Gianni Brera è stato uno dei primi giornalisti che ho imparato a leggere e a riconoscere: avrò avuto undici o dodici anni, mio fratello comperava “Il Giorno” e io leggevo le pagine sportive. Sulle altre pagine, cominciando finalmente ad essere un po’ adulto e a leggere il giornale dall’inizio, avrei poi trovato Giorgio Bocca, e tante altre inchieste e approfondimenti. Non che fosse facile seguire la politica, già allora, ma eravamo intorno al 1969, la strage di Piazza Fontana, la strategia della tensione, anche per un undicenne c’erano tante domande – per esempio, in Piazza Fontana a Milano un bambino della mia età aveva perso una gamba, e suo nonno che era lì con lui era morto: possibile?
Sono stati proprio quegli anni, i titoloni sbagliati sull’anarchico Valpreda (che erano sbagliati lo avrebbero ammesso con certezza solo un paio d’anni dopo), l’inchiesta di Bocca e Marco Nozza sui movimenti neofascisti (ma il fascismo non era una cosa del passato?)...Insomma, in quegli anni ’60 “Il Giorno” era un bel giornale; in seguito avrei scoperto Walter Tobagi sul “Corriere”, e solo in seguito sarebbe nata “La Repubblica” (a metà anni ’70).
Leggere le pagine sportive era certamente più facile e invitante, almeno per uno che faceva la prima o la seconda media: e da lì avevo infatti cominciato, trovandoci Gianni Brera: che non era certamente una lettura facile. Leggere Brera era però una specie di sfida: me lo immaginavo vecchissimo, invece era più o meno dell’età dei miei zii, solo che aveva cominciato giovanissimo ed era ormai una specie di pontifex maximus, rispettatissimo, nel mondo del pallone.
Lo stile di Brera era da scrittore puro, il fatto che trattasse di football era quasi un aspetto secondario. Il modello era Gadda, ma non so dire se fossero solo contemporanei o se fosse un modello voluto e cercato, perché Gadda negli anni in cui si era formato Brera non era un autore “alla moda” (né lo sarebbe mai stato). Ma che Brera lo avesse letto e assimilato, all’epoca di cui parlo (fine anni ’60) mi pare più che ovvio. E se non ci fosse stato Brera, forse io non avrei mai capito Carlo Emilio Gadda.
Brera era comunque Brera, aveva una sua personalità e non era Gadda ricopiato: la prima parola che mi ricordo è “fòlber”, che sarebbe football in dialetto milanese. Come si sia arrivati a fòlber partendo da football è una questione che lascio volentieri agli studiosi, sta di fatto che “fòlber” era una parola che conoscevo, negli anni ’60 molti ancora parlavano in dialetto, e di fòlber avevo sentito parlare molto, da amici e conoscenti e vicini di casa. Fòlber è l’esatta pronuncia di “football” fatta dai nostri vecchi, in quasi tutti i dialetti milanesi: ritrovarla come parola scritta mi aveva preso alla sprovvista, e anche messo di buon umore. E così ero andato avanti a leggere quegli articoli lunghi e tutt’altro che facili.
Da Brera avrei imparato anche altre cose: mi incuriosivano i numerosi riferimenti alla mitologia classica, per esempio l’invenzione di Eupalla, musa del pallone, che sovrintendeva alle sorti calcistiche. Così come c’erano le nove Muse, una per ogni arte (Urania, Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia) così doveva esserci una Musa anche per i grandi del pallone, qualcuno che ispirasse le giocate dei grandi campioni (gli altri no, i normali pedatori non ne avevano bisogno, “o il pée o la balla” era il motto dei difensori e dei centrocampisti.). “Eu” è il prefisso che sta per “bello, positivo” in greco antico: è la radice del nome Eugenio (ben nato), del nome Europa, eccetera.
A Brera devo anche l’idea delle grandi partite come se fossero governate da un consesso di dèi seduti nell’Olimpo, sul tipo dell’Odissea e dell’Iliade: per quanto ti dai da fare, il risultato è stato deciso là in alto, vincerà Achille e non Ettore; si salverà Ulisse, ma da solo. Un’idea che può sembrare stramba, ma mi è tornata parecchie volte alla mente, da tifoso della Juve, pensando a quella finale con l’Amburgo (un attacco da favola, e nemmeno un tiro in porta), o alla tragica serata dell’Heysel, quasi che per noi fosse vietato vincere.
