Sulla metropolitana si è scritto molto, ci sono tante cose da leggere e da vedere (Dino Buzzati aveva collocato nella metropolitana milanese l’ingresso degli inferi: è in “Poema a fumetti”, metà anni ‘60). E quindi passo volentieri la mano, caso mai aggiungo qualche mia osservazione alla fine.
NEL METRÒ PARIGINO CON JULIO CORTÀZAR
di Julio Cortàzar, da La Repubblica 5 febbraio 2012
Il testo che anticipiamo è tratto da “Carte inaspettate”, raccolta di testi inediti di Cortazar (317 pagine, 20 euro) che Einaudi pubblica con prefazione di Antonio Tabucchi. In libreria dal 7 febbraio.
Può darsi che ancora una volta all'origine delle cose ci siano le parole, che il lessico dei treni metropolitani sia in parte la spiegazione di quel contatto permanente che mantengo con il metrò, e che da lì provengano le tante pagine che io gli ho dedicato o lui ha dedicato a me in racconti e romanzi, boomerang del verbo che torna alla mano e agli occhi. “Correspondance”, per esempio, è il termine che indica le corrispondenze tra le linee della metropolitana parigina, ma come quasi tutta la nomenclatura del nostro Ade urbano, è un termine carico. Quando arrivai a Parigi nel 1949, portando con me la bussola della letteratura francese, la mia guida era Charles Baudelaire. Il primo giorno volli conoscere l'Hótel Pimodan, nell'Ile SaintLouis, e quando domandai quale metrò portava in riva alla Senna, il padrone del mio albergo mi indicò la linea e aggiunse: -Non è difficile, c'è una sola correspondance-. In quel momento la mia mente tornò al celebre sonetto di Baudelaire e di colpo sentii che tutto filava liscio, fra me e Parigi non ci sarebbero stati problemi. Sono trascorsi ventinove anni e le corrispondenze fra noi persistono e aumentano. In Inghilterra e negli Stati Uniti, le corrispondenze si chiamano changes e nel mio paese combinaciones. Ognuna di queste tre parole contiene una carica analoga, suggerisce una mutazione, una trasformazione, una metamorfosi. L'uomo che scende nel metrò non è lo stesso che torna in superficie; tuttavia, bisogna che si sia tenuto l'obolo trai denti, che abbia meritato quello spostamento che per molti altri non è che un viaggio tra diverse stazioni, un oblio immediato.
In principio ci furono gli odori. Io avevo otto o nove anni, e dalla periferia di Buenos Aires dove vivevamo mia nonna mi portava in visita da certi amici. Si cominciava con un treno locale, dopo si prendeva un tram e infine, già in centro città, il metrò, che gli abitanti chiamano «subte», come se avessero paura della parola completa e volessero neutralizzarla mediante un taglio desacralizzante. Oggi so che quel percorso in metropolitana non durava più di venti minuti, ma allora lo vivevo come un viaggio interminabile nel quale tutto era meraviglioso dal momento stesso in cui si scendeva nella penombra della stazione. Respirare quell'odore che si sente solo nei metrò, un odore diverso in ogni città.
Mia nonna mi teneva per mano (il suo vestito nero, il cappello di paglia con la veletta che le copriva il viso, la sua invariabile tenerezza), e c'erano quei minuti di attesa sul binario quando vedevo la profondità del tunnel perdersi nel nulla, i semafori rossi e verdi nell'oscurità, e poi il fragore crescente, il treno dragone che ruggiva e sferragliava, i sedili di legno che rifiutavo per restarmene in piedi accanto al finestrino con la faccia incollata al vetro. Quando il treno prendeva velocità le pareti del tunnel si animavano, diventavano uno schermo mobile con cavi come serpenti neri ondeggianti al ritmo sincopato delle luci, e sempre quell'odore nell'aria spessa e lenta che nulla aveva a che vedere con quella di fuori. In un momento che mi sembrava meraviglioso, il treno risaliva in superficie, i finestrini si riempivano di sole e di fogliame; era al contempo il sollievo dopo la breve stagione all'inferno e la monotonia di tornare alla normalità, la strada, la gente, il tè coi pasticcini che ci aspettava invariabile a ogni visita mensile. Ma potevo sempre dirmi che il viaggio non era finito, la sera avrei ripreso il metrò, di nuovo il tunnel, i serpenti e l'odore, ancora quell'interregno eccezionale che in qualche modo mi condannava a scrivere cose come questa, cinquant'anni dopo.
