venerdì 20 luglio 2012

Vinile

Vinile è un termine chimico, a cui corrisponde una formula chimica precisa che metto, per chi fosse interessato a leggerla, in un’immagine qui a fianco. Si tratta di un “radicale libero”, espressione che in chimica indica qualcosa che da solo non sta in piedi, e che reagisce immediatamente con gli elementi e le sostanze che gli sono vicine. In natura, la molecola del vinile non esiste: i suoi singoli atomi sono presenti in natura (nella formula qui sopra, tre atomi di Carbonio e cinque di idrogeno, con un doppio legame fra i due atomi di Carbonio), ma si tratta, detto molto in breve, di un intermedio che l’industria utilizza per arrivare a produrre qualcosa d’altro. Per la precisione, materie plastiche: polivinilcloruro (PVC), vinile acetato, propilene, esteri acrilici, e altro ancora. Insomma, tutte le materie plastiche e le fibre tessili sintetiche più comuni e più usate.
La definizione esatta, presa dalla Garzantina della Chimica, è questa: «Vinile: gruppo insaturo detto anche etenile ... che formalmente deriva dall’etilene per eliminazione di un atomo di idrogeno. E’ presente in numerosi composti detti “derivati vinilici” (...)». Ma qui mi fermo, in chimica il radicale vinilico è molto importante e ci sarebbe da trascrivere quasi tutta l’enciclopedia. Si può aggiungere che molti intermedi derivati dal vinile sono tossici o velenosi, la produzione di materie plastiche derivate dal vinile ha prodotto tra gli operai dell’industria chimica molte malattie e molte tragedie, e ancora ne provoca: ad essere pericolosi sono soprattutto gli intermedi chiamati “cloruro di vinile” e “acrilonitrile”.
L’origine della parola vinile è antica, ottocentesca; in chimica la si dovrebbe ritenere superata, ma molte parole antiche sono rimaste in uso normalmente, anche nella terminologia moderna, e secondo me questa è una bella cosa.
Non so da dove sia arrivata la moda di definire “vinile” il disco a 33 giri, che sarebbe più corretto chiamare microsolco; capisco però che “vinile” è una parola molto più bella, fa fino. Dire “disco in vinile” richiama qualcosa di raro e di prezioso, come dire “in ambra fossile del Baltico”, ma così non è. Oltretutto, come tutte le materie plastiche moderne, il “vinile” (qualsiasi cosa si voglia intendere con questa parola) è entrato in uso e in commercio a metà degli anni ’60, quindi molti dei dischi microsolco che vediamo in circolazione non sono “vinili” ma sono stati fabbricati con altri materiali.
Prima dell’arrivo del cloruro di vinile, del moplen, del polipropilene e di tutte le altre materie plastiche oggi di uso comune, nell’industria discografica si usavano molti altri materiali, soprattutto cere e lacche di origine naturale.
Il primo fonografo di Edison, del 1877, usava cilindri di ottone o di stagno, piccoli cilindri e non ancora il disco piatto. Su lastre metalliche erano stati incisi anche i primi esperimenti di registrazione del suono, a metà ‘800, ad opera di Léon Scott e di Charles Cros: queste registrazioni esistono ancora, ma ascoltarle è sempre stato impossibile. Qualcuno ci prova ancora oggi, ogni tanto, ma senza risultato.
L’invenzione di Edison era quindi una novità assoluta. Dai cilindri metallici, poco maneggevoli, Edison passò presto ai cilindri di cera. Il disco piatto, come lo conosciamo oggi, fu ideato da Emil Berliner un anno dopo, nel 1878; per una decina d’anni i due supporti furono prodotti e usati in alternativa l’uno all’altro, fino alla definitiva affermazione del disco piatto. Le puntine del fonografo di Edison, e poi del grammofono, viste da oggi erano dei piccoli chiodi: il solco nella cera tramite il quale veniva “salvata” la vibrazione sonora era ben visibile, e così sarebbe rimasto fino alla fine degli anni ’40, quando venne introdotto il “microsolco”, che richiedeva puntine molto sottili. Suonando un disco microsolco con i vecchi grammofoni, insomma, si potevano produrre autentici disastri: negli anni ’50 e ancora per tutti gli anni ’60 tutti i dischi nuovi portavano avvertimenti ben visibili, del tipo “usare solo con i moderni apparecchi”, o qualcosa di simile.
Le prime parole incise, con la voce di Edison, furono queste:
«Mary had a little lamb
its fleece was white as snow
and everywhere that Mary went
the lamb was sure to go.»
Una filastrocca per bambini, che si traduce più o meno così: «Maria aveva un agnellino, il suo mantello era bianco come neve, e dovunque Maria andasse l’agnellino era sicuro di andare anche lui» (ovviamente, in inglese e con la metrica giusta la filastrocca suona meglio). La registrazione originale andò presto distrutta, ma Edison ne registrò subito un’altra identica che è arrivata fino a noi ed è ancora ascoltabile.

