mercoledì 1 agosto 2012

I colori dei pittori

Da bambino, i nomi dei pastelli mi sembravano strani e attraenti, a volte perfino scandalosi: “blu oltremare”, “terra di Siena bruciata”, mi sentivo preso in giro. Come si fa a dare quei nomi a un pastello, a un colore? Gli altri pastelli avevano dei nomi normali, verde chiaro, verde scuro. Già la presenza del pastello bianco era una cosa strana (il pastello bianco sul foglio bianco?), ma poi, quei nomi: perché mai la terra di Siena e non quella qui sotto casa, cos’ha di differente? E perché poi “bruciata”, come si fa a bruciare la terra?
Ovviamente, nessuno mi sapeva dare le spiegazioni giuste: gli adulti non si pongono questi problemi, hanno altro a cui pensare. E, anche se avessi trovato le spiegazioni giuste (che nei libri, a saperle cercare, c’erano), difficilmente le avrei capite: pestare e tritare le pietre? Ma i colori non sono nei tubetti, nei pastelli, nelle scatole delle vernici? A che scopo tritare le pietre, e perché poi bruciare la terra, per di più quella di Siena?
Le risposte le avrei trovate molti anni più tardi, intorno ai sedici anni, studiando chimica. In particolare (si torna sempre lì), le risposte sono nel Sistema Periodico, la Tavola Periodica degli Elementi ideata e abbozzata da Mendeleev a metà Ottocento, e poi completata dai chimici negli anni successivi. Già nel Settecento, il grande naturalista Linneo (Carl von Linné, svedese) era riuscito nell’impresa di dare un nome a tutti gli animali e a tutte le piante, ma con i minerali non c’era riuscito: l’aspetto esteriore, forme e colori, qui non bastava. Per fare una classificazione seria dei minerali gli mancava proprio la Tavola Periodica degli Elementi, che sarebbe arrivata solo molti decenni dopo la sua morte.
Come Linneo, anche gli antichi preparatori di colori non avevano nozioni sufficienti per dare un nome preciso ai minerali che usavano, e quindi gli davano nomi di fantasia, quasi sempre molto belli: blu oltremare, terra di Siena, terra di Siena bruciata. Molti questi minerali erano costosi, per esempio l’azzurro se lo potevano permettere solo i pittori affermati; e poi c’era un gran lavoro dietro, rompere pestare e tritare i minerali comperati o recuperati con personali ricerche quando erano disponibili nei dintorni.
Molti di questi minerali contengono sostanze velenose; tra i pittori, e tra i loro collaboratori, sono infatti stati molto frequenti gli avvelenamenti. Lentamente, ma costantemente, il minerale penetrava nella pelle e nelle narici di chi pestava, martellava, rompeva, tritava e poi preparava le polveri colorate per la pittura, aggiungendo fissanti, oli, stucco, acqua, e altro ancora.
Insomma, dietro ai capolavori di Giotto, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, c’è sempre questo gran lavoro di ricerca dei minerali, di acquisto dei colori (i lapislazzuli, l’azzurro costosissimo, veniva quasi tutto dall’Afghanistan e dalla Cina); e tutto questo senza contare il lavoro di muratore (stendere gli intonaci per gli affreschi) o la preparazione delle tele per la pittura, molto complessa (oggi le tele per i pittori sono vendute già pronte per l’uso). Anche gli scrittori molto spesso si facevano gli inchiostri da sè: non solo si scriveva con le penne d’oca, ma l’inchiostro si poteva fabbricare in casa (con la carta, tutto era molto più difficile). Emilio Salgari usava un metodo antico e collaudato, le galle che un insetto provoca sulle piante; Eduardo Galeano (Le labbra del tempo, pag.128) dice che i semi dell’avocado danno un ottimo inchiostro. Il metodo più veloce, soprattutto per l’inchiostro nero, consisteva però nella diluizione del nerofumo, prodotto della combustione di legna e carbone usate per il riscaldamento.
Le cose cominciano a cambiare nell’Ottocento, e Jean Renoir ha inserito questo suo ricordo personale in un suo libro di cinema:
Le scoperte artistiche sono praticamente la conseguenza diretta di scoperte tecniche. L'esempio a parer mio più vistoso di questo fenomeno è, in pittura, la rivoluzione impressionista. Prima dell'impressionismo i pittori utilizzavano colori contenuti in ciotole. Erano recipienti difficili da trasportare. I colori si rovesciavano e questo rendeva il lavoro fuori dallo studio poco pratico. Quando si ebbe l'idea di mettere i colori in tubetti facili da chiudere con dei tappi a vite, i pittori di quella giovane scuola poterono trasportare i colori e lavorare direttamente dal vero. Naturalmente la rivoluzione impressionista esisteva innanzitutto nello spirito dei pittori, ma non avrebbe potuto manifestarsi in quel modo se gli artisti non avessero potuto trasportare i colori nella foresta di Fontainebleau. Pur senza avere le ripercussioni che ebbero i colori in tubetto per la pittura, l'uso della pellicola pancromatica rappresentò per il cinema una tappa di incomparabile ricchezza. La maggior parte dei capolavori dello schermo sono stati girati in bianco e nero su pancromatica. (...)
(Jean Renoir, da “La mia vita e i miei film”, ed. Marsilio, pag.56)
Jean Renoir, forse vale la pena di ricordarlo, è stato uno dei più grandi autori di cinema del Novecento, ed è figlio di Auguste Renoir, uno dei più grandi pittori dell’Ottocento. L’argomento qui è il cinema in bianco e nero, gli inizi del cinema e le prime pellicole cinematografiche.
Nelle immagini: Michelangelo, il profeta Geremia; una scatola di colori del 1924 (da http://mudwerks.tumblr.com ); Jean Renoir padre e figlio (il bambino è proprio Jean Renoir, i fotogrammi vengono da "Il fiume"); et infin, Kamillo Kromo di Altan.
(continua)

6 commenti:

Grazia ha detto...

Bellissimo questo post !
La storia dei colori e del loro uso è una delle parti più affascinanti della storia dell'arte. Sui nomi dei colori, poi, ci sarebbe da scrivere delle poesie. A leggere un antico testo sulle tecniche artistiche, come quello trecentesco di Cennino Cennini, c'è parecchio da lavorare con la fantasia.

Giuliano ha detto...

saranno tre o quattro post, dal punto di vista chimico (beh, ci provo!)
il testo di Jean Renoir è stata una piccola e piacevole sorpresa, l'ho trovato proprio pochi giorni fa.
poi mi consiglierai tu qualche testo, o qualche immagine.
:-)

NoceMoscata ha detto...

Quando da adolescente avevo scoperto il verde Veronese, ho passato almeno un anno a infilarcelo in tutte le conversazioni. Mi sentivo molto figa! Il colore lo era, io molto meno :D

Anonimo ha detto...

Un punto di vista inusuale sull'arte, al quale non dedichiamo mai attenzione. Grazie, bellissimo post, aspetto il seguito.
Annarita

Giuliano ha detto...

Nocina, ma ce l'hai un nome o ti chiami davvero Noce?
:-)
sai che il verde veronese non me lo ricordo? però se vai sul blog di Grazia c'è un articolo molto bello sul Veronese, forse lo hai già letto

Giuliano ha detto...

Annarita, sono partito dai miei ricordi di bambino - ormai un po' datati, però magari qualche bambino mi legge per davvero...
(nel qual caso, e per chi fosse interessato, il blog di Annarita parla di fiabe e di libri per bambini, ed è un blog molto bello)