Intendiamoci, ogni tanto Brera svaccava, scriveva male, faceva discorsi bizzarri. Non sempre Brera era all’altezza di se stesso. E non so quanto siano leggibili oggi gli articoli di Brera: molti sono stati raccolti in volume, ma erano legatissimi all’attualità, per ovvi motivi, e non c’è niente che invecchi più in fretta dell’attualità. E’ molto probabile che i giovani tifosi del Milan di oggi non sappiano nulla di Rivera, che si ignori l’epopea del Cagliari di Riva e Scopigno, che tra i tifosi della Juve si sia persa la memoria di Del Sol e Cinesinho (con tutto quello che abbiamo vinto dopo! la Juve degli anni ’60 aveva gli Agnelli al comando, ma non era gran cosa...).
Gianni Brera ha scritto anche molti libri al di fuori del calcio, romanzi come Naso bugiardo e Il corpo della ragassa, o scritti da buongustaio come La pacciada; esiste un suo filmato RAI degli anni ’60 dove discute con Nereo Rocco (vincitore di due Coppe dei Campioni, per chi non lo sapesse) dell’utilità del buon vino e della mancanza di civiltà di chi è astemio; e ricordava sempre che Rocco e Bearzot e Blason erano tra i pochissimi calciatori che avessero studiato seriamente, fino alla licenza liceale, in tempi in cui non studiava nessuno.
Dei discorsi strani di Brera fanno parte le teorie della razza, a cui teneva moltissimo. Ma non sono le teorie che vi aspettereste da un razzista: guardando prima di tutto se stesso, ne aveva concluso che i padani (Brera era di Pavia) erano tutti “stortignàccoli”, razza fisicamente inferiore, e non potevano competere sul piano atletico con quelli del Nord Europa. Di conseguenza, l’unica era prenderli per stanchezza, innalzando mura resistenti (il famoso “catenaccio”), difendendosi e ripartendo veloci. In questa teoria era confortato dalle vittorie del Milan di Rocco in Coppa Campioni, quel Milan aveva una difesa di ferro e Rivera a lanciare Altafini, Prati, Sormani...
Sempre secondo Brera, se la razza padana era fatta di omini bassi e robusti, in un altro angolo dell’Italia c’era la “razza Piave”, friulani e veneti e trentini, alti e robusti e saldi come querce. Io sono per metà veneto e ne ero contento; meno contenta l’altra mia metà, perché Brera descriveva i suoi della Bassa come “stortignaccoli” guardando se stesso allo specchio, ma l’altra metà della mia famiglia (“ad Parmae”) non era come la descriveva lui, i miei zii e mio nonno erano tutti belli e ben proporzionati, che parlasse per lui, il buon Brera...
Quanto ai meridionali, nel calcio ce ne erano pochissimi. Ovviamente, c’era una teoria anche su questo: ma ve la risparmio. Quando la Juventus si ritrovò a vincere uno scudetto dietro l’altro con una squadra per metà composta da meridionali (i siciliani Furino e Anastasi, il pugliese Causio, il sardo Cuccureddu, e poi Gentile, Brio, eccetera) la prese malissimo e cominciò a chiamarla “maritata Cacace”. Sospettavo da tempo che io e Brera avessimo fedi calcistiche diverse, ne ebbi in quegli anni la conferma.
Ma poi non si può dire che Brera fosse razzista, era solo la mentalità di quegli anni; e poi già il fatto di vedere se stesso e i suoi come gente piccola, brutta e cattiva (dal punto di vista calcistico, si intende) lo assolve ampiamente. E una cosa ancora va detta: Gianni Brera prese parte alla Resistenza. A vent’anni era un parà della Folgore, dopo l’8 settembre 1943 capì finalmente che il Capo era un cialtrone, e andò a combattere con i partigiani della Val d’Ossola. Nel frattempo, per non doversi arruolare nella RSI era stato costretto a rifugiarsi in Svizzera: a questo proposito anni dopo, avrebbe raccontato questo aneddoto. Gianni Brera stava parlando con uno svizzero, e gli era sfuggito un “voi che siete sudditi della Confederazione”; ma lo svizzero lo aveva fermato: «No, voi siete dei sudditi. Noi svizzeri siamo Cittadini della Confederazione, è tutt’altra cosa»
(continua)
Renato BUSO
8 ore fa
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