lunedì 9 aprile 2012

Samadhi

Elémire Zolla, da "Archetipi":
(...) Samàdhi denota la mente quando si sia sganciata da tutto ciò che di norma la impegna, dopo che si è distolta dall'occhio vagante, dall'avido udito, dalla lingua golosa, dall'elettrica pelle e, scendendo nell'intimo, dall'incessante rammemorare, dall'inquieto immaginare. (...) La persona che sta vivendo l'esperienza metafisica può sembrare a chi la osservi da fuori tutta presa dagli eventi e di fatto li affronta lucidamente e con prontezza. (...) Si può vivere a fianco d'un uomo in samadhi senza notarlo: sbriga le sue faccende e lo si crede coinvolto, si proiettano su di lui i comuni sentimenti e non si ricevono smentite.
Una condizione puramente interiore è priva di connotati. Le metafore con le quali se ne parla designano fatti esterni e perciò falsificano, a cominciare dall'alternativa geometrica di dentro/fuori, esterno/interno. Quando in samàdhi, si è immedesimati in se stessi, eppure si ingloba il mondo circostante; si è ritirati nella propria interiorità e allo stesso tempo espansi nella natura; tanto si è consapevoli quanto impersonali. Nell'esperienza metafisica sfuma la differenza fra “io sono” ed “è” (...) Chi avverte estaticamente l'unità di se stesso e dell'essere, considera illusoria la molteplicità degli eventi, perciò, quando si presentano, non fa scattare la Biade automatica bene/male, amico/nemico. Si lascia attraversare, come un mare, uno specchio.
Il rovescio di samàdhi è ciò che i vecchi psichiatri chiamavano nevrastenia, l'indugio accigliato e penoso sulle cose, che ogni sensazione centellina e cincischia, su ogni immagine vagabonda indugia: non c'è circolazione, nitore mentale, e la psiche si smarrisce in un'incessante fantasticheria.
Il paradosso del nevrastenico è che sta agglutinato all'irrilevanza dei fatti come tali, e allo stesso tempo, fantasticando, ne annebbia i contorni. Si accanisce sull'esistenza bruta e trascurabile, mai illimpidita dalla meditazione, mai depurata dal raccoglimento; dell'esperienza metafisica è ignaro o si è persuaso che sia un vago intontirsi. (...) La psiche indiscriminante, nuda e vulnerabile del nevrastenico è inchiodata alla molteplicità tormentosa e irredimibile del mondo, che in samàdhi viceversa si sorvola senza restarne suggestionati, come una libellula sfiora il pelo dell'acqua: in samàdhi il mondo si inspira e si espira obliosamente.
Gli ufficiali di marina si allenavano a entrare in samàdhi quando erano messi di vedetta ad avvistare sommergibili; dovevano poggiare lo sguardo sull'estremo orizzonte senza mettere a fuoco nessun tratto di mare; così i monaci un tempo apprendevano a tenere lo sguardo sulla linea d'orizzonte della vita, a non tornare sugli eventi trascorsi, a schivare il compiacimento e l'indugio su se stessi, sorvolando il fiume della realtà e scartando i sogni di veglia.
(...)
Ai concerti si ha l'occasione di isolare e precisare quel che è samàdhi. Quando l'esecuzione è conclusa, il silenzio che segue trabocca della sostanza musicale appena trascorsa, è gremito dei suoi significati. L'ultima armonica s'è dileguata nell'aria, per un istante attonito non si sente più nulla, ma tutti i suoni dell'esecuzione sono compattamente presenti. L'applauso ancora esita; del pezzo musicale perdura l'essenza pura, il brivido. La composizione è ora concentrata in sintesi, in un punto, davanti a noi, dentro di noi, così come comparve in germe davanti al compositore, dentro di lui quando la mano gli corse febbrilmente ad annotarla. Nel silenzio che s'è spalancato, si libra l'anima della composizione; dopo le esitazioni, le insistenze, le tante invocazioni del suo svolgimento. Nell'attimo estatico della fine, l'insieme si staglia quale fu prima di assumere una veste sonora. L'ascoltatore non è in contatto con la musica stessa, che è stata eseguita, ma con la sua essenza generatrice, con la possibilità pura che l'ha fatta esistere, con come è più che con ciò che è.
L'intollerabile, estatica fusione dell'ascoltatore con la musica, l'identità di soggetto e oggetto, fa scoppiare l'applauso. Questa fusione non avviene peraltro soltanto alla fine ma, relativamente, in proporzione, per anticipo ad ogni pausa nel corso dell'esecuzione.  (...) Quando la triade dell'ente conosciuto, del conoscitore e della conoscenza forma un'unità, il conoscitore non ricorda più di essere una persona particolare e limitata, e perciò si prefigge la particella negativa “a” e risulta asafnprajnata samàdhi, un significante il cui significato si può «vedere»: è l'ascoltatore rapito, le mani plaudenti, gli occhi accortinati dalle lacrime, dimentico di sé, assorto in sé. Assorto in sé, nella sua essenza impersonale e infinita: «Quando questa è turbata e si disperde negli oggetti molteplici, si chiama mente; quando è persuasa d'una sua intuizione, si chiama intelligenza; quando stoltamente si identifica con una persona, si chiama io; quando invece di indagare in modo coerente, si frammenta in una miriade di pensieri vaganti, si chiama coscienza individuale. Quando il movimento della coscienza, trascurando l'agente, si protende verso il frutto dell'azione, si chiama fatalità (karma); quando si attiene all'idea "l'ho già visto prima" in rapporto a qualcosa di visto o di non visto, si chiama memoria.
