« Al diséva anca San Péder / che quèl bon l’era quel négher...»
Nero, cioè rosso: “quèl négher”, cioè il vino rosso, quello di una volta, da contadini: quello così scuro e corposo da sembrare nero, quand’era versato nel bicchiere.
Questa versione lombarda delle canzoni da osteria, molto divertente, porta indietro ad un mondo che non c’è più; e che io, quasi astemio (sottolineo il quasi) ho frequentato pochissimo, anche per ragioni di età. Intendiamoci, l’alcolismo è sempre stato una piaga, e ha sempre prodotto tragedie: ma quel mondo era anche un mondo di ubriachi allegri, del bere in compagnia. Un mondo dove un bicchiere di vino non si rifiutava mai, e dove il vino era considerato una ricchezza. “Il vino fortifica”, dicevano i nostri vecchi: e in Emilia e nel mantovano lo mettevano anche nel brodo – usanza tipica del mondo contadino. L’ho visto fare da mio nonno e ho provato a farlo anch’io: non è male, ma è proprio un sapore rustico, strano: uno di quelli che oggi (abituati come siamo alla nutella e ai dolcificanti) non sappiamo più comprendere. I montanari, in Valtellina e dintorni, usavano molto anche il vino nel latte.
Di questo mondo è rimasto poco, il bere oggi è uno stordirsi, vanno di moda soprattutto birra e superalcolici. Di quel mondo “antico” ci sono rimaste due canzoni di Giorgio Gaber, molto belle ma anch’esse ormai vicine al mezzo secolo di vita: “Barbera e champagne” e “Trani a go-go”.
Sono titoli ormai incomprensibili, bisognerà spiegarli alle nuove generazioni. Nelle osterie non si beveva vino bianco, “quel bon l’era quel négher”: lo diceva anche San Pietro, quello buono è quello nero – ma in italiano “negro”, cioè nero, non fa rima con “San Pietro”. Lo champagne lo bevevano i signori, il barbera era dei contadini, dei muratori, dei popolani. “Barbera e champagne” , come spiega bene la canzone, è dunque la storia di un incontro, di un dialogo: annegare nel vino le delusioni della vita. Una canzone che all’inizio era triste e che poi diventava allegra, e Gaber la cantava sempre come bis nei suoi spettacoli.
Il “Trani” era invece il vino meridionale, di Trani: vino della Puglia. Vino rosso e forte, a buon mercato; le osterie dove si beveva lo usavano come insegna, e “trani” era diventato sinonimo di osteria. “Go-go” è invece probabilmente un anticipo dell’invasione inglese nella lingua italiana, o forse l’insegna di un trani milanese.
Va detto che “négher” non ha nessuna connotazione razzista: indica soltanto il colore nero, come del resto il latino “niger, nigro” e lo spagnolo “negro”. Detto en passant, mi dispiace molto che ormai “negro” e “négher” siano considerate parole razziste. Di per sè le parole sono innocenti, mi piacerebbe molto poter tornare a dire “negro” come si faceva negli anni ’60 (“negro” e “nigger” erano un’offesa solo nei Paesi di lingua inglese, dove “nero” si dice “black”, tutt’altra parola). Siamo noi, quelli di questa generazione, che le parole le roviniamo, e non solo le parole ma anche il vivere insieme – ma questo è un discorso troppo serio e troppo complicato. Mi fermo qui e propongo un brindisi, che fa così: «A lassàl vöj». E’ un brindisi che verrà bene a chi ha studiato il francese: “lassàl” si pronuncia come il cognome Lassalle, e “vöj” si potrebbe scrivere anche “voeuj”, bisillabo: prima il “voeu” e poi, subito di seguito la i. E’ tipico della zona di confine, tra Varese, Como e il Canton Ticino: suona come “alla salute” ma il significato è un altro, un piccolo gioco di parole: “a lasciarlo vuoto”.
E dunque, in alto i bicchieri, e “a lassal vöj!”
Life History of the Forget-me-not
5 ore fa
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