1.
- (...) per Clint Eastwood, in “Hereafter”, lei si tuffa in un personaggio difficilissimo, in una storia davvero dell'altro mondo: un operaio che si mette in contatto con l'aldilà.
«Non avevo mai pensato di poter arrivare dove sono, non immaginavo neppure di poter fare l'attore, il regista, lo sceneggiatore, figuriamoci la stella del cinema. Però, ecco, dopo il successo di The Bourne Identity, The Bourne Supremacy e The Bourne Ultimate, me lo sono chiesto: che cosa vuoi davvero? Puoi continuare a restare legato a un cliché e fare un sacco di soldi e avere il telefono che non smette mai di squillare. Oppure puoi decidere di fare solo i film che vuoi fare. E rischiare. La verità è che nel momento in cui ti fermi lì a difendere il tuo pezzo di territorio - a proteggere quello che hai costruito - ecco: allora sei morto davvero. E qui l'insegnamento di Clint è impareggiabile».
- Come attore o come regista?
«Ma guardatelo. A ottant'anni è un uomo felice e in pace con se stesso. Perché in tutta la sua straordinaria carriera non si è mai preoccupato di che cosa la gente pensasse del suo lavoro: dai western a Mystic River a Million Dollar Baby. Se avesse pensato di seguire il business avrebbe smesso di fare film quarant'anni fa».
(intervista a Matt Damon, il Venerdì di Repubblica, 7 gen 2011)
2.
Per me il pubblico è il destinatario che esige tutto il rispetto. C'è chi - invitato in salotti di amici - si prepara vestito elegantemente per essere bene accolto; c'è chi durante il tragitto pensa le battute che dirà per divertire i presenti... Nel fare questo però molte volte si tradisce se stessi. Il modo di essere che si adegua a una presunta richiesta di altri, ritengo sia sbagliato prima ancora che nei confronti di questi altri, nei confronti di noi stessi. Perché recitare un ruolo che non è mio per farmi accettare?
Se io mi rivolgessi a una persona cara, alla quale voglio molto bene, non andrei mai a farle dei discorsi pieni di complimenti, lusinghe, blandizie eccetera, ma le direi sempre la verità, presentandomi come effettivamente sono, anche a costo di non essere bene accettato... Di conseguenza io mi presento al pubblico con la problematica che ho dentro, anche se è ovvio che questa problematica risente di fattori che vengono dall'esterno. Non voglio ingannare il pubblico attraverso quelle astuzie che rientrano nel cosiddetto "spettacolo".
(Ermanno Olmi, da “I volti e le mani”, volume allegato al dvd Feltrinelli per i film di Olmi alla Edison)
3.
- Ma lei sa che il pubblico moderno...
«Ah, ma stavo girando un film, e un film non è mai fatto per il pubblico. Un lavoro drammatico è fatto per il pubblico. Il film è fatto per se stesso.»
- Non pensa mai alla gente che lo vedrà?
«Mai!»
- In altre parole, è una specie di suo solipsismo personale?
«È interamente personale, perché il pubblico di un film non esiste. È impossibile immaginarlo. È fatto di duecento berberi dall'altra parte dei monti dell'Atlante. Di un gruppo di intellettuali negli archivi cinematografici di Atene. Di settecento borghesi che hanno votato per Nixon. Di un singolo individuo che guarda la televisione. Quel pubblico non esiste. E io sto scrivendo la mia manciata di film anche per la posterità, dove ci saranno altri generi di pubblico che non riesco neanche a immaginare. È impossibile rivolgersi a un pubblico, a meno che non ci si rivolga a un pubblico ben definito, come hanno fatto Godard, Fellini, o Bergman. Quando metto in scena un'opera teatrale, mi rivolgo a un pubblico di quest'anno in questa città. Quando faccio un film, faccio un film e basta.»
- Anche quando gira un film negli Stati Uniti?
«Certo.»
- Quindi Quarto potere non era orientato verso un pubblico americano?
