Il bagatto, un uomo con una bancarella, forse un calzolaio, è la prima carta degli arcani nel mazzo dei tarocchi. Gli arcani dei tarocchi sono 23, come le lettere dell’alfabeto ebraico; le altre carte del mazzo sono quelle solite, quattro segni numerati da uno a dieci e poi le tre figure consuete.
... una piccola scatoletta bianca o qualcosa di simile si aprí sotto il mio piede sparpagliandosi in una serie di foglietti macchiettati. La urtai lievemente col piede: uno di quei foglietti finí nella zona chiara. Un'immagine? Mi chinai: un bagatto! Quel che m'era sembrato una scatola bianca, in realtà era un mazzo di tarocchi. Lo raccolsi da terra. Ci poteva essere qualcosa di piú ridicolo: un mazzo di carte lí, in quel luogo spettrale! Cosí strano, che dovetti costringermi a sorridere.
Ma un lieve senso d'orrore mi afferrò d'improvviso. Cercai di spiegarmi in termini banali come quelle carte fossero arrivate sin lí, e macchinalmente mi misi a contarle. C'erano tutte: settantotto. Ma già mentre le contavo m'ero accorto di qualcosa di singolare: le carte erano come di ghiaccio. Un gelo paralizzante proveniva da esse, e come ebbi il mazzo chiuso nella mano, quasi non mi riusciva piú di staccarnelo via, tanto intirizzite erano le mie dita.
Di nuovo cercai di darmi una spiegazione sensata. Il mio vestito leggero, tutto quel tempo trascorso senza cappotto e senza cappello in quei budelli sotterranei, la terribile notte invernale, quelle pareti di pietra, il gelo feroce che col chiaro di luna entrava dalla finestra: era insomma abbastanza strano che mi sentissi gelare soltanto ora. L'eccitazione in cui ero stato per tutto quel tempo doveva avermi impedito di accorgermene prima. (...)
Gustav Meyrink, Il Golem pag.96 edizione Bompiani 1977, traduzione di Carlo Mainoldi.
«Eppure ci dovrebbe essere un libro contenente tutte le chiavi degli enigmi dell'aldilà, e non soltanto alcune », mi venne fatto di pensare, e intanto la mia mano giocava macchinalmente con il Bagatto che ancora avevo in tasca. Ma prima che potessi tradurre in parole la domanda, Zwakh l'aveva già formulata.
Hillel sorrise di nuovo al modo di una sfinge. «Ogni domanda che un uomo possa fare ha già la sua risposta nell'istante medesimo in cui l'abbia posta al suo spirito.»
«Capisce lei quel che vuol dire?» disse Zwakh rivolto a me.
Non risposi, trattenevo il fiato per non perdere parola del discorso di Hillel. Schemajah proseguí: «L'intera vita altro non è che una serie di domande divenute forme, che hanno in sé il germe della risposta, e di risposte gravide di domande. Chi vi vede qualcosa d'altro non è che un pazzo.»
Zwakh batté il pugno sul tavolo: «Come no: domande che ogni volta hanno un suono diverso, e risposte che ognuno intende a suo modo.»
«Tutto dipende da questo», disse Hillel in tono amichevole. «Guarire tutti gli uomini con un unico metodo è privilegio della medicina soltanto. Colui che domanda riceve la risposta di cui ha bisogno: se cosí non fosse, le creature non prenderebbero la via dei loro desideri. Probabilmente lei crede che le nostre scritture ebraiche siano scritte con le sole consonanti unicamente per arbitrio. Ciascuno ha invece il dovere di trovarsi da solo le vocali segrete che gli dischiudono il senso a lui e solo a lui destinato - se la parola vivente non deve irrigidirsi a dogma senza vita.»
Il burattinaio replicò con violenza: «Queste son parole, rabbino, parole! Che mi possa chiamare Bagatto ultimo se ci capisco qualcosa.» Bagatto! La parola mi colpí come un fulmine. Dallo spavento poco mancò che cadessi dalla sedia.
Hillel evitò il mio sguardo. «Bagatto ultimo? Chissà che lei non si chiami davvero cosí!» esclamò Hillel, e le sue parole mi giunsero come da un'enorme distanza. «Non si dev'essere mai troppo sicuri del fatto proprio. Del resto, poi che stiamo parlando di carte, signor Zwakh, lei sa giocare ai tarocchi?»
«Ai tarocchi? Naturalmente. Fin da bambino.»
«Mi meraviglio allora che mi chieda di un libro in cui ci sia tutta la Cabala, quando l'ha avuta in mano migliaia di volte.»
«Io, avuto in mano? io?» Zwakh si prese la testa fra le mani.
