Non è che numeri. Ecco cos'è tutta la musica a pensarci bene. Due moltiplicato per due diviso per un mezzo fa due volte uno. Vibrazioni: quelle sono accordi. Uno più due più sei fa sette. Fai quel che ti pare coi giochi di prestigio delle cifre. Si scopre sempre che questo è uguale a quello, tutto è calibrato come quel tale che calibra il camino del crematorio del cimiterio. Non si accorge che sono in lutto. Incallito: non pensa che al suo stomaco. Musimatematica. E tu credi di sentire le voci eteree. Ma supponiamo che ti dica qualcosa come: Marta, sette volte nove meno x fa trentacinquemila. Sgonfierebbe tutto. È per via dei suoni è.
Per esempio lui ora sta suonando. Improvvisando. Potrebbe essere qualsiasi cosa finché non si sentono le parole. Bisogna aprir bene le orecchie. Tenderle. Comincia tutto bene: poi si sentono accordi un po' fuori squadra: ci si sente un po' sperduti. Dentro e fuori da sacchi, sopra botti, attraverso fili spinati, corsa agli ostacoli. Il tempo fa il motivo. Tutta questione dell'umore. Però sempre piacevole sentire. Meno le scale ascendenti e discendenti, ragazzine che imparano. Due insieme vicine nella casa accanto. Dovrebbero inventare dei pianoforti muti per questo. Blumenlied
che comprai per lei. Per il nome. Lo suonava lentamente, una ragazza, la sera che tornai a casa, la ragazza.
(James Joyce, Ulysses, traduzione di Giulio de Angelis, pag.256 edizione Oscar Classici Mondadori da me comperata il giorno 11.03.1976).
L’aria citata da Joyce, a dire il vero più sottintesa che citata, viene dall’opera “Martha” di Friedrich von Flotow, contemporaneo di Verdi. L’originale (1847, come il Macbeth) è in tedesco, ma la si ascolta quasi sempre in italiano e la versione tedesca è rarissima: la melodia è molto bella, molto semplice, ed è da sempre il cavallo di battaglia di tutti i più grandi tenori. Ovviamente, Joyce sa benissimo che l’autore di “M’apparì” non è italiano: sono i suoi personaggi che non lo sanno o che se lo sono dimenticato. (La differenza fra quello che pensa l’autore e quello che dicono o pensano i suoi personaggi è una cosa che sfugge troppo spesso, non solo a noi lettori ma anche ai critici letterari...). L'altro brano citato è il "Blumenlied" di Schubert, una canzone per canto e pianoforte: il cognome di chi sta parlando è "Bloom", stesso significato e stessa pronuncia del tedesco "Blum" ma scritto all'inglese.
Il 16 giugno, per i lettori di James Joyce, è un giorno particolare: fu in questa data, nel 1904, che lo scrittore irlandese – nato nel 1882 - ebbe il primo appuntamento con quella che poi sarebbe diventata sua moglie. In seguito, Joyce scelse questa data per farvi svolgere l’azione di “Ulysses”.
Con Joyce mi sono trovato subito bene: avevo 16-17 anni, studiavo da perito chimico e avevo sentito dire che Ulysses era difficilissimo. Quindi, era una sfida e dovevo provarci: l’unica difficoltà seria era la storia dell’Irlanda, non ne sapevo nulla di nulla (continuo a saperne poco ancora oggi) ma per il resto sono arrivato subito fino in fondo senza troppi problemi. Di seguito, avrei saccheggiato la Biblioteca di Como in cerca di testi di Joyce e su Joyce, credo di averli presi in prestito tutti; il punto di partenza per questa mia passione era stato ovviamente Italo Svevo; e siccome Joyce non faceva parte del programma, dal punto di vista del rendimento scolastico non ne ebbi grande giovamento. Però sono contento di essere ancora qui a leggere Joyce, con tutto il tempo che è passato. Ogni volta è come ritrovare un vecchio amico.
E’ per questo motivo, per la facilità del mio incontro con Joyce, che mi stupisco sempre quando trovo chi ne parla come di un autore ostico e illeggibile: magari è gente che ha fatto il liceo classico, ma non capiscono Joyce. Possibile? A dire il vero, non è questo che mi stupisce (capita a tutti di non essere in sintonia con questo o quello), quanto il fatto che ci sia chi se ne vanta, come ha fatto di recente Michele Serra su Radio 24 (ne ha parlato lui stesso nella sua rubrica su Repubblica, il mese scorso). Voglio dire: a me è capitato con Proust, ho letto Joyce e Musil, Goethe e Borges, ho letto due volte per intero “Guerra e Pace”, ho letto il Don Chisciotte tutto di fila e con grande piacere, ma con Proust mi sono fermato presto; lo ritengo un mio limite, e me ne dispiace molto. Non andrei mai in giro a vantarmi di non aver letto un autore che so essere importante, eppure c’è chi lo fa: non solo Serra, ma anche molti altri. Temo che sia un po’ l’effetto Fantozzi: "io non ci ho capito niente e quindi è una cazzata". Paolo Villaggio lo faceva dire a Fantozzi riguardo a uno dei punti fermi nella storia del cinema, "La corazzata Potiomkin" di Sergej Eisenstein (se non capite perché è un capolavoro è solo perché siete un po' ignoranti) c’è chi lo ripete in altri ambiti; io continuo a pensare che se non capisco un capolavoro la colpa è solo mia, che dovrei studiare di più, o che magari devo solo aspettare il momento giusto. Insomma, ho imparato ad avere rispetto anche per quello che non capisco: che sia merito della mia formazione da chimico?
Ma, insomma, oggi è tornato il 16 giugno: buon “Bloomsday” a tutti.
Turno di notte - Carmen Giardina
6 ore fa
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