venerdì 12 novembre 2010

Trigonometria

Non mi è mai piaciuto dire “i seni”, eppure oggi lo dicono tutti. Il seno destro, il seno sinistro: a me avevano insegnato che “seno” indica tutta quella parte del petto, il seno in grammatica era indivisibile e non aveva plurale. La conferma viene da molte espressioni proverbiali: “covare una serpe in seno”, “stringere al seno”. Anche un uomo (un maschio) può ben stringere al seno un amico, un figlio, un fratello: significa che lo stringe stretto, tirandolo contro di sè. E una serpe in un seno solo non ci sta, scivola via: ci vuole tutto il petto, per nasconderla sotto la camicia abbottonata.
La vera natura del problema, di per sè insignificante (le parole cambiano spesso significato, nelle lingue parlate) l’aveva spiegata bene uno psicoanalista (purtroppo sono passati tanti anni, e il nome non me lo sono segnato): il nome italiano corretto di quella parte anatomica non è seno, è “mammella”. Il fatto che sia ormai diventato d’uso comune dire “i seni”, specificando bene “il seno destro, il seno sinistro”, sta anche nella rimozione collettiva dell’allattare. Il seno è un richiamo erotico, la mammella no: la mammella è una cosa da mungere, la mammella ce l’hanno le vacche. E, soprattutto, una mammella non può essere di silicone; un seno invece sì.
I nostri vecchi, in dialetto, tagliavano corto: la parola da usare, in quasi tutto il Nord Italia, è “tetta”; e allattare si dice “tettare”. Mi hanno insegnato, fin da piccolo, che “tetta” non si dice, perché è volgare; ma “tettare” è qualcosa che si riferisce ai bambini, ai neonati. Probabilmente, “tetta” ha la stessa origine di “mamma”: una parola semplice, due sillabe, una delle prime che un bambino piccolo può imparare a dire. E così non posso dire né tetta né mammella, eppure mi piacerebbe usare le parole giuste. Mi tocca invece dire “seno”, e fin qui passi; ma “i seni” proprio non mi esce, magari in un’altra vita ci riuscirò, in questa qui proprio non mi viene – e a dirla tutta sono sempre più numerosi i giorni in cui preferirei (per l’appunto) di tornare bambino. Ma un bambino molto piccolo, che ancora non sa che cosa l’aspetta fuori da quel seno.
PS: L’illustrazione che ho scelto è un dipinto di Guido Reni, che mostra Cleopatra morsa dall’aspide. E’ un quadro che mi è sempre piaciuto molto, al di là della grandezza del pittore, anche perché mostra in modo del tutto evidente che dell’aspide, al pittore, non importava un fico secco. L’importante era un’altra cosa, illustrata con dovizia: e qui ringrazio sentitamente, anche dopo tutti questi anni, sia il pittore che la modella.

4 commenti:

Marisa ha detto...

La tua resistenza vervo l'utilizzo al plurale della parola seno è del tutto giustificata: di "seno" ce n'è uno solo in quanto è l'incavo, il solco, l'insenatura tra due sporgenze, le mammelle per l'appunto. Siccome rappresenta il solco, simbolicamente può rappresentare anche il tutto legato alla funzione nutrimento, quel seno materno sempre fantasticato, all'origine di ogni desiderio (cibo, calore, affetto,e poi via via sempre più sessualizzato...)

Giuliano ha detto...

Seno è, in sostanza, una curva, un'insenatura...però le parole cambiano significato, "desemantizzano". Sarebbe utile tornare a dire mammelle, ma non succederà. Io per intanto mi arrangio, un po' come quando non sai se dare del tu o del lei a una persona e nell'attesa si cercano dei giri di parole (alle volte funziona)
:-)

franz ha detto...

è una parola che si impara da grandi, e davvero, cambiando nome, diventa slegata dalla funzione originaria

Giuliano ha detto...

Hai fatto caso che ormai le foto sono tutte ritoccate e taroccate? L'altro giorno ho visto di una delle mie parti che era stata nominata miss qualchecosa, sono andato a vedere e anche lei - me l'aspettavo, era scontato - aveva i due mezzi meloni rigidissimi. Ma dico, a vent'anni...
Non che sia una bella parola, "mammelle", ma insomma. Era così bello, che ognuna avesse le sue, e invece, tutte uguali. Mah.