con cui chiacchierare, si perde tempo, ma tanto non devi mica timbrare il cartellino.
E così sono stato in giro un po’ più del normale; però adesso, adesso che ci penso, ho un piccolo problema. Il signor Agosta, nato e cresciuto alle pendici dell’Etna, parla con uno spiccato accento catanese. Anzi, non è un accento: è quasi la sua lingua madre, appena un po’ attenuata. Per fortuna un po’ di catanesi li ho frequentati, e dunque quello che mi dice Agosta l’ho sempre capito senza troppa fatica; però adesso il problema è questo, chi mi ha cercato? Ho tre opzioni possibili: l’infermiera Monica, il dottor Lamonica (medico chirurgo, molto stimato), oppure la suora. Chi sarà mai che mi ha cercato? Vado e vedo, qui sono tutti gentilissimi e non si rischia di essere fraintesi.
2.
Un altro ricordo che mi lega all’infermiera Monica è questo: la maggior parte delle infermiere dell’ospedale erano piccoline e minute, Monica era alta e robusta, giovane e prosperosa. Così nei primi giorni successivi all’operazione mi si avvicina e mi dice:
- Su, si alzi, è ora della passeggiata.
E mi tende la mano, per aiutarmi.
- Sicura di volerlo fare? – le chiedo, perché io sono molto più grande e più grosso di lei.
- Si fidi – mi dice lei, con la mano tesa. E io mi fido, le prendo la mano e ci provo; ma il risultato è come me lo aspettavo io, la ferita mi fa male e mi blocco, non sono io che mi alzo ma è lei che finisce addosso a me, o quantomeno una via di mezzo fra le due cose. E io per un attimo mi trovo immerso in qualcosa di soffice e di bello, con un buon profumo: che sia forse un anticipo del Paradiso? No, ma era bello pensarci, ed è un peccato che i miei ricordi con Monica finiscano qui. Infatti ci riproviamo, stavolta riesce (temevo per la sua schiena, a dire il vero: è così che si prende l’ernia del disco), mi alzo e comincio la camminata. Insomma, non era il momento e forse non lo sarebbe mai stato, ma adesso so che anche una laparatomia può avere i suoi lati positivi.
3.
Un’altra infermierina, piccola ma molto graziosa, il giorno prima della mia dimissione. Ormai sto bene, ma c’è ancora bisogno di qualche iniezione di antibiotico.
- La facciamo a letto o preferisce alzarsi?
Scelgo di alzarmi, perché l’altro giorno l’iniezione fatta da sdraiato ha faticato a smaltirsi. E così lei esegue, ma la differenza di statura è davvero notevole, mi arriva poco più su dell’ombelico.
- Un’iniezione da cavallo, - commenta lei a mezza voce, ed esegue.
Fatto niente, quasi non me ne sono accorto. Una strofinata con l’alcool e via, verso nuove avventure.
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