Quando Lewis Carroll pubblica "Sylvie and Bruno", Albert Einstein stava per compiere quattordici anni: non è che prima non si sia mai pensato alla relatività, però Einstein è riuscito a esprimerla in termini matematici.
Lewis Carroll, da "Sylvie and Bruno"
« Il che mi fa venire in mente, » disse Eric, « che non si paga niente per ricevere un telegramma. Ne chiediamo uno? » e lui e Lady Muriel mossero in direzione dell'ufficio telegrafico.
« Mi domando se Shakespeare abbia avuto lo stesso pensiero, » dissi, « quando scrisse “Tutto il mondo è teatro”. »
Il vecchio sospirò: « E lo è, infatti, » disse. « Dica quel che vuole: la Vita è proprio una commedia, una commedia con pochi encores - e niente bouquets! » aggiunse, con aria sognante. « Ne passiamo metà a rammaricarci delle cose che abbiamo fatto nell'altra metà! »
« E il segreto di godersela, » continuò, riprendendo il tono allegro, «è l'intensità.»
« Ma non nel senso estetico moderno, immagino. Come la giovane signora di Punch che inizia la conversazione con “Lei è intenso?” »
« Assolutamente no! » replicò il Conte. « Quello che intendo io è l'intensità del pensiero - l'attenzione concentrata. Perdiamo metà del piacere che ci potrebbe venire dalla Vita non partecipandovi realmente. Facciamo un esempio qualsiasi: indipendentemente dalla grossolanità del piacere, il principio è sempre lo stesso. Supponiamo che A e B stiano leggendo lo stesso romanzo di una biblioteca circolante di second'ordine. A non si dà la briga di afferrare perfettamente i rapporti che intercorrono fra i personaggi, da cui forse dipende tutto l'interesse della storia: salta tutte le descrizioni dei paesaggi e tutti i passaggi che gli sembrano un po' noiosi; non partecipa che a una metà di quello che legge: continua a leggere per ore, invece di accantonare il libro, semplicemente perché gli manca la voglia di cercarsi un'altra occupazione: e raggiunge la parola “fine” in uno stato di noia e di completo abbattimento! B ci mette tutta l'anima - mosso dal principio che “quello che va fatto, va fatto bene”: afferra le genealogie; si fa un quadro mentale del paesaggio; e soprattutto chiude risolutamente il libro, dopo qualche capitolo, mentre il suo interesse è ancora vivo, e si dedica ad altre cose; così, quando si concede un'ora per leggere, è come un affamato che si siede a tavola: e quando il libro è finito ritorna al suo lavoro quotidiano come un “gigante ben riposato”! »
« Ma supponiamo che il libro sia davvero robaccia - senza niente che ti ripaghi dell'attenzione. »
« Bene, supponiamolo, » disse il Conte. « La mia teoria si può applicare anche in questo caso: A non scoprirà mai che è robaccia, arranca fino alla fine, pretendendo di divertirsi. B chiude tranquillamente il libro, dopo averne lette una dozzina di pagine, torna in biblioteca, e lo cambia con uno migliore! C'è ancora un'altra teoria per godersi meglio la Vita - ed è... ma non vorrei aver esaurito la sua pazienza. Temo che mi consideri un vecchio molto loquace. »
« No davvero! » esclamai, sinceramente. E in effetti non vedevo come ci si potesse stancare della dolce tristezza di quella voce gentile.
« È che dovremmo imparare a prenderci in fretta le gioie, e lentamente i dolori. »
« Ma perché? Avrei detto il contrario. »
« Se si prende lentamente un dolore fittizio - che può essere infimo quanto si vuole - il risultato è che quando arrivano i dolori veri, per quanto tremendi, l'unica cosa è farli passare con un ritmo normale, e passano in un attimo! »
« Verissimo, » dissi, « ma i piaceri? »
« Ecco, prendendoli in fretta, se ne possono prendere molti. Ci vogliono tre ore e mezza per ascoltare e godere un'opera. Supponiamo che io riesca ad ascoltarla e goderla in mezz'ora: posso godermi sette opere nel tempo che un altro impiega ad ascoltarne una! »
« Sempre supponendo che ci sia un'orchestra in grado di suonarle, » dissi, « e quell'orchestra è ancora da scoprire! »
Il vecchio sorrise. « Ho sentito un'aria, » continuò, « e non era certo corta... che veniva suonata interamente, variazioni e tutto, in tre secondi! »
« Quando? E come? » chiesi ansiosamente, con una mezza idea che stessi sognando di nuovo.
« Era in un carillon, » replico calmo. « Dopo che era stato caricato, il regolatore, o qualcosa del genere, si ruppe, e si scaricò, come ho detto, in tre secondi. Ma deve aver suonato tutte le note, capisce? »
« E le è piaciuta? » incalzai con la severità di un avvocato che conduca un contro-interrogatorio.
« No di certo, » confessò candidamente. « Ma, capisce, non sono stato abituato a quel genere di musica.» (...)
(Lewis Carroll, da “Sylvie e Bruno”, ed. Garzanti 1978, pag. 174 – traduzione di Franco Cordelli)
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5 ore fa
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