Qualche imprenditore brianzolo, o comasco, o varesotto, l’ho pur conosciuto anch’io: nel senso che ci ho lavorato, sono stato alle loro dipendenze, ci ho parlato insieme, queste cose qui. Mi sento quindi di poter parlare con cognizione di causa, e del resto non sto per dire cose rivoluzionarie, ma qualcosa che tutti sappiamo o che quantomeno dovremmo sapere. Le cose funzionavano quasi sempre così: in tempi di boom economico, gli anni ’50 e ’60, le ditte grandi o medio-grandi avevano spesso un’eccedenza di lavoro. Così si trovavano davanti ad un bivio: cosa fare, ingrandire la ditta o affidare una parte del lavoro a terzi? Ognuno faceva le sue valutazioni, ma la via più semplice era questa: prendere un proprio dipendente di quelli bravi ed affidabili, capoturno o caporeparto, e proporgli di mettersi in proprio, aiutandolo inizialmente. Così fecero in molti, e quasi tutti con successo. I più bravi si affrancarono presto dalla ditta di partenza, cercando nuove commesse e nuovi brevetti, non rimanendo fermi e diventando presto indipendenti.
Questo è successo per decenni, soprattutto nell’industria tessile e tintoriale e in quella metalmeccanica. La voglia di lavorare, dunque, c’entra: ma è solo una parte del fenomeno, anche oggi la voglia di lavorare non manca, così come non mancherebbe la voglia di impresa; manca invece la materia prima, cioè il lavoro in sè. Quasi tutto quello che è tessile o metalmeccanico, oggi, viene dalla Cina o da altri Paesi d’Europa, quella che una volta era l’Europa dell’Est e che oggi invece fa magari parte dell’UE. Un’altra cosa che è venuta a mancare, rispetto ai decenni passati, è l’appoggio delle banche: possibilità di finanziamenti vicina allo zero, e scomparsa quasi totale delle piccole banche locali che quasi sempre conoscevano di persona i piccoli imprenditori e sapevano a chi dare fiducia. Oggi le banche sono quasi soltanto i colossi che conosciamo, e che si comportano spesso più da strozzini che da banca (chiedo scusa per la parola, ma è così), ottenere credito è difficilissimo. Spesso, basta guardarsi intorno e vedere che fine ha fatto chi ha provato a “mettersi in proprio” (magari amici o parenti) per farsi passare ogni minima voglia di imprenditorialità.
Questa è la realtà, ma nelle dotte analisi finanziarie o giuslavoristiche non ne sento mai parlare. Per rimanere a queste ultime settimane: 200 dipendenti da licenziare a Olgiate Comasco (motori elettrici), 140 a Caronno Pertusella (tra Milano e Varese, stampaggio cd e dvd), 600 a Varese (elettrodomestici: la Whirlpool), e, ultima ma solo per la data dell’annuncio, i 5000 (cinquemila) dipendenti da liquidare del colosso Unicredit. Qui invece si parla di contratti, di sindacati, di tasse, di lacci e di lacciuoli, di imprese da aprire in un solo giorno, e ci si dimentica che con la legislazione degli anni ’60 e ’70 abbiamo fatto il boom economico, il lavoro c’era, e siamo stati bene tutti – quantomeno al Nord.
Di queste analisi non so cosa farmene. Di analisti del lavoro o di esperti di finanza che non partono da questo dato di fatto, la scomparsa del lavoro, la chiusura delle fabbriche, la globalizzazione, la delocalizzazione, io di questi analisti del piffero (chiedo ancora scusa per il linguaggio), io non so proprio che cosa farmene, eppure eccoli ancora lì a pontificare, a dire “si fa così, anzi bisogna fare così”.
In questo marasma di analisi che non tengono conto dei fatti, ecco rispuntare il luogo comune sull’imprenditore brianzolo (o comunque lombardo) che “lui sì che ha voglia di lavorare” e che tiene in piedi da solo l’economia italiana: magari fosse ancora così, magari. Come in tutti i luoghi comuni, c’è molto di vero, anzi moltissimo: ma, per piacere, vorrei una risposta alla mia domanda. Che, ridotta ai minimi termini, è questa: quante imprese hanno chiuso, in Lombardia, negli ultimi 15 anni? Quanti posti di lavoro in meno?
Life History of the Grey Tinsel
1 giorno fa
8 commenti:
... e anche quanti imprenditori suicidi!
vero, purtroppo.
non vedo perchè ti senti in dovere di scusarti per il linguaggio: si meritano questo, e di peggio. quando "i numeri " sono vicini a te e hanno delle facce, le cose assumono una dimensione più concreta e più triste. (vale anche per il post sul Paese dormitorio). Mi paice quando racconti le cose così, senza fronzoli ma con partecipazione.
le parole sono importanti: veniamo da anni in cui i ministri e i fondatori di partiti e movimenti si esprimevano per oscenità e rutti (uso il passato, spero che sia il passato ma ne dubito), di regola cerco di essere educato, almeno quando scrivo. L'aria che tira comunque non cambia: prima erano stupidi, incompetenti e cattivi, adesso sono solo cattivi.
Sì, hai ragione sul lavoro, questione centrale dimenticata da molti (non tutti, non facciamo di tutta l'erba un fascio). E lavoro vuol dire diritti, tutele, progetti. Non finanza e cose astratte, che, questo governo, come il precedente, continua a privilegiare. Brutti, sporchi e cattivi, questi solo cattivi, di sicuro anche brutti, dai ;)
dimenticata da tutti quelli che contano, quelli che prendono le decisioni e quelli che sono vicini a loro... Di certo Landini della Fiom ha ben presente cosa succede, ma lo trattano come se fosse un demente.
Uno che non mi dispiace nel governo c'è, Riccardi. Difatti ha un dicastero marginale...
saluti carissimi
Certo, allora per fare nomi anche Cremaschi, sempre Fiom, e tutta quella sinistra fatta fuori dal parlamento, grazie anche, ad una legge antidemocratica e al silenzio stampa.
Su Riccardi posso concordare con te.
speriamo di rivederli presto, in Parlamento, quelli di sinistra. Con il PCI al 35% queste cose non sarebbero mai successe - ma qui credono tutti di essere stati furbi a votare per il bossi.
Posta un commento