Dire “i Jethro Tull” e pensare al flauto è una cosa automatica, non si fa nemmeno in tempo a finire la frase che Ian Anderson, col suo fantastico flauto traverso e la sua aria beffarda, è già qui davanti a noi. Già, che ci fa un flauto traverso nel mondo del rock? In effetti fu un impatto straordinario, qualcosa di fantastico e di inaspettato. Ancora oggi, non sono molti i flauti nel rock: ogni tanto qualcuno ci prova, flauti violini violoncelli, ma poi finiscono per non sentirsi, per essere semplici elementi decorativi. Invece con Ian Anderson il flauto è la musica, suona alla pari con gli altri strumenti, incurante perfino dell’amplificazione: è qualcosa che riesce bene solo a quelli bravi. Bisogna saper bilanciare i suoni, lo spiegava Berlioz nel suo trattato di orchestrazione ma è anche qualcosa che si capisce a orecchio – però bisogna averlo, l’orecchio. Insomma, si finisce sempre lì: come diceva un grande filosofo mio contemporaneo (e conterraneo), “bisogna avere orecchio”.
Ma di Ian Anderson, della sua voce e del suo flauto, si sa già tutto: lo riascolto sempre con lo stesso piacere, e con grande affetto; detto questo penso di aver detto abbastanza, e non sto qui a perderci altro tempo. Piuttosto, riascoltando i primi due dischi dei Jethro Tull, sono rimasto colpito dal bassista, dai ritmi sempre diversi della chitarra basso: è una cosa a cui non siamo più abituati, le canzoni di oggi hanno sempre gli stessi bassi, sempre quelli, invece qui c’è una variazione continua, c’è molta fantasia. C’è chi dà la colpa di tutto questo appiattimento alle percussioni computerizzate, che imperversano da più di vent’anni; può darsi, non lo discuto, ma in teoria con il computer i ritmi da scegliere potrebbero essero infiniti, si potrebbe mettere una base ritmica anche di quelle difficili da eseguire. Insomma, secondo me la ragione è un’altra: le percussioni registrate sono comodissime ed è giusto che vengano usate, ma qui c’è sotto una mancanza di cultura e di curiosità che non finisce mai di colpirmi. Faccio notare un dettaglio: il bassista a cui mi riferisco si chiama Glen Cornick (suona in “Stand up”), e non è certo uno dei più noti e celebrati: se Glen Cornick suonava così, significa che quei suoni e quei ritmi sono alla portata di molti musicisti. Come mai non succede?
La risposta sta nell’ascolto di tutto quel disco per intero, di “Stand up” dei Jethro Tull: questi si sono ascoltati di tutto, dal blues più puro e antico fino al jazz e al folk inglese; la “Bourrée”, famosissima, è davvero Johann Sebastian Bach, appena un po’ arrangiata. Ian Anderson e i suoi compagni di strada non erano mica musicisti improvvisati, anche a diciott’anni, e anche con quell’aria da fanigottoni, avevano dietro studi, cultura, interessi personali notevoli. Insomma, non tutto quello che hanno fatto i Jethro Tull è memorabile, spesso l’ispirazione latita, ma a me fa un gran piacere rivedere Ian Anderson in giro, in tour, anche oggi. Ripensando alla musica di quegli anni, non solo ai Jethro Tull ma anche ai Pink Floyd, ai Soft Machine, ai King Crimson, a Tim Buckley e a Nick Drake e a Robert Wyatt, mi viene da pensare che sia diventato vero quello che cantava Ian Anderson in quel 1969: «it was a new day yesterday, and it’s an old day now», ieri era un giorno nuovo, oggi è un giorno vecchio.
Con quella sua voce sempre un po’ beffarda, che a me piace parecchio, Ian Anderson sembra sempre che voglia prenderci in giro. Ed è sicuramente vero, ma ogni tanto, invece, saltano fuori cose come queste:
What a sight for my eyes to see you in sleep...
Could it stop the sun rise hearing you weep?
You're not seen, you're not heard
but I stand by my word.
Came a thousand miles
just to catch you while
you're smiling.
What a day for laughter
and walking at night...
Me following after,
your hand holding tight.
And the memory stays clear
with the song that you hear.
If I can but make
the words awake
the feeling.
What a reason for waiting
and dreaming of dreams.
So here's hoping you've faith
in impossible schemes,
that are born in the sigh
of the wind blowing by
while the dimming light brings
the end to a night of loving.
(Reasons for waiting, da Stand up dei Jethro tull)
Dovevano essere veramente così, come Ian Anderson, i trovieri medievali: da far innamorare, un po’ giullari e un po’ maghi, un po’ acrobati e un po’ cantastorie, ma soprattutto – è un obbligo – dovevano essere ottimi musicisti (peccato solo per quell’arrangiamento con gli archi, del tutto fuori posto: ma è colpa sicuramente del produttore)
La foto qui sopra è di Roland Kirk, punto di riferimento dichiarato di Ian Anderson: gli strumenti che ha appesi al collo riusciva a suonarli davvero tutti, e molto bene: li suonava anche tutti insieme, flauti compresi, due o tre alla volta, se necessario usando anche il naso. Il signore qui sotto invece è il vero Jethro Tull, scienziato e agronomo inglese (1674-1741): pare che la band di Ian Anderson usasse cambiare il nome molto spesso, e quindi bisognava avere molta fantasia nella scelta dei nomi. Quando arrivò il successo avevano questo nome e dato che aveva portato bene lo conservano ancora oggi. (l'immagine viene da wikipedia in inglese)
Turno di notte - Carmen Giardina
7 ore fa
6 commenti:
Dopo aver letto il tuo post, ho lasciato Cathy e mi sono diretta verso i vinili... E'incantevole "Reason for waiting"!
:)
è anche un bel furbone!
:-)
che invidia, chissà quante ne ha conquistate, tra la voce e il flauto
Viste le foto recenti, Ian Anderson sembra ancora in ottima forma
Vado a controllare e poi ti dico:)
p.s.
Ho letto su " La grande storia del rock" che era considerato scostante ed antipatico.
La stampa al primo album non riuscito, lo massacrò...
( motivo in più per considerarlo un grande! )
se ha mandato a quel paese i "critici del rock" avrà avuto le sue buone ragioni! un motivo in più per volergli bene
:-)
uno dei miei primissimi dischi fu "Thick as a brick", che era appena uscito: la copertina era un autentico giornale, un quotidiano. Non ce l'ho più perché all'epoca facevo molti scambi, poi me ne sono pentito.
Non è che mi piaccia proprio tutto dei Jethro Tull, anzi ho molte riserve (moltissime) però "Stand up" continuo ad ascoltarlo e riascoltarlo, e mi sembra sempre nuovo.
Anche per me "Stand up" è il più bello. Gli altri sono un po' ...manieristici, freddi.
p.s.
Invidiami pure, te lo concedo, visto che io,"Thick as a brick", ce l'ho :)
per chi non lo sapesse, "copertina come un quotidiano" significa che si poteva aprire e sfogliare, con molte pagine. Poi la storia che c'era su non era gran cosa, mi ricordo che ci ho imparato un po' di inglese perché volevo capire cosa c'era scritto - almeno a questo è servita
Le tre copertine più strane che ho visto: Thick as a brick dei J.Tull, il primo Banco del Mutuo Soccorso, Bark dei Jefferson Airplane. Poi, forse Sticky fingers (l'originale aveva una vera cerniera) dei Rolling Stones.
Specialmente il primo Banco, era bello ma non si sapeva mai dove metterlo!
:-)
(però era bello, "ed ora - si è seduto il vento...")
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