E’ per cose come questa si può mantenere un commercio furtivo con il metrò, una relazione silenziosa che a volte ricompare nei sogni e in quell'altro modo di sognare che sono i racconti fantastici. In tali racconti e in alcune pagine di romanzi si è coagulato nel corso degli anni quel sentimento di passaggio che non ha nulla a che vedere con lo spostamento fisico da una stazione all'altra. (...)
Come a teatro o al cinema, nel metrò è sempre notte. Ma la sua notte non ha l'ordine circoscritto, il tempo scandito e l'atmosfera artificialmente piacevole delle sale da spettacolo. La notte del metrò è soffocante, umida come una serra e inoltre infinita, in qualsiasi punto e a qualsiasi ora sentiremo il suo prolungarsi nei tentacoli dei tunnel, in qualsiasi stazione pulserà uno dei molti cuori dell'immensa piovra nera che abbraccia la città. La notte del metrò non ha né inizio né fine, tutto si connette e si travasa, le stazioni terminal sono di arrivo e di partenza e chiamarle terminal è una forma di difesa contro l'indefinibile timore che ci aspetta nella penombra del primo corridoio, del primo binario. Il metrò come mediatore fra la routine condizionante della strada e la momentanea comparsa di altri stati di coscienza.
A differenza della strada, dove le opzioni e la vigilanza sono incessanti, basta iniziare la discesa perché una mano invisibile s'impadronisca della nostra e ci conduca senza alcuna possibilità di scelta verso la destinazione prefissata. Non si va in due modi diversi dalla stazione Étienne Marcel alla stazione Ranelagh: divieti, passaggi, cartelli e scale annullano ogni possibilità di capriccio, ogni zigzag da superficie. Passeggeri e treni si muovono all'interno della stessa orologeria predeterminata, ed è allora che le potenze della superficie si addormentano e cominciamo a sprofondare in altri livelli. Affrancandoci dalla libertà, il metrò ci rende temporaneamente disponibili, porosi, aperti a tutto ciò che la libertà della superficie ci toglie, poiché essere liberi lassù comporta pericolo, inevitabili scelte, semaforo rosso, attraversare gli incroci guardando dalla parte giusta.
Se fossero vissuti nel nostro tempo, poeti come Gérard de Nerval e Baudelaire avrebbero amato il metrò; Nerval per l'aspetto allucinatorio, ciclico e ricorrente, Baudelaire per il carattere totalmente artificioso di una micropoli dove non ci sono piante, uccelli o cani (ratti sì, ma il ratto è dalla parte del poeta, lotta contro il sistema, lo mina e lo contamina in una battaglia feroce che dura fin dalla prima città degli uomini e durerà fino all'ultima). (...)
I volti dei passeggeri di un autobus riflettono sempre qualcosa di ciò che li circonda e invade attraverso i finestrini, i loro occhi si lasciano distrarre dai cartelli pubblicitari, dal passaggio delle automobili, dal ritmo delle vetrine, dai passanti sul marciapiede. Invece nel metrò tutto diventa rigido e senza tempo, non c'è niente da vedere, da odorare o da ascoltare, la vita è ricorrente, ciclica, forzosa e quasi identica in ogni stazione. I cartelloni pubblicitari durano in eterno e forse nessuno si rende conto che periodicamente cambiano. La luce e l'aria hanno sempre la stessa consistenza, tutti abbiamo letto centinaia di volte le avvertenze, i divieti e le istruzioni municipali, e continueremo a leggerli perché nel metrò gli occhi hanno sempre fame, cercano un impiego, qualcosa che li distragga da quell'andare e venire nel nulla. (...)
Paradossalmente, la codificazione fredda e immutabile del metrò favorisce in alcuni passeggeri l'irruzione dell'insolito. Sappiamo della disponibilità, della porosità creata dalla routine, della sonnolenza indotta da indicazioni e percorsi risaputi. Il solito è talmente sottolineato che la minima trasgressione si manifesta con una forza impensabile in superficie. (...)