Quando gli effetti di cose godute in passato persistono nel campo della coscienza anche se non si vedono, si chiama latenza inconscia. Quando è consapevole che la molteplicità è illusoria, si chiama sapienza. Quando, in direzione opposta, si oblia nelle fantasie, si chiama mente impura. Quando si intrattiene nell'io con le sensazioni, si chiama sensibilità. Quando resta non manifestata entro l'essere cosmico, si chiama natura. Quando crea confusioni tra realtà e apparenza, si chiama illusione (maya). Quando si discioglie nell'infinito, si chiama liberazione.  Pensa: "sono legato" e c'è l'asservimento; pensa: "sono libero" e c'è la libertà». Così enuncia tutta la metafisica in compendio Vasistha nel dialogo con Brahma dello Yogavasistharamayana, che risale a tra il sesto e il decimoquarto secolo: tale ne è la limpidezza dei concetti e delle parole, che dei criteri di datazione si fa beffe.
(Elémire Zolla, da “Archetipi”, edizioni Marsilio, il primo capitolo)
Elémire Zolla scriveva regolarmente sul Corriere della Sera, ed è lì che l’ho incontrato e ho cominciato a leggerlo; solo in seguito ho cominciato a cercare i suoi libri, e a leggerli. Come si vede, non ho fatto una gran fatica: il Corriere della Sera lo si trovava facilmente, alle volte anche senza pagare, nei bar, o in casa di qualche parente. Oggi nessuno scrive più di queste cose, né sul Corriere né altrove; non con questa chiarezza e non con questa competenza, intendo.
La questione è molto più interessante di quello che sembri a prima vista, perché Zolla parlava e scriveva, su un quotidiano a grandissima diffusione, di cose esoteriche. Esoterico significa intimo e segreto, riservato a pochi: scriverne e parlarne sul Corriere sembrerebbe quindi un controsenso, ma così non è, ed è Zolla stesso a spiegarlo in molte sue pagine: questi testi non sono esoterici perché riservati a pochi eletti, ma al contrario sono aperti a tutti ma pochi (pochissimi) hanno la costanza di leggerli, di informarsi, di porsi delle domande, di andare appena un po’ oltre l’apparenza delle cose. Ed è per questo che nel portare qui queste pagine ho fatto molti tagli: ne chiedo scusa a Zolla (ovunque egli sia) ma l’ho fatto perché mi sono reso conto, e non da oggi, che non tutti arrivano a concentrarsi sulle parole giuste.
L’esoterismo è riservato a pochi: non perché ci siano segreti da da mantenere, roba oscura da iniziati, ma perché a pochi interessa, pochi se ne occupano. Molte persone vedono, ridono, evitano con cura di approfondire. In poche parole, non ci arrivano: non ci arrivano neppure con il Vangelo, neppure con la nostra religione cristiana che pure dovremmo imparare fin da piccoli; figuriamoci l’esperienza del samadhi, che al più verrà accolta “alla Alberto Sordi”, come nei film di Verdone e di Fantozzi; e invece l’esperienza raccontata qui da Zolla è quotidiana, non c’è bisogno di essere dei “santoni” per provarla.
A me piace molto questa pagina, per esempio, perché ai concerti ci sono stato, ed è proprio così: un’esperienza comune, quindi, che ho condiviso spesso con altre millecinquecento o duemila persone, in una sala da concerto o magari alla Scala (dove entravo come loggionista: costava meno che andare al cinema).
C’è comunque una giustificazione per il comportamento superficiale di molti di noi, ed questa: appena ci si muove in questi campi, è molto facile trovare dei cretini o dei truffatori. Insomma, una persona come Elémire Zolla non è facile da trovare; molto più facile trovare qualcuno che cerca di approfittarsi di noi o dei nostri soldi. Ed è questo, purtroppo, che spinge alla prudenza nel trattare anche gli argomenti più belli, come quelli di cui, ancora oggi, ci parlano Elémire Zolla o Fosco Maraini nei loro libri.
Elèmire Zolla (da pronunciare El-Emir, se non ricordo male) nasce a Torino nel 1926, da madre inglese e padre italiano. E’ stato uno dei più grandi studiosi italiani di storia delle religioni, ed è anche un ottimo scrittore; ma tutto questo ne dice poco, forse si fa più presto a dire che era un’enciclopedia vivente, un uomo che aveva viaggiato molto e visto molto, e che aveva letto molti libri in molte lingue – i libri giusti, sia ben chiaro – e che sapeva raccontarli. Una curiosità su “Archetipi”: il libro è stato scritto in inglese, e pubblicato prima a Londra (nel 1981) e poi a New York, in Giappone, e in molti altri Paesi: la versione italiana è a cura di Grazia Marchianò.

