domenica 26 luglio 2020

Oltre il muro

Il primo post di questo blog, del 9 ottobre 2009,
era dedicato a Delio Tessa.
Lo riporto qui come chiusura, De là del mur...

Voeurom on coo de gatt
per podé liberass
di penser...andà in oca,
voeurom desmentegass
del Roveda, di Edison
che tracolla... la gent
balenga, i scagg de guerra
tutto òo lassaa de là.
(vogliamo aver la testa come un gatto, per poterci liberare dai pensieri...andare in oca. Vogliamo dimenticarci del Roveda, dell’Edison che tracolla... la gente balenga, le paure della guerra, tutto lasciar di là) (scagg si pronuncia con le g dolci, è il plurale di "scaggia", paura, una parola che oggi usano ormai in pochi)
Una mattina di un giorno di festa, nel 1913, l’avvocato milanese Delio Tessa prende la sua bicicletta nuova e va a fare un giro, un giro piuttosto lungo che lo porta all’estremo nord della provincia di Milano, che più o meno corrisponde all’estremo sud dei miei giri personali in bicicletta (non sono mai stato un gran ciclista).
A un certo punto, Tessa si trova davanti a un gran muro, che riconosce: è il muro dell’allora manicomio di Milano, il proverbiale Mombello, vicino a Limbiate. E, di là del muro, cantano. E’ una sorpresa inaspettata: «al de là del mur, cantàven...»

Da quel giro in bicicletta nasce “De là del mur”, poesia scritta nel 1913 e rielaborata (o, meglio, completata) molti anni dopo, nel 1931. Le riflessioni di Tessa sono molto belle e molto profonde, ma non posso riportarle qui per esteso, la poesia completa è troppo lunga, ed è in dialetto milanese: per chi volesse leggerla per intero, rimando ai due volumi pubblicati una decina d’anni fa da Einaudi a cura di Dante Isella.
Foeura de Porta Volta
de paes en paes
a la longa di sces
pedalavi in la molta
de la Comasina vuna
de sti mattinn passaa:
me seri dessedaa
con tant de grinta, in luna
sbiessa e in setton sul lett
pensavi: «cossa femm
incoeu?...l’è festa... andemm...
(fuori di Porta Volta, di paese in paese, lungo le siepi, pedalavo nel fango della Comasina, una di queste mattine passate. Mi ero svegliato col broncio, con la luna a rovescio, e seduto sul letto pensavo: cosa facciamo oggi? andiamo, via, fuori da queste federe!)
“Di là del muro cantavano”: canzoni semplici, rime e filastrocche popolari, ma cantavano. E c’era una grande serenità.

Allora i matti facevano paura, il manicomio era ancora quello ottocentesco, non solo Basaglia ma anche Freud e Jung erano figure ancora lontane, che cominciavano appena a farsi conoscere. Il manicomio incuteva terrore solo a nominarlo, ma ecco che davanti a quel muro spaventoso il poeta Delio Tessa sente nascere quasi un’invidia per quella condizione, vorrebbe anche lui “avere un coo de gatt”, la testa (cioè i pensieri) di un gatto, ignorare gli scandali finanziari dell’epoca (il Roveda, l’Edison), dimenticarsi della possibilità di una guerra devastante, e anche della “gente balenga” che sembra approvare guerre e violenze. Ma tutto questo non è possibile, rimonta sulla bicicletta e inizia il percorso verso casa, verso Milano. L’arrivo nella grande città è annunciato dalle locandine dei cinema: danno un film western, “Trader Horn”.
Il milanese era la lingua materna dell’avucàtt, che era persona di grande e raffinata cultura: ma allora il dialetto lo parlavano tutti, ed era ancora una lingua viva. Delio Tessa è uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, la sua scrittura deve molto alla grande musica, ed è un peccato che siano ormai in pochi a conoscerlo.
E’ un peccato, soprattutto, che chi oggi si erge a paladino del ritorno dei dialetti ne ignori completamente il nome. Ma ignorare i nomi dei grandi è una caratteristica di questi nostri strani tempi: e pensare che Milano, il dialetto milanese e quello di area padana, sono stati di recente insigniti del maggiore premio letterario a livello mondiale: il Premio Nobel.