D'altra parte, la rottura della monotonia può nascere da quello stato di ozio mentale che il metrò favorisce come poche altre situazioni. Penso a un mio racconto, ancora inedito, che nasce da un commento umoristico sul numero di passeggeri che un certo giorno erano scesi al subte Anglo a Buenos Aires e di quanti erano tornati in superficie (ne mancava uno). Uno scherzo, un errore, tutto tendeva a minimizzare un episodio che, tuttavia, mi sembrava grave, forse orribile, e che nella sua proiezione immaginaria diventava il preludio di una scoperta abominevole. E poi c'è quel fascino che il passeggero funzionale e frettoloso ignora, il richiamo più profondo, l'invito a restare, a essere metrò. Si tratta ancora una volta dell'attrazione del labirinto, ricorrente maelstrom di pietra e di metallo. L'insolito vi si esprime come un richiamo che esige la rinuncia alla superficie, la ricodificazione della vita. Poveri Ulisse legati dall'urgenza degli orari e degli appuntamenti, i passeggeri si tappano le orecchie con ogni tipo di oggetti o esercitandosi nella vuota contemplazione della carrozza o del binario. Alcuni, però, ascoltano il canto delle sirene degli abissi e io ho imparato a riconoscerli, sono quelli che mentre aspettano un treno voltano la schiena alla stazione e fissano le tenebre del tunnel. (...)
«Raster», Amsterdam, n. 12,1980. © Heirs of Julio Cortazar, 2009 ©Aurora Bernardez and Carles Alvarez Garriga, 2009 Edition prepared by Aurora Bernardez and Carles Alvarez Garriga(Traduzione di Jaime Riera Rehren)
Cortàzar scriveva questo testo nel 1980; scrivere oggi qualcosa di simile sarebbe impossibile perchè la pubblicità, anche nel metrò, si è fatta violenta e invasiva. Non è più possibile stare con i propri pensieri, fantasticare aspettando che arrivi il treno, anche leggere un libro o il giornale è diventato difficile. Dai teleschermi arrivano cose insulse e senza alcuna pausa, dal metrò non ci si può allontanare, magari si potesse ascoltare il canto delle sirene. In più, nel recentissimo “restyling” i colori della metropolitana milanese sono diventati più accesi, quasi violenti. Nei primi anni ’60 si era cercato di rendere almeno un po’ confortevole l’ambiente sotterraneo, oggi prevale l’ambiente da videogame; e mi ha fatto quasi sorridere leggere, un paio d’anni fa, che perfino il sindaco di allora (Letizia Moratti: notizia reperibile su Repubblica 20.03.2009) sarebbe stata favorevole a un ripristino dell’arredo originale di Bob Noorda (nell'occasione, venne interpellato lo stesso Noorda, che abita a Milano, e che si dichiarò disponibilissimo). Ma qui sorvolo, rinvio alla prossima puntata, e metto qualche riga su Cortàzar, sempre presa da La Repubblica 5 febbraio 2012
Julio Cortàzar nasce in Belgio nel 1914; il padre è un diplomatico argentino. Torna nel paese d’origine a quattro anni. Diventerà professore di Lettere, poi inizierà a studiare filosofia. Nel 1946 pubblica su Los Anales di Borges “Il gioco del mondo” (1963) è il romanzo della consacrazione. “Il Persecutore” ha per protagonista il jazzista Charlie Parker. Dona i diritti delle sue opere per aiutare i prigionieri politici di varie nazioni. Avversa il peronismo, viaggia in Cile e Nicaragua. Muore a Parigi, la città dove vive di più, nel 1984. “Le bave del diavolo” ispira Antonioni per il film Blow-Up. “L'autostrada del Sud” è alla base di Weekend di Godard. E anche Il persecutore è diventato un film in Argentina
(le immagini della metropolitana milanese in costruzione, in zona centralissima, vengono da “Il posto” di Ermanno Olmi, film del 1961)
Renato BUSO
11 ore fa
11 commenti:
"nel metrò gli occhi hanno sempre fame, cercano un impiego, qualcosa che li distragga da quell'andare e venire nel nulla (...) Il solito è talmente sottolineato che la minima trasgressione si manifesta con una forza impensabile in superficie (...) E poi c'è quel fascino che il passeggero funzionale e frettoloso ignora, il richiamo più profondo, l'invito a restare, a essere metrò. Si tratta ancora una volta dell'attrazione del labirinto, ricorrente maelstrom di pietra e di metallo (...). Alcuni, però, ascoltano il canto delle sirene degli abissi e io ho imparato a riconoscerli, sono quelli che mentre aspettano un treno voltano la schiena alla stazione e fissano le tenebre del tunnel"
Dopo questo tuo post, inizierò a leggere Cortàzar, sicuro.