“Cera” per un chimico è termine molto generico: di che cosa era fatto il cilindro per il fonografo di Edison? Il volume “Stereostory”, del Gruppo Editoriale Suono (pubblicato nel 1984, spero che sia stato ristampato perché è magnifico) mi dà una definizione abbastanza precisa: 40% di cera naturale e 60% di cera da paraffina. Lasciando perdere la definizione chimica di cera, che è molto tecnica e di difficile comprensione (inizia così: “miscela di esteri di alcooli mono o di-idrossilati, della serie degli steroli o degli alcooli alifatici superiori, con un numero di atomi di Carbonio pari e compreso fra 16 e 36...”), viene definito “cera” un composto che ha caratteristiche simili alla cera d’api: quindi, dato che siamo nel 1887, la cera d’api vera e propria o una cera d’origine vegetale.
La paraffina (altro termine molto generico) viene prodotta fin dal 1830; il suo scopritore è il signor Reichenbach, che iniziò a produrla partendo dal catrame di legno. Si può ancora dire, per completezza, che le paraffine esistono anche in natura, e che “paraffina” è anche il nome chimico dato agli alcani (idrocarburi come il metano, per intenderci), ma qui si rischia di fare confusione perciò mi fermo.
Quindi, per i primi decenni dell’industria discografica, le materie prime sono tutte di origine naturale: cere e paraffine. In quegli anni, però, comincia anche la produzione e lo sfruttamento industriale delle lacche e delle resine vegetali; nel 1906 arriva anche la prima materia plastica interamente sintetica, la bachelite .
E’ interessante dare una definizione più precisa al termine “lacca”, che comprende ceralacca, gommalacca, tutte le lacche di origine vegetale. La Garzantina della Chimica la descrive così: “Lacca: termine generico con cui si indicano prodotti di varia natura, di origine animale o vegetale oppure artificiale. La lacca per antonomasia è la “lacca naturale” (o “lacca del Giappone”) che si ottiene sotto forma di succo lattiginoso dalla Rhus vernicifera, una pianta della famiglia delle anacardiacee (...)”
La linfa di questa pianta si secca, creando una pellicola che viene macinata e riutilizzata sia per verniciature (laccature) che per produrre oggetti. Per esempio, molte penne stilografiche sono ancora oggi prodotte in lacca. La caratteristica delle lacche, però, è di essere dure ma fragili: caratteristica che hanno in comune con la bachelite. Ho fatto in tempo a maneggiare i dischi per grammofono, e posso testimoniare: bisognava stare attenti perché si rompevano facilmente. Alcuni dischi per grammofono, i più vecchi, una volta rotti rivelavano un’anima interna: in cartone o in un materiale simile alla masonite, che serviva per dare maggiore robustezza.
Con i dischi degli anni ’50 e ’60, e con tutti i dischi microsolco in genere, i materiali usati erano molto più elastici e il rischio di rottura era minimo; l’unico vero pericolo, oltre ai graffi, erano invece le ditate. I dischi “in vinile” vanno maneggiati con estrema cura, con le mani asciutte, toccando solo il bordo esterno e l’etichetta; quando vedo i rappers o i dj che fanno lo “scratch”, confesso, volto ancora oggi lo sguardo altrove. Inorridisco, insomma: sono trent’anni che non compero un lp, ma ne ho maneggiati tanti e i miei sono ancora come nuovi.
Devo dire infine che nessuno di noi ha mai chiamato gli LP col nome di “vinile”. Il termine usato, quando il disco microsolco era ancora vivo, era quello: LP, long playing; o semplicemente “disco”.
Lp, long playing, significa “a lunga durata”: il termine nasce negli anni ’50, e si riferisce ai dischi grammofonici, che duravano tre minuti. La facciata di un LP durava venti o venticinque minuti, quindi molto di più di un disco da grammofono (e molto meno di un CD o di un lettore mp3, ovviamente). I “giri” sono quelli del piatto del giradischi: 45 giri per una canzone di tre minuti (disco piccolo), 33 giri per un LP, 78 giri per il disco da grammofono. Da bambini ci divertivamo ad ascoltare i dischi alla velocità sbagliata: una voce femminile su un 78 giri, ascoltata a 33 giri, diventava lenta, maschile e cavernosa; viceversa era ancora più divertente, ascoltando un 33 giri alla velocità di 78 giri al minuto, anche un basso profondo operistico prendeva la voce di Topolino. L’unica cosa a cui fare attenzione era quella che dicevo prima: ricordarsi di cambiare la puntina, altrimenti si rovinava il disco.
nelle immagini: Jill Clayburgh in “La luna” di Bernardo Bertolucci, Spencer Tracy in un film del 1940 sulla vita di Edison, un fermo immagine da “Fanny e Alexander” di Ingmar Bergman, la formula chimica del radicale vinilico, un disco pieno di graffi e ditate, un albero di Rhus vernicifera, e una mia antica fotografia fatta apposta per evidenziare il rapporto di reciproco affetto ed immediata attrazione che si esercita fra la carica elettrostatica e la polvere atmosferica.

