«In natura, un sistema, quando non riesce più a risolvere i propri problemi vitali, se non vuole perire, è costretto alla metamorfosi. Il bruco è capace di autodistruggersi e autoricostruirsi per diventare una farfalla. L'idea della metamorfosi non è una follia, è una realtà che si è già realizzata altre volte nella storia del Pianeta, nella preistoria ma anche nel Medioevo (...)»
(Edgar Morin, dal Venerdì di Repubblica del 16 marzo 2012 )
In quest’intervista, che riporto qui sotto in un estratto più ampio, Edgar Morin parla di economia ma fa un discorso da naturalista, cioè da vero osservatore, mai superficiale e privo di pregiudizi. E’ solo osservando con attenzione quello che succede che si possono prevedere gli sviluppi successivi: ma per riuscirci bisogna saper abbandonare tutto quello che ti hanno insegnato, anche solo per pochi istanti, senza pregiudizi. Togliersi i paraocchi, insomma: un modo di dire che oggi può risultare oscuro, e che quindi è meglio spiegare. I paraocchi si mettevano ai cavalli da tiro, per evitare che si distraessero e magari si spaventassero; con i paraocchi si vede solo ciò che gli altri vogliono farci vedere. Nel caso del cavallo da tiro, con i paraocchi il cavallo vedrà solo quello che vuole il padrone.
Qui sotto riporto altri estratti da quest’intervista, molto bella, ricordando che i libri di Edgar Morin sono regolarmente pubblicati in Italia, che Edgar Morin è francese ma parla molto bene l’italiano, e infine che il nostro attuale ministro per lo sviluppo, il signor Corrado Passera, ha annunciato pochi giorni fa l’avvio di innumerevoli altre “grandi opere”. Dunque ancora una volta, come negli anni ’50, l’edilizia come traino dell’economia: ma per costruire dove? Ancora strade, ancora cemento, ancora cavalcavia?
Intervista a Edgar Morin
di Fabio Gambaro, Il Venerdì di Repubblica, 16 marzo 2012
- Nel libro lei critica l'idea di sviluppo. Perché?
«La mondializzazione porta in sé l'occidentalizzazione e il mito dello sviluppo fondato sull'idea di una crescita infinita. È un mito che ci porta dritti contro un muro. Non possiamo continuare a riempire il Pianeta di automobili, di centrali e di megalopoli. Questo modello di sviluppo - figlio di un liberalismo economico senza regole, tutto teso a produrre e a consumare sempre di più - comporta conseguenze disastrose per la biosfera e le risorse naturali. Oggi, si parla molto di sviluppo sostenibile, che però mi sembra solo una mezza misura. In realtà, occorre affrontare e spaccare il nocciolo duro, tecno-economico, del concetto tradizionale di sviluppo, per salvarne solo alcuni elementi da mettere al servizio di un altro modello di sviluppo umano. È un problema urgente che riguarda tutti».
- È per questa ragione che parla di Terra-patria?
«L'aspetto positivo della mondializzazione è che ormai c'è una comunità di destino di tutti gli esseri umani, ovunque essi si trovino. Siamo tutti di fronte agli stessi problemi fondamentali e alle stesse minacce mortali, sul piano ecologico, climatico, sociale, nucleare, ecc. Una patria è una comunità di destini, quindi la Terra è la patria comune che dobbiamo cercare di salvare in una situazione dove sembra non esserci più futuro e quindi prevalgono l'incertezza, la paura e le logiche regressive. In passato si pensava che la storia fosse guidata dalla legge del progresso. Le crisi del XX secolo hanno spazzato questa illusione».
- Che cosa fare allora?
«Al sistema terrestre minacciato da tutte le parti resta solo la via della metamorfosi. In natura, un sistema, quando non riesce più a risolvere i propri problemi vitali, se non vuole perire, è costretto alla metamorfosi. Il bruco è capace di autodistruggersi e autoricostruirsi per diventare una farfalla. L'idea della metamorfosi non è una follia, è una realtà che si è già realizzata altre volte nella storia del Pianeta, nella preistoria ma anche nel Medioevo».
- La metamorfosi è però un'operazione complessa e delicata...
«Per salvarsi occorre avere un approccio dialettico, nel tentativo di tenere insieme idee che sulla carta si oppongono. Non credo alla rivoluzione che fa tabula rasa del passato, producendo spesso realtà peggiori di quelle che ha voluto trasformare. Al contrario, abbiamo bisogno di tutte le riforme culturali della storia dell'umanità per trasformare e trasformarci. Per questo è necessario conservare tutti gli aspetti positivi della mondializzazione, che per me contiene il meglio e il peggio. Insomma, occorre al contempo mondializzare e de-mondializzare a seconda degli ambiti, favorire la crescita ma talvolta la decrescita, tenere conto dello sviluppo ma anche dell'inviluppo, della trasformazione come della conservazione. Questa strategia complessa ci consente di conservare la speranza, che naturalmente non è una certezza. Anzi, visto il contesto, la speranza è perfino improbabile. La storia però ci insegna che a volte l'improbabile è riuscito a prendere il sopravvento». (...)
(intervista a Edgar Morin, di fabio gambaro, www.repubblica.it 16 marzo 2012 )
Il vecchio muore e il nuovo non può nascere, e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. (Antonio Gramsci, citato da Joseph Losey per il Don Giovanni di Mozart)
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