Naturalmente, dopo la gioia e la sorpresa della lettura, la caduta nell'attualità è stata ancora più rovinosa :(
davvero ne è passato del tempo dalla descrizione di Cortazàr e anche la metropolitana di Buenos Aires (Subté) non è più la stessa. Sono stata in Argentina a fine 2011e scendere nella metro con una folla sudata e fittissima e tra i rumori, il caldo e gli odori dell'estate portena è stato come una discesa agli inferi. Frequento,invece, tutti i giorni quella di Bruxelles e lì davvero tutto è rimasto inalterato. L'atmosfera è quella di un tram di una volta. Quasi quasi ti aspetti che ci salga Jacques Brel
molte persone ancora oggi hanno paura della metropolitana; in effetti, se ci si pensa, scappare in caso di pericolo è un problema grosso - aggravato dai sempre più numerosi tornelli, ognuno diverso dall'altro. Se si mettono anche a farti timbrare in uscita, il panico è garantito.
Speriamo che vada tutto bene...
Grazia, dovresti parlarci di più di Bruxelles
:-)
(e anche dell'Argentina)
io ho dei problemi con la metro come è oggi. Per esempio, l'indicazione delle direzioni e della fermate era meglio prima, più comprensibile a colpo d'occhio.
Su Cortazar, sono anni che mi riprometto di leggerlo, poi succedono tante cose, me ne dimentico, e poi arriva un giornale che me ne mette davanti dei brani, uno più bello dell'altro.
per quanto ne posso sapere io, Julio Cortazar e Jacques Brel, stanno nel paradiso degli immensi, e si parlano spesso, in francese, ma non solo
il racconto di Cortazaz in spagnolo (http://www.metrodelegados.com.ar/spip.php?article318)
il racconto di Cortazar si trova in "Tanto amore per Glenda"
un interessante articolo sulla metropolitana, con Cortazar
(http://uraniasat.altervista.org/articoli_017.htm)
una questione sugli accenti: ho trovato Cortàzar e l'ho lasciato, ma a dire il vero non so; è vero che in spagnolo Alvaro è àlvaro, e poi c'è anche Càceres che gioca nella Juve, ma che molti chiamano ancora con l'accento sulla prima e... (saperlo!!)
ciao Franz, e grazie per l'informazione
:-)
l'accento è giustissimo, è che noi in Italia siamo pigri con gli accenti:(
la á di Cortazár è Alt160, nel codice Ascii
io invece sono molto pigro con i link (non ho ancora capito come si fa a metterli, sia nei commenti che nel testo). Sulla tastiera comunque so mettere tutte le umlaut: ü ä ö ...
:-)
È vero che, come dice Franz,Jacques Brel sta nel Paradiso degli immensi.A Bruxelles hanno dato il suo nome a una stazione della metro. A volte ci vado solo per vedere il cartello della fermata.È poco prima della Gare de l'Ouest, in uno di quei posti piatti e grigi, da plat pays, che credo gli sarebbero piaciuti e che avrebbe rianimato col calore della sua poesia.
qui da noi è meglio che non lo facciano...una fermata Bramieri o una fermata Gaber sarebbero una buona idea, ma non oso pensare a che razza di nomi potrebbero saltare fuori!
(ho visto la via dedicata a Gino Bramieri, qualche anno fa, per caso: poco più di un passaggio condominiale, era meglio lasciar perdere)
Posta un commento