Grief in my soul


Quando l'amico Larry Beckett scrive il testo di "Grief in my soul", pensando forse a un blues classico, Tim Buckley non trova di meglio che cantarlo in maniera allegra, e così doveva essere, anche perché i due (era il 1966, più o meno) erano così giovani che andavano ancora a scuola.
qui per l'ascolto

Grief In My Soul
(Larry Beckett - Tim Buckley)
I've got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got heartaches, I got stingin' water fallin' out of the sky.
I got a long lost lover, got a reason to die.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got sorrow.
I'm in a storm that'll spare no travelin' man.
I fear tomorrow.
Got a love that died long before it began.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
Got a cold chain.
I got rain fallin' on my head from above.
I got a bad pain.
I got a gal don't know the meaning of love.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got heartaches, I got stingin' water fallin' out of the sky.
I got a long lost lover, got a reason to die.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.

sabato 25 luglio 2020

Certe cose si pagano


«Quello lì è un rabbino», mi dice M. con una smorfia: e intende dire che è tirchio. Le lascio finire la frase, poi le chiedo per favore di non usare più quella parola in quel senso. Mi risponde stupita e anche un po' irritata, "ma se lo dicono tutti!". Io le rispondo che non l'avevo mai sentita usare in quel modo, e che so da tempo che un rabbino è di regola una persona di grande cultura, quantomeno in ambito religioso. Un altro ricordo recente: qui su questo blog hanno avuto un discreto successo, che dura da ormai più di dieci anni, i miei post sul "piccolo chimico", cioè la spiegazione, o il tentativo di farlo, di cosa contengono i prodotti che usiamo ogni giorno, dal cibo al detersivo. Tutto bene sul blog, dunque, ma quando ho provato a raccontare qualcosa (ma poco, sia ben chiaro) a un parente di mio cognato, incontrato al supermercato, quello mi ha guardato con aria spaventata e poi le volte successive è svicolato via vedendomi da lontano. L'espressione era proprio quella: "questo pazzo mi sta attaccando un bottone terrificante, dove posso fuggire?". A parte la questione delle simpatie personali (liberissimo di non trovarmi simpatico), era proprio l'argomento a dar fastidio: la composizione degli alimenti. Mettersi a ragionare di chimica e di alimentazione, quando al mondo esistono la formula uno, l'Inter, le canzoni di Claudio Baglioni, Valentino Rossi e Vasco Rossi? Suvvia, solo un pazzo potrebbe farlo. 
Anche un altro dei miei argomenti su questo blog, "l'entomologo-storie naturali", continua ad avere un discreto numero di lettori (soprattutto quelli sulle effimere e sul cervo volante, per chi fosse curioso) ma nella mia vita quotidiana mi tocca da sempre ascoltare aggressioni più o meno isteriche sul ribrezzo per le lucertole e per qualsivoglia altro animale che troviamo in casa, e mi guardano appunto come se solo un pazzo potesse interessarsi queste cose, come se non fossero mai esistiti Fleming, Pasteur, Lorenz, Linneo, gli scopritori della malaria e della penicillina e dei vaccini, queste cosette qui insomma, pazzi che invece di andare a ballare al Tana o a prendere il sole a Rimini studiavano muffe, zanzare, zecche, e quant'altro. Un altro dei miei argomenti preferiti, Charles Darwin e i suoi viaggi e le sue osservazioni, incontra sempre lo stesso muro - non mi ci sono mai rassegnato, ma il muro alzato ogni volta dall'ignoranza sul DNA e su Darwin è mostruoso e temo inespugnabile. Abbiamo gli ogm e l'analisi del DNA è ormai cosa comune, ma quando fai il nome di Darwin spuntano i risolini dei furbi che sanno tutto di tutto: "c'è tutto on line" è stata l'ultima risposta, e qui ho smesso di importunare il prossimo con i miei libri.
Sono solo alcuni esempi di una vasta "crosta" più o meno sotterranea che ho incontrato da sempre, e che ho sempre trovato molto ruvida e molto dura da constatare. Insomma, è come l'asfalto quando vai in bicicletta: sai che c'è, sai che fa male, ma prima o poi è inevitabile caderci sopra.
Quando ho provato a fare questi discorsi, mi hanno quasi sempre risposto "ognuno ha i suoi gusti, non possiamo essere tutti uguali" e che io devo essere più tollerante, come se la Storia dell'Arte e le bestemmie che sento salire dal bar fossero la stessa cosa, come se il quartetto d'archi che ascolto adesso potesse dare fastidio a chi ascolta il rap a diecimila watt di potenza qui sotto la finestra. E ancora: dirsi cristiani ma non leggere il Vangelo, oppure leggere il Vangelo e non capirci nulla magari sapendolo a memoria, come Trump con la Bibbia o come i seguaci di monsignor Lefebvre; pensare che il buce mettesse in galera i criminali (non è vero, in galera metteva De Gasperi) e gridarlo scandendo le parole, dando per scontato che tutti i presenti siano d'accordo. In campo musicale, trovare una ragazza che ti piace, ma poi viene a sapere che sei uno "che gli piace la lirica", che brutta cosa; conoscere e riconoscere il Don Giovanni (compreso il vero significato della parola) e il Rigoletto, e rendersi per questo antipatico; ti guardano come se fossi malato, indegno, peccato, un così bel ragazzo però gli piace Beethoven.
Nel calcio, nei rutti, nel razzismo, nel qualunquismo del "sono tutti uguali", nei bar e nelle discoteche (dove sono finiti i bar di Guccini e di Nanni Svampa? i bar di oggi sono molto differenti), nella movida e nel rumore (io non reggo il rumore), avrei avuto una vita molto più facile se fossi stato così. Un'altra ragazza, che abitava non distante da Maranello, continuava a portare il discorso sulla Ferrari, ma a me non interessa la formula uno e lo sapeva da subito, ma se non ti interessa la formula uno sei strano e quindi ci tornava sopra spesso. Potrei andare avanti per ore, ma non è questo il discorso che mi interessa fare e poi si tratta di piccole cose che si potevano superare (non sempre).
Il discorso che mi interessa fare è questo: ogni tanto leggo l'elogio dei libri, amici blogger ne scrivono, ma anche i libri sono visti male. Leggi tanti libri, hai tanti libri in casa e tanti dischi, e prima o poi la dovrai pagare, soprattutto se non sono libri qualsiasi (magari Primo Levi, o Dostoevskij, o un libro di chimica) e capisci cosa c'è scritto e te ne ricordi.

