Ieri in tv, verso le 13, era ospite di Corrado Augias uno stimato professore della Bocconi; intorno a lui, alcuni studenti di un istituto per geometri. Non sto qui a fare il nome del professore della Bocconi, non è poi così importante al fine del mio discorso; dirò solo che si tratta di una persona vicina (almeno in teoria) al centrosinistra.
L’argomento era la scuola, e il suo rapporto con il mondo del lavoro. Il professore della Bocconi ha detto che bisogna collegare la scuola al mondo del lavoro, e che il diploma di scuola superiore non basta più, bisogna migliorare i corsi triennali universitari. E qui, lo ammetto, sono rimasto – come dire – perplesso. In che mondo vivono questi economisti, questi professori della Bocconi?
Io una scuola come quella che descriveva il professore della Bocconi l’ho già fatta: non solo mi ci sono iscritto (quasi) quarant’anni fa, ma la mia scuola esiste dal 1859, poco prima dell’Unità d’Italia. Scuole simili alla mia esistono ovunque, in Italia: nelle Marche c’è il perito chimico ad indirizzo cartario, a Faenza c’è un diploma di scuola superiore voluto dall’industria della ceramica, eccetera eccetera eccetera. Sono realtà che esistono da tempo immemorabile, ma la novità oggi è questa: per chi non se ne fosse accorto, sono sparite le fabbriche.
La scuola che ho frequentato io, e che mi è servita molto, oggi è frequentata da giovani che fanno fatica a trovare lavoro, molta fatica: e la ragione è questa, l’industria tessile e tintoriale ormai è tutta made in China. Le grandi ditte “storiche” hanno chiuso e licenziato qui, e sono andate in Cina, in Romania, in Serbia, in Turchia, ovunque. Possibile che alla Bocconi non se ne siano ancora accorti?
L’altra questione, quella del diploma che non basta più e servono i corsi triennali universitari, è ancora più drammatica: l’analisi è esatta, ma bisognerebbe trarne delle conclusioni. Se queste conclusioni non si traggono, mi vien da dire, la ragione c’è: il professore della Bocconi stava infatti dicendo ai giovani che studiare e diplomarsi ai fini del lavoro non serve a niente, e che i loro genitori dovranno mantenerli fino ai ventidue o venticinque anni. Eterni bambini, ma non per loro colpa. Per chi non lo sapesse, professori della Bocconi inclusi, le scuole superiori quando funzionano bene (e così dovrebbe essere sempre) danno una preparazione ottima, con il diploma di perito chimico ti prendevano a lavorare già a diciassette anni, d’estate, e poi quel posto di lavoro diventava quasi sempre un posto di lavoro vero. Questo succedeva fino a qualche anno fa: oggi mi guardo in giro, e le fabbriche che conoscevo e che sembravano eterne non ci sono più. I piccoli hanno chiuso, i grandi hanno spostato la produzione all’estero, deserto sulla terra lombarda. Con buona pace della Lega Nord, tra poco se ne accorgeranno tutti. I diciottenni, a quel che vedo, l’hanno già capito da un pezzo.
Che dire? Sono vent’anni che siamo bombardati da messaggi più o meno bocconiani, “privatizzare”, “gestire lo Stato come un’azienda”, eccetera eccetera: i risultati sono quelli che abbiamo sotto gli occhi adesso, novembre 2011. Forse sarebbe ora di cambiare sistema. I bocconiani teniamoli buoni per redigere i bilanci e come cassieri-tesorieri, per il resto, cioè per la Politica, suggerirei qualcuno con una visione più ampia.
Sugli economisti circolano molte barzellette divertenti. Quella che mi sembra perfetta per il discorso del professore della Bocconi di cui parlavo all’inizio è questa: c’è un signore che decide di fare un giro in mongolfiera, e tutto funziona bene ma poi si alza un po’ di vento e perde l’orientamento. Così decide di abbassarsi e di chiedere informazioni a un passante: «Scusi, buon uomo, mi sa dire dove sono adesso?» «Su un pallone» risponde il passante. L’altro rimane un attimo perplesso, poi chiede: «Mi perdoni, ma lei è per caso un economista?» «Sì, come ha fatto a capirlo?» «Lei mi ha appena dato un’informazione esatta, ma che non mi serve a niente: dunque, ne deduco, lei è sicuramente un economista di professione.»
Però preferisco chiudere con un’altra storia, non barzelletta ma storia vera: quella di Angelo Rizzoli senior, che ho visto di recente su Raistoria (canale 54 digitale terrestre). Gli intervistati erano grandi giornalisti, Montanelli, Biagi, Afeltra; la cosa che più mi è rimasta in mente è questa, “Rizzoli non ha mai fatto debiti, se gli serviva una macchina nuova (per la stampa dei libri e delle riviste) prima la noleggiava, e poi quando aveva cominciato a guadagnarci decideva se era il caso di comperarla.”. Normale economia domestica, si dirà: ma Rizzoli in partenza non aveva nulla di nulla, era uscito dal collegio dei martinitt, cioè gli orfani di Milano, ed era diventato un grande industriale proprio con questi metodi, mai indebitarsi, niente prestiti e molte idee in testa. In questi anni invece hanno indicato la strada i teorici dei bonds, dei derivati, queste cose qui, col risultato che stiamo tutti lavorando per pagare gli interessi sul debito. Follia pura, ma aspetto ancora qualcuno che si alzi a dirlo.
PS: è di ieri sera la nomina di Mario Monti, rettore della Bocconi, a senatore a vita: “per alti meriti culturali”. Mah. Incrociamo le dita e speriamo in bene, a me per quella motivazione erano venuti in mente almeno altri venti nomi prima di lui, ma quantomeno – questo possiamo dirlo - non è un qualsiasi commercialista di provincia.
Fango bollente - Vittorio Salerno
11 ore fa
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