«Si possono orientare le cose quanto si vuole, ma cosa ne penserà poi il pubblico americano? Io non ne avevo la più pallida idea. Non si tratta di disprezzo per il pubblico, è solo che il pubblico di un film davvero non è concepibile. Il sessanta per cento del pubblico non sentirà mai le parole che diciamo, perché il film sarà doppiato. Forse dieci milioni di persone lo vedranno soltanto in seguito, quando saremo tutti morti. Sono poveri, sono ricchi, sono grandi, sono piccoli. Non sappiamo chi sia il pubblico di un film, perciò non possiamo far altro che qualcosa in cui crediamo.»
(Orson Welles, intervista del dicembre 1974, filmata per la tv francese) (da “It’s all true” ed. minimumfax, pag.233 e seguenti)
4.
- Lei pensa mai agli spettatori?
- No, come avrei potuto? Cosa rappresentano per me? Devo insegnare loro qualcosa? Ho qualche mezzo per sapere cosa pensa John Smith a Londra o Vasil Ivanov a Mosca? Davvero dovrei essere un ipocrita a dichiarare di conoscere i pensieri, il mondo interiore di un'altra persona. Se voglio creare qualcosa posso farlo solo col mio linguaggio, trattando il pubblico come un partner a pari livello. Se ho qualche problema penso che anche il pubblico lo abbia e cerco di usare il mio film per fare chiarezza per me e per gli spettatori. Non sono né piú intelligente, né piú stupido, la mia dignità è ugualmente vulnerabile. Niente di piú facile che fare un film con lo sguardo rivolto alle tasche degli spettatori, ma non è la mia vocazione...
ANDREJ TARKOVSKIJ, intervista raccolta a Londra da Irena Brežnà (pubblicata da “Frigidaire” , circa 1982)
Una volta erano tutti così, ed è con queste persone che nascono i capolavori, e non solo al cinema. Questi concetti, ognuno a suo modo, li ripetevano anche Fellini, Kubrick, Antonioni, tutti i più grandi. Un artista lavora per se stesso, prima di tutto; e poi cerca un modo per comunicare con il suo prossimo. L'unica nostra speranza, se si vuole che il mondo torni a girare per il verso giusto, è che si torni a fare così: in tutti i campi, prima di tutto nell'industria.
In tutto questo, il concetto di “audience”, che è puramente commerciale (una parola inventata dai pubblicitari, che è utile solo ai pubblicitari) non c’entra proprio niente: è proprio guardando all’audience che si appiattisce tutto. Può anche piacere, non dico di no, a qualcuno so che piace, ma che tristezza.
Fabrizio RAVANELLI
16 ore fa
2 commenti:
Pochi riescono ad essere fedeli a se stessi fino in fondo, però, hai ragione, la direzione dovrebbe essere quella. La necessità di compiacere nell'ambito dell'industria dello spettacolo ha motivazioni economiche, in altri ambiti, penso a quello personale, può dipendere da un'intima fragilità, da un bisogno di approvazione che spesso è il risultato di una storia personale poco felice.
Ho letto che Facebook è nato da un'esigenza personale del suo inventore, quando andava ancora a scuola: solo dopo, in seguito, si è accorto che faceva soldi.
E' solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare: Totò e Anna Magnani, per esempio, di sicuro tenevano in gran conto il pubblico in teatro, ma i primi a divertirsi dovevano essere loro.
Eccetera. Se non si ritorna a queste cose, se il primo pensiero è "devo fare qualcosa che vende, che faccia audience" allora verrà tutto così così, senza niente di particolare.
Ho visto di recente un paio di film di Antonioni: giravano il mondo, non facevano incassi da favola ma erano visti dalle persone giuste, e Antonioni aveva l'accortezza di mettere nei titoli di testa le case di moda che avevano fatto i vestiti di Monica Vitti.
Il made in Italy, tanto strombazzato, ha avuto un gran volano proprio a partire dal cinema di Antonioni, e di Fellini: basta guardare le date per capirlo.
(Antonioni e Fellini hanno sempre fatto quello che piaceva a loro...)
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