Gli sponsor: tre delle più grandi squadre di calcio d’Europa (Real Madrid, Milan, Juventus) negli ultimi due anni hanno portato sulle magliette, bene in vista, il marchio di una società di scommesse. La nostra vecchia e cara serie B viene ormai chiamata B-win: è il nome di una società di scommesse.
Andiamo invece a vedere gli sponsor degli anni ’80 e ’90: elettrodomestici, alimentari, marchi di fabbrica, un po’ di tutto. Il fatto che oggi gli sponsor principali del calcio siano gli scommettitori qualche dubbio dovrebbe farlo venire, ma guai a dirlo. Non voglio certo dire che siano le società di scommesse a pilotare il campionato, ci mancherebbe altro: voglio dire che è un segno dei tempi, non tanto nel mondo del calcio quanto in tutta la struttura del nostro Paese. Vent’anni fa gli sponsor erano Danone, Sony, Ariston; oggi sono le società di scommesse. Qualcosa vorrà pur dire.
Ci sono notizie che arrivano a farsi leggere, ma poi vengono subito fatte sparire dai giornali: una società, forse di Singapore o di Hong Kong, che controllava le partite del campionato del Belgio. Non i campionati importanti, ma quelli minori: per scommettere basta e avanza. Ho letto due o tre articoli in merito, su Repubblica o sull’Espresso, forse un anno fa, poi è sparito tutto e non se ne è più parlato. Cosa significa questa notizia? Significa che le partite di quei campionati venivano decise dall’altra parte del mondo, un boss faceva un sms dall’Asia e una squadra di calcio europea segnava un gol o sbagliava un rigore. Cose che capitano, e mica solo in Belgio: se ha funzionato lì, vuoi che non funzioni altrove?
Mi dicono: ma sì, i campionati minori. Siete sicuri che succeda solo nei campionati minori?
Torniamo indietro al primo scandalo scommesse, trent’anni fa: nel 1980 le scommesse erano vietate, si era sempre fatto così. In Italia di legale c’erano solo il totocalcio e la schedina dell’enalotto, poi il totip per i pochi appassionati alle corse dei cavalli, poi ogni sei mesi la lotteria di Capodanno e quella di Merano. Le ricevitorie del lotto c’erano solo a Napoli, nessuna traccia di videopoker e di gratta e vinci, per passare il tempo nei bar c’erano ancora i biliardi, stecca e goriziana e boccette. Eppure, già in quel 1980 c’erano calciatori che giocavano contro la propria squadra. Come si procedette, in quel caso? Colpendo un po’ a caso, chi capita capita, giusto per far vedere che si prendevano provvedimenti (il motto “tolleranza zero” non era ancora di moda, altrimenti lo avrebbero detto di sicuro). Alcuni calciatori sembravano davvero colpevoli, altri furono tirati dentro sulla base di indizi ridicoli, e squalificati senza pietà per due o tre anni. Faccio un nome solo, perché la sua storia ha un lieto fine: Paolo Rossi, che fu squalificato dalla FIGC perché i suoi compagni di squadra (al Perugia) stavano giocando non so più se a carte o a tombola, e qualcuno gli chiese: “Ci stai?”. Il disgraziato rispose sì, e per questo fu squalificato: probabilmente serviva un nome famoso, per mostrare di aver colpito duro, e Paolo Rossi era il bersaglio ideale. Ancora oggi si prosegue così, si squalifica questo e quello, si fa retrocedere o si penalizza in classifica qualche squadra, i giornalisti sportivi esultano “perché si è fatta pulizia”, e poi tutto continua come prima; ma forse sarebbe meglio prendere i dvd del “Padrino” (The Godfather, regia di Francis Ford Coppola) e dargli un’occhiata. I metodi sono quelli, e funzionano: se c’è da spartirsi il mercato della droga in una grande città, per esempio, e c’è un concorrente che mi disturba, io posso fare in due modi: o lo elimino fisicamente, con tutti i rischi che comporta, oppure passo delle informazioni alla polizia, da anonimo cittadino. Il mio concorrente finisce in galera, e io prendo il controllo della sua zona; da allora in poi ci sarà meno violenza visibile, ma per il resto tutto continuerà come prima.
Gli ingenui pensano ancora che siano gli arbitri a determinare il risultato di una partita, in realtà (da sempre) è più facile mettersi d’accordo tra giocatori: ma anche qui, guai a dirlo, i tifosi sono permalosissimi e non vogliono nemmeno iniziare a pensare che forse quello che guardano non è propriamente uno spettacolo leale ed onesto. Insomma, concludendo (ma il discorso potrebbe andare avanti all’infinito), se non vi piace Luciano Moggi posso capirvi: ma avete mai guardato gli altri? Oltretutto, torna comodo leggere bene le sentenze dei tribunali civili, non quelli frettolosi della FIGC: Moggi per ora in tribunale ha subito una condanna (non definitiva) che riguarda non i taroccamenti delle partite, cosa dalla quale è stato assolto con formula piena, ma le procure dei calciatori. Luciano Moggi controllava gli ingaggi dei calciatori, cioè i soldi veri, le percentuali: per gli agenti dei calciatori si tratta di soldi pesanti. Fatto fuori Moggi, gli altri (magari peggiori di lui) si sono spartiti la torta, ed è questo che volevano. E, se io fossi un magistrato, farei indagini accurate in questa direzione: gli ingaggi dei calciatori. Se voglio spostare dei capitali senza dare nell’occhio, ingaggiare un calciatore brasiliano o svedese o magari giapponese è un’ottima trovata: sparo cifre grosse, magari cinquanta milioni di euro, poi farne fermare una trentina alle Cayman o ad Antigua è facilissimo. E anche questa, ormai, è storia – o cronaca, fate voi: ma guai a parlarne, se si rompe il giocattolo a molta gente toccherebbe di andare a lavorare.
Ma il vero problema, direi, riguarda i dirigenti del calcio, e dello sport in generale. Se non si accorgono di cosa c’è sotto, è meglio che se ne vadano. Meglio che diano le dimissioni, se i dirigenti non si accorgono di niente allora lascino il posto a qualcun altro, chiunque saprà governare meglio di loro.
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