Rifletto, un po’ spaventato, davanti ai commenti di economisti più o meno insigni e di quasi tutti i politici e gli opinionisti davanti a quella che viene chiamata “la crisi della Grecia”. Conosco bene i miei limiti e so bene che sono tutt'altro che un esperto, ma - visti dal mio piccolo angolo di mondo - questi commenti non mi convincono, anzi.
Mi trovo spaventato e spiazzato perché quello che ascolto non corrisponde a quello che vedo e che tocco con mano: si parla dell’euro, per esempio; si dice che l’Italia sta meglio del Portogallo e della Spagna; poi arriva Moody’s e dice che siamo in ballo anche noi. A chi credere, chi ascoltare?
La risposta migliore è guardarsi intorno, soprattutto noi che siamo qui nel cuore della Brianza operosa o ai suoi confini, o magari nel mitico Nordest veneto-furlano: questo è un Paese ormai quasi completamente deindustrializzato, e non da oggi. La fuga delle industrie dura da una decina d’anni, una alle volte se ne sono andate tutte: gli industriali italiani hanno “delocalizzato”, le multinazionali estere hanno chiuso qui e sono andate a produrre altrove. Quando si faceva notare il fenomeno (non io: gli economisti seri e gli studiosi del lavoro) si rispondeva che era giusto così, che l’industria “pesante” era roba da paesi arretrati, che i paesi evoluti hanno il terziario, eccetera. Che è una risposta in parte giusta e comprensibile: nessuno si sporca volentieri le mani, per esempio le concerie e le tintorie sono lavoracci, inquinano, se le pelli le lavorano in Turchia è meglio, si inquina meno, circolano meno veleni, eccetera. Tutto bene salvo un particolare: che se chiude una conceria ci sono un centinaio di lavoratori senza paga, e se ne chiudono dieci, eccetera eccetera.
La questione non riguarda solo le tintorie e le concerie, ma anche lavori “belli”, da laureati: la storia della Glaxo a Verona è notizia di questi giorni. E se appena si tocca il discorso dell'agricoltura, sono dolori.
Che dire? Che si ha una gran paura di chiamare le cose con il loro nome. Fin qui è andata abbastanza bene, ma quello che accade in Grecia arriverà anche da noi. Provate a guardare con attenzione nei supermarket e nei centri commerciali, magari dove vendono televisori, elettrodomestici, oggettistica varia, vestiti, scarpe: trovare cose prodotte in Italia è sempre più difficile. L’Italia non produce più niente, che fine ha fatto il famoso “made in Italy”? La questione è complessa e io non sono un economista, ma mi permetto di dire – visto che non lo dice nessuno, ma la questione è ormai visibile anche agli incompetenti come me – che dipende da vari fattori, ma io vorrei ricordare che da venti-venticinque anni fa si è insegnato alle giovani generazioni che i mestieri importanti erano il venditore, il pubblicitario, l’immobiliare, il marketing, magari l’esperto di sondaggi, i “derivati bancari”... Insomma, fumo, aria, un mondo virtuale dove non c’è niente di solido: per “vendere” devi pur avere una merce, non bastano gli slogan. Tornando per un attimo all'agricoltura, quello che produciamo in Italia non basterebbe mai a coprire il fabbisogno nazionale, eppure continuiamo a ridurre le aree coltivate, a costruire: e metà del grano per i nostri spaghetti arriva dal Canada, ma questo sembra non interessare a nessuno. Che dire? Speriamo che lo stretto di Gibilterra e il canale di Suez restino sempre agibili, e che il Canada si mantenga prospero e abbia ottimi raccolti, altrimenti qui rischiamo la fame.
La Storia, quella con la esse maiuscola, ci insegna che il mondo gira, Paesi che comandavano il mondo sono andati incontro al declino, altri Paesi hanno preso il loro posto...
Siamo stati bene per più di mezzo secolo, con i fannulloni, i comunisti e i democristiani statalisti abbiamo fatto il boom economico, con il “mortadella” Prodi (e con Ciampi, e anche con il governo Amato del 1992) siamo entrati nell’euro, poi sono arrivati al potere gli esperti economisti (non solo in Italia, in tutta Europa), l’euro non viene più difeso, in tutto l’Occidente trionfano le ideologie della fuffa (mi si passi il termine) e del personale visto come un peso e non come una risorsa, si è propagandato che il lavoro manuale è brutto e sporco ed è meglio farlo fare agli altri, e adesso ogni merce che abbiamo in casa, anche la più piccola, è made in China. Ogni volta che facciamo un acquisto, anche piccolo, è il PIL della Cina quello che si muove verso l’alto...
Insomma, forse la crisi si potrà evitare, ma è meglio se cominciamo a prepararci al peggio. Che futuro ha un Paese dove sono i call center la principale fonte di occupazione?
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
6 commenti:
il futuro è una parola che non esiste, roba dei secoli passati
E' vero, che tristezza. Gli anni dal '45 in su erano pieni di futuro, qui siamo già tornati al feudalesimo.
e con il futuro abbiamo perso la possibilità di prevedere, meglio, di considerare le conseguenze. Insonmna, non si ragiona più!
Viene sempre buona la spiegazione che mi hanno dato tanti anni fa, non ricordo più chi me l'ha raccontata o dove l'ho letta: il contadino e le galline, nell'aia. Il contadino butta il granturco a piene mani, e ogni gallina si becca il suo pacificamente; se invece il contadino butta tre o quattro chicchi, le galline si ammazzano per mangiarli.
Ovviamente, vincono le peggiori: le più aggressive e cattive.
E' per questo che la gente vota a destra, mica per altro: lo spiega bene Konrad Lorenz...
Sicuramente il problema delle risorse non è da sottovalutare. Alcuni dicono che è il motivo per cui le donne non vogliono fare bambini e della trans|azione dei maschi mah!
Sì, i fatti parlano più chiaro dei nostri ragionamenti. E, come purtroppo sappiamo, ragionare non serve a niente: "vincere e vinceremo: ma poi come è finita?". Inutile spiegare, se siamo ancora a questo punto nel 2010.
Posta un commento