Qui, dove sono nato e cresciuto, c’era granturco ovunque. Adesso non ce ne è più nemmeno un centimetro quadrato, tutto estirpato e cementato con meticolosa cura; ne resiste qualcosa ancora solo verso sud, verso Milano, ma è chiaro che sparirà presto. Faccio l’inventario: dove c’erano i campi di pannocchie (che da generazioni i bambini andavano a rubacchiare, come ovunque, cercando di non fare troppi danni) adesso ci sono: villette a schiera; un centro commerciale; una strada nuova (che serve alle villette a schiera); un parcheggio per autocarri; altre villette a schiera; un parcheggio per automobili; e cos’altro ancora? Beh, non è importante, cos’è successo lo sanno tutti.
Con quel granturco, con il mais, i nostri vecchi facevano la polenta. Viene su facilmente, dà ottime rese, polenta e patate in Lombardia e in Veneto non sono mai mancate. Non si mangiava mica tanto bene, qui al Nord: la cucina buona cominciava dall’Emilia, dal Piemonte, qui c’era solo la polenta e poco altro. Andando su verso le montagne, qualcosa di buono ricominciava ad esserci: i formaggi, il vino, i laghi e la Valtellina, insomma. Qui intorno, a nord di Milano, a mangiare bene si è cominciato solo quando sono arrivati quelli di fuori, i toscani, gli emiliani, i veneti; e poi, dopo gli anni sessanta, anche i pugliesi, i napoletani, i meridionali in genere. Prima, prima di quelli che venivano da fuori (loro sì che sapevano far da mangiare bene!), qui c’era la polenta, la cassoeula (cioè verze col maiale), e poco altro.
Ma adesso, oggi, anno 2010, se uno vuole farsi la polenta deve comperare il granturco da fuori. Se va bene, dal bresciano e dal bergamasco; altrimenti, chissà da dove (saperlo...), magari dal Canada o dall’Ucraina (il frumento viene quasi tutto da lì, i nostri spaghetti e maccheroni in realtà sono canadesi). Una volta eravamo dipendenti dall’estero soltanto per il petrolio e il carbone, oggi lo siamo anche per la polenta – ma guai a dirlo, che si offendono. Bisogna chiudere accuratamente occhi e orecchie, e andare allegramente in compagnia a mangiare polenta e osei in trattoria, come i nostri vecchi però meglio se ci andiamo col fuoristrada da novantamila euro.
Osei, in tutta l’area veneta, sono gli uccelli: che si mangiavano con la polenta. Una volta di osei, qui in giro, ce n’erano tanti; l’inverno scorso ho contato una ventina di passeri, qualche cincia, un pettirosso; quest’anno quasi niente. Estinti anche i passeri, in Lombardia? Si direbbe di sì, passeri e granturco, specie estinte.
Polenta e osei era un mangiare da poveri, da disperati. Di uccellini (dal merlo alla cinciallegra) ce ne erano a milioni, portarne via un po’ a madre natura non era uno scempio come può immaginare chi è cresciuto con i cartoons e la playstation, ed era anzi una fonte di proteine indispensabile per chi non poteva permettersi altro. Polenta e osei, insomma, evoca (o dovrebbe evocare) immagini di fame e di miseria: i tempi in cui ci si ammalava di pellagra e di scòrbuto, malattie bruttissime di cui per nostra fortuna abbiamo perso la memoria, e che derivavano – appunto – da un’alimentazione in cui era presente solo la polenta, e qualche uccellino ma piccolo (di sicuro, ci scappava anche qualche topolino: ma guai a dirlo, polenta e ràtt non lo ammetterà mai nessuno, ma è pur sempre carne bianca). Speriamo che non tornino mai quei tempi, di poter continuare a mangiare la polenta (che è ottima) ma con il gorgonzola, con il parmigiano, con un bell’umido al pomodoro, magari con il peperoncino; e dopo, quando la polenta è finita, un’arancia fresca, magari un mango, ma niente osei prego. Di osei, ne hanno mangiati fin troppi i miei antenati: in loro memoria e in loro onore, un’altra porzione di polenta, magari con la marmellata di prugne e con la mostarda cremonese.
M’estinguerò con l’ultimo dei passeri
che girano qui attorno alla mia casa;
passeri eroici sui rami che traballano
dei pochi alberi rimasti, ed altre cose;
e ormai non so più dir se questa casa,
che fu in campagna, pur senza muoversi s’è mossa.
Ed ora, qui con venti passeri,
con il merlotto e con un pettirosso,
aspetto primavera; e forse è l’ora,
io morirò con questi quattro passeri,
a finger primavera che sia ancora
(la finta primavera mi addolora).
(il trionfo dei SUV e del cemento, 5.3.2007)
(versi di Emilio Gauna, da http://www.golemindispensabile.it/ )
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