«Ma certo, lei! Non le è mai venuto in mente che il gioco dei tarocchi ha ventidue trionfi, esattamente quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico? Le nostre carte boeme non hanno per di piú delle figure che sono palesemente dei simboli: il matto, la morte, il diavolo, il giudizio finale: come vuole, caro amico, che la vita gliele gridi, le risposte?... Quel che per altro non le rimprovero di non sapere è che “tarocco” o “tarot” ha lo stesso significato dell'ebraico “tora” che vuol dire Legge, o dell'antico egiziano “tarut” che significa “l'interrogata”, o, nell'antico zendo, della parola “tarisk”, che vale “io esigo la risposta”. Particolari che i dotti dovrebbero conoscere, prima di affermare come fanno che i tarocchi non risalgono che all'epoca di Carlo VI. E come il Bagatto è la prima carta del gioco, cosí l'uomo è la prima figura nel suo proprio libro di immagini, il suo doppio:... la lettera ebraica aleph che, costruita secondo le forme dell'uomo, con una mano indica verso il cielo e con l'altra in basso; ciò significa dunque : Cosí come è sopra è anche sotto, cosí come è sotto è anche sopra. Per questo prima le dicevo: chissà se davvero lei si chiama Zwakh e non Bagatto - non dovrebbe nominarlo.»
Hillel in tutto questo discorso aveva continuato a fissarmi, e sotto le sue parole io presagivo lo spalancarsi di un abisso di nuovi significati. «Non lo nomini, signor Zwakh, perché si può cadere in anditi senza luce, dai quali nessuno è mai tornato indietro che non avesse su di sé un talismano. Racconta la tradizione che una volta tre uomini eran discesi nel regno delle tenebre: il primo era folle, il secondo cieco, solo al terzo, al rabbino ben Akiba, riuscí di tornare sano e salvo, e disse di aver incontrato se stesso. Lei dirà che a più d'uno è capitato d'incontrarsi, a Goethe, per esempio, di solito avveniva su un ponte, o altre volte lungo un sentiero che portava da una riva all'altra di un fiume - e il poeta si guardò negli occhi, senza impazzire. Ma in quel caso non si trattava che di una proiezione della sua coscienza e non del vero doppio: non di ciò che vien chiamato “soffio delle ossa”, “Habal Garmin”, del quale si dice che come discese incorruttibile nella tomba, cosí risorgerà il giorno del giudizio universale.»
Lo sguardo di Hillel penetrava sempre più profondamente nelle mie pupille. «Le nostre nonne dicono di lui: abita molto in alto al di sopra del suolo in una stanza senza porte, che s'apre solo con una finestra, dalla quale non è possibile intendersi con gli altri uomini. Chi è capace di evocarlo e di purificarlo diverrà buon amico di se stesso... Per quanto concerne infine i tarocchi, lei lo sa bene quanto me: a ogni giocatore capitano carte diverse, ma chi manovra come si conviene gli atout, vince la partita... Venga adesso, signor Zwakh! Andiamo, se no si beve tutto il vino di mastro Pernath, e per lui non ne resta piú.»
Gustav Meyrink, Il Golem, pag.109-110 edizione Bompiani 1977, traduzione di Carlo Mainoldi.
...cercai il Bagatto. Non c'era. Dove poteva esser andato a finire? Riguardai ancora una volta le carte a una a una e mi perdetti in riflessioni sul loro senso occulto. In particolare, l'appeso: che mai poteva significare? Un uomo è sospeso a una corda tra cielo e terra, la testa in giú, le braccia legate dietro la schiena, la gamba destra incrociata sulla coscia sinistra, sí da configurare una croce su un triangolo capovolto. Incomprensibile simbolo!
Ecco, finalmente! Charousek arrivava. O forse no?
Piacevole sorpresa, era Miriam. (...)
Gustav Meyrink, Il Golem, pag.160 edizione Bompiani 1977, traduzione di Carlo Mainoldi.
Dalla lettura dei libri di Gustav Meyrink si esce con un leggero senso di vertigine, è l’incontro con qualcosa di inaspettato, non si è sicuri di aver ben capito bene tutto, anzi sappiamo di esserne molto lontani, ma è una lettura che non si può interrompere, per quanto sia sconcertante quello che leggiamo. Come andrà a finire, la storia dell’uomo che è entrato nella misteriosa stanza del Golem?
Il libro di Meyrink è del 1915, il mito del Golem è molto più antico ed è l’antecedente illustre di molte storie ormai famose, primo fra tutti la creatura del dottor Frankenstein (ma c’è chi dice: attenzione, anche Pinocchio è un Golem).
La vertigine che proviamo leggendo Meyrink è la stessa che prova il protagonista del suo racconto, ed è – in definitiva – lo stato in cui passiamo la nostra vita. Come si fa a sapere se quello che stiamo facendo è la cosa giusta, se le persone a cui ci stiamo legando o affidando sono quelle giuste? E, in definitiva, c’è una qualche logica in quello che ci succede nelle nostre vite?
Life History of the Forget-me-not
6 ore fa
2 commenti:
No, non c'è nessuna logica. Ma non è questo il bello della vita?
La logica c'è, ma noi non la vediamo, forse perché siamo troppo piccoli (come la formica che cammina su un libro aperto: anche se sapesse leggere, ci metterebbe una vita). La riflessione che mi viene sempre su questa pagina è che la Natura, o il Creato, ci mette sempre davanti il disegno, ma noi non riusciamo a capirlo anche quando lo vediamo: le forme geometriche delle foglie, il bruco che diventa farfalla, e anche le carte dei tarocchi, perché no.
Posta un commento