Arrivato ai trent'anni, sul posto di lavoro, mi sono poi stupito nel vedere che operai nella stessa condizione di mio padre (tre figli, moglie casalinga o operaia) facevano invece una vita senza sacrifici; c'era sempre da stare attenti al bilancio economico, ma la situazione era ben diversa da quella che avevo vissuto io. Negli anni '80 e '90 gli operai facevano studiare i figli (e le figlie) fino alla laurea, si comperavano la casa, facevano lunghe vacanze con tutta la famiglia. Cosa c'era di diverso, che cos'era successo?
E' stato qui, con questa domanda, che
ho iniziato a conoscere lo Statuto dei Lavoratori, e a ragionare sul
cosiddetto "autunno caldo" che lo ha preceduto. Lo Statuto
dei Lavoratori, oggi quasi del tutto cancellato, è contemporaneo
alla grande riforma del Servizio Sanitario Nazionale, che è oggi in
serio pericolo di cancellazione. Da una parte, più soldi e più
tutele per i lavoratori; dall'altra, il non doversi più preoccupare
per le spese in caso di malattia. Due riforme che hanno, di fatto,
cambiato la nostra società.
Ho letto e ascoltato molte critiche
riguardo a quel periodo. Le ascolto ancora oggi, il '68 come rovina
della società, lo strapotere dei sindacati, i danni per l'economia.
Ci sono delle buone ragioni in queste critiche, ma io mi guardo
intorno, penso alla vita che ho vissuto, alle persone che ho
conosciuto, a com'era la vita prima e dopo lo Statuto dei Lavoratori,
e a come siamo messi oggi, quando lo Statuto non c'è più. Riguardo
all'Economia, per esempio, negli anni '80 e '90 l'impresa italiana
andava molto bene: siamo stati stabilmente nel novero delle prime
potenze industriali al mondo, il made in Italy era molto apprezzato,
e se siamo ancora invitati ai vari G7, G8, G10, lo si deve a quel
periodo e non certo all'Italia attuale. Tutto questo è successo con
le paghe e gli stipendi derivati dall'autunno caldo; il che dovrebbe
far pensare.
Quanto allo "strapotere dei sindacati",
anche qui ci sarebbe molto da dire; ma i sindacati hanno potere
quando l'economia va bene, se non ci sono soldi e se le fabbriche
chiudono il sindacato può solo gestire l'emergenza e la
disoccupazione, finché glielo lasciano fare.
Negli ultimi vent'anni
ho ascoltato spesso ripetere che le fabbriche sarebbero fuggite
all'estero se non si fosse toccato lo Statuto dei Lavoratori, che
avremmo perso di competitività, che il costo del lavoro era
eccessivo; gli elettori hanno votato a destra per tutti questi anni,
le leggi sul lavoro sono state profondamente modificate, ma le
fabbriche hanno delocalizzato lo stesso e siamo entrati in
recessione. Non ho mai ascoltato un dibattito serio su questi temi,
tutti ripetono le stesse cose ma pochi sottolineano il vero motivo di
tutte queste delocalizzazioni: fino al 1989, fino al
crollo del Muro di Berlino, l'Italia era protetta. Il Muro di Berlino
e la Cortina di Ferro spingevano gli Usa e i tedeschi a investire da
noi, ad aprire fabbriche da noi. Finito questo sistema che si reggeva
dal 1945, e che è durato cinquant'anni, la situazione ha cominciato
a cambiare. Finite le guerre in Jugoslavia (guerre terribili) la
situazione dell'Est Europa si è normalizzata e molte fabbriche sono
andate lì. Non tanto per il costo del lavoro più basso, ma perché
in molti Paesi dell'Est Europa c'era una lunga tradizione
industriale, si pensi alla Zeiss in Germania (Germania Est), alla
meccanica in Cecoslovacchia, una tradizione pari alla nostra e che
era stata interrotta dal dominio dell'URSS, ma che si poteva
riprendere. Prima del crollo del Muro di Berlino, le aziende
americane venivano invitate dal governo a investire in Italia, o in
Francia, e comunque non potevano andare nei paesi del Patto di
Varsavia; dopo il 1995 il governo americano non ha più posto limiti
e ognuno è andato dove gli faceva più comodo. L'Italia è diventata
marginale anche per questo, forse soprattutto per questo.
Intanto, e non è una nota di colore ma
un dato di fatto, in Italia c'è stato un boom ma nella vendita di
prodotti di lusso. Pagando meno i dipendenti (il costo del lavoro!)
c'è chi si è comperato la Ferrari o lo yacht. Sembra una
barzelletta dei tempi andati, invece è la verità. C'è anche chi ha
venduto l'azienda di famiglia e sta facendo vita beata, poi a
chiudere lo stabilimento sarà una multinazionale e si deplorerà il
fatto, ma la multinazionale (appunto) va a produrre dove vuole, si
prende il marchio storico e va a produrre magari in Turchia (il
cioccolato, per esempio).
Non sono un economista e mi fermo qui,
ma qui nel mio piccolo continuo a pensare che quelli che se la
prendono con lo Statuto dei Lavoratori (e con il PCI, con i
sindacati, eccetera) probabilmente non vogliono che i figli degli
operai possano studiare, e auspicano che si torni alla situazione
descritta da Dickens a metà Ottocento, con il lavoro minorile, le
donne che partoriscono in fabbrica, gli incidenti mortali sul
lavoro... E' una mia constatazione, a me piace ascoltare quello che
si dice e ho ascoltato per davvero discorsi di questo tipo.
A quel tempo non ce ne siamo resi
conto, ma la mia generazione ha vissuto un periodo felice che
purtroppo è finito; oggi c'è il precariato, la disoccupazione
mascherata da impieghi a termine breve o brevissimo e con paghe che non bastano nemmeno a pagare la luce e il gas. Si fa passare per privilegio ciò che è stato ottenuto con
grandi lotte e sacrifici personali (molti in quelle lotte hanno perso il posto di
lavoro, e magari anche peggio: non sono stati dei regali). Penso che
la situazione sia ormai irrimediabile. Nel futuro, e direi anche nel
presente, pagare le tasse universitarie o le prestazioni sanitarie
sarà un lusso riservato a pochi. Ai figli dei ricchi e dei
benestanti, non alle "classi inferiori"; ed è quello che
volevano le classi dominanti, in modo più o meno mascherato. Gli
elettori, dal canto loro, si sono fatti abbindolare con discorsi sui
rom o sugli immigrati (eccetera), ma la vera posta in ballo era
quella.
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