5 commenti:

Grazia ha detto...

Conoscevo solo di nome Elèmire Zolla e non sapevo che scrivesse per il " Corriere".È vero che sono argomenti complessi, ma a volte si sente la necessità di affrontarli per avere l'idea di una vita che non sia solo l'appiattimento quotidiano.
Ho letto invece- e molto- il" grande Fosco" Maraini: ho cominciato con"Ore giapponesi" che è stato la mia guida per un viaggio in Giappone e ho continuato poi a leggerlo La sua ironia, il suo disincanto, che non escludeva però sensibilità e presa di coscienza, sono stati per me degli insegnamenti di vita.

Giuliano ha detto...

Aure e "Archetipi" sono i due libri più famosi di Zolla, spero che siano ancora in catalogo...mi pare che l'ultima edizione non sia della Marsilio, ma potrei sbagliarmi.
io non sono mai diventato un esperto, ma con Zolla si imparano tantissime cose. La prima, sicuramente, è il rispetto per le altre culture - una cosa di cui ci sarebbe grandissimo bisogno, oggi.
Con tre righe scritte da Zolla altri hanno scritto un libro intero...forse la generosità e la voglia di comunicazione sono altre due delle caratteristiche di Elemire Zolla. (che ci ha lasciati nel 2002...)

Giuliano ha detto...

Fosco Maraini è un altro grandissimo scrittore - direi più un compagno di strada, rispetto a Zolla, qualcuno con cui vorresti davvero fermarti a parlare. Zolla era più riservato, verrebbe da pensare - ma bisognerebbe chiedere a chi li ha conosciuti di persona.
In goni caso, quando vedo Dacia Maraini in tv penso sempre che suo padre dev'essere stato per davvero una bella persona... (oggi lo dicono di chiunque, ma non tutti siamo persone belle, anzi!)

giacy.nta ha detto...

"Assorto in sé, nella sua essenza impersonale e infinita". Libertà.

Non ho mai letto Zolla. Da cosa comincio?

Giuliano ha detto...

magari proprio da qui, da "Aure" o da "Archetipi", o magari la lunga intervista "Un destino itinerante" edito da Marsilio nel 2003.