Una volta scoprii Eduardo De Filippo che parlava con un cane. Eravamo a Bari, davanti al Teatro Piccinni. Con discrezione ascoltai. Sembrava un colloquio amichevole e abituale. L'uomo parlava a bassa voce, fitto fitto. Il cane ascoltava compreso, scodinzolando.
Eduardo chiedeva al cane, un bellissimo esemplare multirazziale, pezzato, con uno sguardo dolcissimo, «A chi sei cane?». Pensai di non aver capito e drizzai le orecchie, come, del resto, fece anche la bestiola. Eduardo chiese ancora: «Ne', si può sapere a chi sei cane?».
Il cane rispose con un guaito che era un lamento come per dire: «Caro Maestro, purtroppo non sono cane a nessuno. Mi piacerebbe molto essere cane a qualcuno ma, evidentemente, sono figlio di un dio minore e, quindi, non sono cane a nessuno». Eduardo capì, lo accarezzò sconsolato come per dirgli che avrebbe voluto che potesse diventargli cane, ma che non poteva, che non doveva e che la sua vita e il suo lavoro glielo impedivano. Si allontanò meditabondo verso l'ingresso del palcoscenico e io lo accompagnai, consapevole che quel cane ci avrebbe seguito con lo sguardo triste di chi non è cane a nessuno. Eduardo non parlava e io non mi azzardavo a rompere la sua magistrale pausa di sìlenzio, poi mi disse: «Quando si nasce cane è meglio nascere cane "a qualcuno"». Solo allora compresi il mirabile dativo di possesso, con il quale sanciva il rapporto strano e bellissimo tra questo umile amico dell'uomo e l'uomo quando l'uomo è onesto. Un rapporto che migliora entrambi i contraenti. Forse perché uno è una bestia.
(di Michele Mirabella, dal venerdì di Repubblica 15.07.2005)
Life History of the Forget-me-not
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