Una pagina famosa, che rileggo sempre volentieri.
Jean Renoir, da «La mia vita e i miei film»
ed. Marsilio (capitoli III e IV)
A mio padre piaceva dipingere i miei capelli. Questa predilezione per i miei boccoli dorati che mi scendevano fino alle spalle mi faceva disperare. A sei anni, nonostante i pantaloni, parecchia gente mi prendeva per una bambina. Per strada i ragazzini mi perseguitavano coi loro frizzi, chiamandomi «signorina» e chiedendomi dove avessi lasciato le sottane. Aspettavo con impazienza il giorno in cui sarei entrato al collegio Sainte-Croix il cui regolamento esigeva una pettinatura più conforme all'ideale borghese. Con mio grande dispiacere mio padre continuava a spostare la data di accesso, che per me significava il felice abbandono di quell'ornamento pilifero. Devo aggiungere che l'«istruzione» gli faceva orrore, al punto da approvare i ragazzi che scappavano scavalcando il muro del collegio. Il Sainte-Croíx gli piaceva per i suoi grandi giardini. La qualità dell'aria gli pareva più importante della qualità dei professori di matematica. (...)
Una mattina come un'altra mio padre dichiarò che mi voleva fare un ritratto. Mi misi a protestare. Tirai fuori che mi faceva male una gamba e per provarlo mi misi a zoppicare ostentatamente. Ma mio padre si era messo in testa di dipingermi e tutta la gente di casa, perché non venisse disturbato nel suo progetto, cercava di persuadermi. A un tratto Gabrielle ebbe un'idea. Io avevo un cammello che adoravo, non un vero cammello ovviamente, un cammello giocattolo, grande come una mano, che non veniva dall'Africa ma da un negozio di rue d'Amsterdam, vicino alla stazione Saint-Lazare. Gabrielle, tra un mio singhiozzo e l'altro, mi propose: «Lo sai, dovresti fare un vestitino al tuo cammello. Fa freddo, tra poco viene l'inverno. Il tuo cammello ha assolutamente bisogno di un vestito». L'idea mi affascinò. Mi sedetti davanti al cavalletto di mio padre e cominciai a cucire. Renoir col terrore che aveva per tutti gli strumenti taglienti o appuntiti si mostrò per un momento inquieto. Mentre incominciava a dipingere ripeteva: «Cadi su un ago che ti entra in un occhio e resti cieco per tutta la vita». Ma quella mattina i miei capelli avevano dei riflessi particolari che suscitavano il suo interesse, così dimenticò assai presto il pericolo degli aghi e si perdette nel suo dialogo con il modello. Risciacquando il pennello in un bicchiere di trementina ripeteva tra sé: «Un po’ d'oro». Capii che si trattava dei miei capelli e un po' alla volta l’idea di essere cinto d'oro prese il sopravvento sugli inconvenienti del mestiere di modello. D'altra parte, rispetto ai figli e le mogli di altri pittori, io ero un privilegiato: Renoir non esigeva l'immobilità assolluta. Ho ancora l'impressione che anzi la temesse.
(pagine 20-21)
Il regno di mio padre era un regno mobile. La ricerca di una luce diversa spingeva spesso Renoir a cambiare luogo di residenza. Così io sono stato di volta in volta un bambino borgognone che arrotava le «erre», un parigino con la erre moscia, e un meridionale dalle esclamazioni sonore.
Uno scenario che mi influenzò molto fu una villa vicino a Grasse che mio padre aveva preso in affitto durante l'inverno del 1900. Il proprietario di quella casa aveva la passione delle piante tropicali; il giardino pareva fosse stato disegnato da Rousseau il Doganiere. Da lì a immaginare che un luogo simile fosse popolato di leoni, di tigri e di serpenti, c'era solo un passo.
Avevo visto più volte una lucertola verde che veniva a godersi l'umidità del giardino. Ingrandito cento volte, quel rettile poteva fornire alla mia immaginazione un coccodrillo accettabilissimo. Gabrielle era estasiata: la sua grande passione erano i leoni, ma dove si trovano i coccodrilli si possono incontrare anche i leoni. Mi ero talmente abituato alla vicinanza del «crocó», nome che avevamo dato alla lucertola, che mi misi a collezionare rettili.
Avevo una gabbietta di vetro, costruita dal figlio del proprietario che faceva lavori di falegnameria, tutta piena di lucertole, bisce, salamandre. Le facevo dormire nella mia stanza e ne avevo sempre una addosso, nascosta sotto la camicia. Questo provocò un penoso incidente che non ho più dimenticato.
Stavamo tornando a Parigi in treno, io, Gabrielle, mio padre e mia madre. A Saínt-Raphael venne ad aggiungersi a noi un'inglese molto magra. Non smetteva un attimo di fissare i miei capelli biondi.
«Che bella bambina! Che bei capelli!» diceva, con un forte accento. Questi attestati di ammirazione mi provocavano le famose arrabbiature intime che cercavo di placare ripetendomi: «Io sono un bambino. Sono un bambino». Una lucertola che mi stavo portando a Parigi sbucò con la testa fuori dal suo nascondiglio, una blusa alla marinara di cui ero molto fiero: non ci sono ragazze in marina. A quella vista l'inglese si mise a gridare con una voce stridula. Renoir cercò invano di calmarla. Lei si precipitò in corridoio e ritornò insieme al controllore. Il funzionario si fece consegnare la lucertola. Me la prese dalle mani senza nessuna delicatezza. La pelle di una lucertola è molto fragile e il contatto di una mano grossolana deve risultarle doloroso. Il controllore senza pietà gettò il mio piccolo amico fuori dal finestrino. L'inglese rassicurata si sistemò in un angolino, insensibile alle mie lacrime, e si mise a leggere la Bibbia. (...)
(pagine 23-24)
Qualche volta andavo a giocare coi ragazzini del vicinato. Uno di loro mi chiese: «Tu fumi?». Credendo di essere furbo, risposi che fumavo sigarette di cioccolato. «Eh, sei un coglione, tu», mi disse.
(pagina 26) (da Jean Renoir, La mia vita e i miei film, ed. Marsilio)
(nelle immagini, due dipinti di Renoir padre e Renoir figlio in La regola del gioco, insieme a Paulette Dubost)
giovedì 28 giugno 2012
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2 commenti:
Bellissimo pezzo, hai fatto bene a pubblicarlo. Ho ancora negli occhi il riflesso rosso dell'oro dei capelli del piccolo Renoir. Non deve essere facile avere per padre un pittore!
questi sono proprio i ricordi di un bambino...ma Jean Renoir era così, lo si vede anche nei suoi film.
:-)
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