2 commenti:

Grazia ha detto...

Ho cominciato a chiamare gli LP " vinile" da quando vivo in un paese francofono, dove il termine è usato comunemente. A casa ne abbiamo tantissimi: circa duemila di jazz li abbiamo ereditati da mio cognato che era un appassionato di jazz e di vinile. Per affetto li conserviamo e, ogni tanto, li ascoltiamo con tutte le precauzioni del caso.Mio marito sostiene che hanno un suono più caldo dei CD. Io adoro le copertine che a volte sono delle vere e proprie opere d'arte.Ad ogni modo grazie per il post !

Giuliano ha detto...

sui radicali chimici, e anche sul vinile, mi hanno interrogato e ho preso dei brutti voti - dopo tre decenni me lo ricordo ancora (quasi quattro).
I dischi sono stati prodotti con molte materie plastiche, penso anche il nylon, molti oggetti sono fatti di nylon: che è stampabile e che c'era già anche negli anni '40.
Però non ho fatto una ricerca approfondita, anche perché è dura andare a trovare le informazioni precise!
L'unica cosa che apprezzo ancora oggi dei dischi microsolco sono proprio le copertine, magnifiche e irripetibili perché poi con i cd sono diventate piccolissime, e oggi "si scarica", quindi non esiste più niente.
Devo dire che non rimpiango affatto gli Lp...penso che la differenza stia non tanto nel modo di incisione, quanto negli infiniti pasticci fatti dai tecnici del suono da quando esiste il computer. Ne ho fatti parecchi anch'io, in casa, anche perché avevo dei dischi non più in commercio: se ci si limita a togliere i clic, uno per uno, con pazienza, il suono rimane identico.
E' un po' come le foto con photoshop, si possono fare disastri pensando di togliere i difetti!