La fuga dalle responsabilità, un vero fuggi fuggi generale, sembra essere il tratto distintivo di quest’epoca dirigenziale. In ogni campo: quante firme vi hanno fatto fare, l’ultima volta che avete dovuto stipulare un contratto? Nella mia banca, la banca dove ho i miei soldi da trent’anni, l’ultima volta me ne hanno fatte fare dodici, o forse quattordici: ci ho messo cinque minuti, ho provato a contarle ma a un certo punto è inevitabile perdere il conto. «E’ per la privacy» dicono; ma no, non è per la mia privacy, è per scaricare su di me ogni responsabilità. Basta leggere quello che c’è scritto: c’è scritto che io autorizzo, che io prendo visione, che ho letto tutto anche in ogni minima riga, compresi i rimandi al codice civile e penale. E dunque, se qualcosa va storto, la colpa è mia e soltanto mia.
Non so se questa cosa funzionerebbe in tribunale, ma comunque ha preso piede: nelle banche, è stato il grande spavento del dopo Tanzi, gli investimenti legati alla Parmalat, ai bonds argentini. C’è stato il rischio concreto che qualche alto dirigente bancario finisse in galera, e da allora si sono presi i provvedimenti: deve fare tutto il cliente. E’ così che è andata, ed è così che è andata in molti altri settori della nostra vita: si promulgano leggi magari buone e ben fatte, per responsabilizzare, per aiutare i cittadini, e subito comincia lo scaricabarile, la fuga dalle responsabilità. Per fare un solo esempio, in un campo diverso da quello dell’economia, a metà anni ’90 io ho seguito il percorso della legge 626, quella della sicurezza sul lavoro: il senso della legge, molto ben scritta, era quello di spingere tutti a una maggiore responsabilità, il risultato finale fu una serie di vere e proprie vessazioni e carte da firmare per i lavoratori, che il più delle volte le firmavano senza pensarci troppo: ma con quelle carte firmate la responsabilità non era più dei loro capi e dei dirigenti, era tutta dell’operaio; inutile dire che farlo notare può significare la perdita del posto di lavoro. Poi succedeva questo: che in impianto passava il direttore di produzione, diceva “alza di un punto la portata” e l’operaio rispondeva: “Per cortesia, me lo può scrivere sul foglio di lavorazione?”. Mi fermo qui perché penso che sia chiaro cosa può succedere in casi come questi, se salta l’impianto e non c’è niente di scritto, la responsabilità sarò tutta dell’operaio scemo e irresponsabile, mai del dirigente.
Tornando a noi, e alle nostre banche, qualche anno fa (pochi) è stata introdotta ovunque la novità dei “salottini”: non più tetri e noiosi sportelli dove stare in piedi, ma salottini accoglienti dove sei trattato come un ospite. E io, che ormai sono fatto così, mi sono chiesto subito dov’era la fregatura. La fregatura è questa, ormai visibile a tutti: che la banca fa fare il lavoro a te, al cliente. “Comodamente da casa tua, a costo zero”: con questa formuletta magica, la banca licenzia e chiude le sedi, l’impiegato diventi tu, la responsabilità è tutta tua, se sbagli a digitare t’arrangi, se non hai i soldi per comperare computer, stampante e collegamento internet sei uno sfigato (si finisce sempre qui, allo sfigato). In tutto questo, a colpirmi di più è l’atteggiamento delle gente, dei clienti: “ma esistono i conti a costo zero!” ti dicono, imbambolati dalla pubblicità. Ebbene, i conti a costo zero ce li avevo anche nel 1981, e ti dirò di più: a fine anno mi pagavano anche gli interessi sul conto corrente, anche delle belle cifre. E tutto questo con gli impiegati e le impiegate, magari un po’ imbronciati o imbronciate, ma il lavoro lo facevano loro, mica io: io alla banca avevo già portato i miei soldi, cos’altro volevano da me?
A Milano, nei bei tempi lontani, in casi come questi i nostri vecchi dicevano: “desédas, fioeu, che l’è ura”. E cioè: “svegliati, bambinetto, che è ora di svegliarsi”.
PS: in questo momento storico, la ripresa dell’Italia è affidata proprio all’inventore dei salottini, prima alle Poste e poi in Banca Intesa: il ministro Corrado Passera. E’ a lui, e al suo staff, che devo anche l’orribile musichetta e i comunicati commerciali che imperversano ogni volta che uso il bancomat: a casa mia, o in automobile, se arriva un ospite io spengo la tv, spengo la radio, chiedo se disturba. Una regola elementare di buona educazione, ma forse in banca sono diventato un cliente sgradito.
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2 commenti:
A volte quando ti leggo ritrovo i pensieri che vengono in mente anche a me, ma tutti ben ordinati e ben scritti.È un vero piacere leggerli, anche se l'argomento, come in questo caso, non è dei più allegri.Comunque anche a Bruxelles imperversano gli orribili salottini. Nella banca dove vado, la PNB Paribas, non ci sono più nemmno gli sportelli, ma tavoli e poltroncine. E tutto è gestito dal cliente con gli impiegati che si aggirano come hostess o steward in aereo e ti chiedono solo se ti trovi bene. E tutto con i soldi nostri...
Quello è il modello giusto, grazie per l'esempio. Dare uno spazio al cliente dove può fare le operazioni da solo, e dove può anche decidere di spegnere la musichetta diffusa se gli dà fastidio (digitare numeri mentre una voce ti parla nelle orecchie, e magari ti dice altri numeri perché è uno spot della banca? che fesseria...). E magari, alla fine, chiedere conferma se si è fatto giusto.
Ieri sera ho visto con orrore un servizio-spot del Tg2, dove si diceva che tutto è bello tutto è giusto, che anche i pensionati dovranno adattarsi ad andare al bancomat, e io ho subito pensato a mia mamma, ai miei vicini di casa, tutte persone che stanno bene di salute e ben presenti, ma io al bancomat non ce le manderei mai, stiamo scherzando?
Sono riforme necessarie, ma vanno fatte un po' alla volta, così come negli anni '60 non si diceva aglia analfabeti "da domani si fa così" ma si facevano scuole serali, trasmissioni tv.
A conclusione, si è visto dove vanno a finire i soldi che risparmiano "tagliando sui costi": dalla BNL al Banco Ambrosiano, al salvataggio Alitalia, adesso anche Siena (per tacere degli yacht e dei jet privati, e degli elicotteri privati)
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