martedì 10 novembre 2009

Dichiarazione d'intenti

Delio Tessa, grandissimo poeta milanese, scrisse questa sua "dichiarazione d'intenti" nel 1932: allora bastava scendere in strada, o aprire una finestra, per sentire parlare il dialetto milanese. Alle volte anche lo scendere in strada era superfluo: anche nelle famiglie benestanti, come quella dell'avvocato Tessa, il milanese era la lingua parlata comunemente. Io ho fatto in tempo a conoscere molte di quelle antiche e care persone, ed è per questo che amo moltissimo i miei dialetti - anche se in casa mia si è sempre parlato italiano.
Dico, e sottolineo, "i miei dialetti": plurale, perché di dialetto mica ce n'è uno solo. Purtroppo, l'uso del dialetto è stato oggi sporcato da persone poco attente (per non dir di peggio) e mi tocca vergognarmi di essere lombardo-veneto, cosa che non avrei mai pensato potesse succedere. Se va avanti così, tra un po' mi toccherà prendere le distanze anche da Parma e dall'altra metà della mia famiglia...Oggi capisco cos'hanno sempre provato i siciliani: a loro basta aprire bocca per sentirsi dare del mafioso, oggi tocca a me di sentirmi dare del razzista. Eppure Milano, la Milano di Delio Tessa, di Gino Bramieri, di Giovanni Trapattoni, era tutta un'altra cosa: come è potuto succedere? A che punto abbiamo sbagliato strada?

Delio Tessa individua una delle caratteristiche fondamentali dei dialetti: che non stanno mai fermi, ogni giorno cambiano, mal sopportano di essere scritti e organizzati in dizionari, men che meno si insegnano a scuola. I dialetti devono essere nell'aria, si ascolta e si ripete: come il canto degli uccelli.
Ma già, dove sono finiti gli uccelli di Milano? Sono rimasti solo i piccioni, e qualche passero mendicante; più qualche imboscato clandestino, che però sta ben attento a non farsi notare troppo.
Tempi duri, per i dialetti.

Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla.
Squisitamente parla ancora un suo mutevole linguaggio sempre ricco, sempre vario, sempre nuovo come le nuvole del cielo. Non è morta la lingua milanese come nessun dialetto morrà. Creda pur taluno, sordo e cieco, che decadenza vi sia perché le vecchie forme, le usate espressioni più non trova, ma decadenza non v'è.
In perfetta aderenza con la necessità contingente, la parlata del popolo è simile all'architettura; a nuova vita, nuovo stile; chi non comprende, chi si lamenta, è un sorpassato.
Ho fatto - senza visibili frutti - del dialetto che parla il sobborgo uno studio paziente ed ora qui del mio lavoro vorrei almeno alcuni punti fugacemente notare.


Fonetica.
Suprema legge ! Tutto è musica nella sincera espressione popolaresca. All'esigenza, vorrei dire all'intransigenza della fonetica di volta in volta tutto è sacrificato: grammatica, ortografia, metrica e vocabolario. Mi occorse di chiedere il significato e l'origine di alcune di quelle oscure parole a chi le usa e forse le inventa. Incertezza o silenzio. Mi son convinto così che alle fonti spesso basta un suono a rendere un'idea, tanto basta che i più efficaci fra essi sono intuiti, se non compresi, dai più.


Vocabolario.
Ho pochissima simpatia per questo libro. A chi scrive in lingua non pure, ma ai cultori di lettere dialettali sembrami il vocabolario un inciampo al cammino. Direi quasi che il vocabolario sta alla lingua come la codificazione al diritto, e l'uno e l'altra tendono a fermare ciò che è in perpetuo movimento. Crea la gente parlando i suoi vocaboli di tempo in tempo.
Le più belle, le più efficaci parole rimangono, se ne vanno le altre. Il popolo non teme i neologismi; li ama, li cerca, li forma. Una lingua senza nuovi apporti è un organismo che vive di cellule morte.
Osservo pure che il dialetto desidera alcune volte parole non sue. Ricordo il Porta, il grandissimo Porta. Nel Marchionn che è la poesia ove la lengua del verzée più genuinamente riluce, non si perita l'autore di usare il vocabolo "alba" , parola italiana e non milanese. Si è perché il poeta, contro ogni remora puristica, voleva in quel punto una tinta chiara che solo la parola "alba" gli diede.


Ortografia.
Non è fissa, ma mobile. Arriva persino all'apparente assurdo di presentare la medesima parola scritta in maniera diversa secondo la necessità del contesto. Esempio: "gh'hin" : ci sono, la vedo scritta per solito con una sola n , ma nella frase "gh'hinn minga" la vedrei con due a dar forza alla negazione.
Lo stesso dicasi per gli accenti. Essi in alcuni casi hanno soltanto valore di notazione musicale. Esempio: la particella «sù » è accentata in questa frase: « cascell sù. » Non lo è in quest'altra: « che intrattanta in su on lett ».
Nel primo caso c'è un'accentazione fonica che batte sul monosillabo « sù » ed è accentato ; nel secondo per contro la voce cade sulla parola « lett » e l'accento scompare.


Grammatica.
Scrittor dialettale alle fonti rimango. Penso ai fanciulli che parlano. Che è mai la grammatica per essi? E pur, come parlano! Verranno le regole, poi, standardizzando gli eloqui, normali e piatti.
Bella la costruzione milanese latineggiante col verbo in fine! L'oggetto, ciò che subito interessa, apre la frase e il verbo è posto qua o là negli angoli morti o in fondo. Tutto sembra essere disposto in scala di valori, dal più al meno importante.


Metrica.
Trovo un verso del «Purgatorio» : « Gloria in excelsis tutti Deo ». Perché questo endecasillabo sia veramente un endecasillabo le tre vocali i-a-i del « Gloria in » devono prendere una sillaba per ciascuna, il che, in vero, potrebbe sembrare un po' troppo. Eppure la grandiosità del canto è tutta lì, è in quello scoppio del « Gloria » , è nella declamazione larga di quelle tre parole. Non mi spaventa dunque un ottonario che zoppica su sette piedi...
...e le tira... ...e le tira... la Morte trascina la sua vittima così, e il verso pure va strascicato come l'immagine.


Assonanze e rime.
Il popolo nelle sue cantilene e le une e le altre musicalmente dispone. Ecco l'annuncio della primavera:
O sô o sô ve' fora
con la campana d'ora
col campanin d'argent...
...sô ...sô... fà bell temp!
Nei primi due versi, nell'immagine calda, nella rima esatta vedo la luce! negli altri due, nell'assonanza vaga, alita la brezza primaverile. ...comme un vent frais dans un ciel clair... ...Baudelaire!...


Parole ripetute.
Come la gente parlando ripete e insiste nella parola che assomma il concetto! M'è sembrata questa una delle più spiccate caratteristiche del discorrer popolare. C'è un leit-motiv nel periodo che sempre ritorna, c'è un chiodo che si vuol mandar sempre più addentro!
Confesso, ma non pentito, mi preparo all'anatema della comunione sacrilega...
Delio Tessa, febbraio 1932. (Dichiarazione, per L'è el dì di mort, alégher!)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

vedi ultima edizione poesie del tessa, hoepli editore

Giuliano ha detto...

...qui se cominciamo con gli anonimi sari sü tücc...