Un ricordo d'obbligo, a questo proposito, è per Umberto Eco: non l'ho mai conosciuto di persona ma io ho cominciato a pubblicare su internet proprio sulla sua rivista, Golem, quasi vent'anni fa. Eco è stato un pioniere di internet, ne ha scritto molto e ci sono molti articoli e filmati dove ne parla; ne era entusiasta e ne immaginava gli sviluppi possibili con entusiasmo. Ma poi come è andata? Golem era una bella rivista, ben fatta, con collaboratori eccellenti (non io, che ero poco più che un clandestino a bordo - ringrazio la redazione per il passaggio), ma non esiste più da anni. Non si può più nemmeno fare come si faceva con le riviste, andare a cercarle sulle bancarelle o in biblioteca: il mensile Golem è stato proprio cancellato, annichilito, dimenticato. Dimenticato con tutti i suoi articoli e tutti i suoi collaboratori, come se non fosse mai esistito; internet è andato da un'altra parte, quella che vediamo oggi, e il computer (oggi lo smartphone) è diventato di tutto, tranne che quello che auspicava Umberto Eco. E' diventato ufficio (pagare le bollette, home banking, pagare i biglietti, fatturare, eccetera) ma soprattutto internet è diventato il regno della pubblicità, delle spiate, delle fake news, dell'odio e delle cazzate. Svanito il bel sogno di Umberto Eco? Direi proprio di sì, certe cose te le fanno pagare e se ami i libri non sei una persona normale. Golem, dispiace dirlo, è stato un esperimento fallito: troppa qualità, troppe informazioni, troppo umorismo "da intellettuali", meglio una birra con cui farsi due rutti, e poi postare il video su un canale di grande successo.
Per chiudere, una notizia dalla Svizzera di un paio d'anni fa: fu negata la cittadinanza locale a un serio professionista straniero, residente da decenni nel comune, perché "non partecipa alle feste di paese". E' una persona quieta, schiva, non solo non dà nessun fastidio ma paga le tasse in maniera cospicua: perché mai negargli la cittadinanza? Essere quieti e riservati, dunque, è un grave difetto, lo è anche il non bere birra all'Oktoberfest, il non amare i cantanti di Sanremo, il non sapere chi ha vinto in formula uno, eccetera eccetera.

PS: un altro modo per rendersi antipatici, nella mia vita, è stato questo: "abbiamo scelto apposta la domenica così va bene a tutti", mi dicono parlando di una festa, ma io la domenica lavoravo, c'è tanta gente che lavora di domenica, non è che lo si faccia apposta - ma poi sei bollato, non vai alle feste, stai per conto tuo, eccetera. Eh sì, certe cose te le fanno pagare: fin da quando, da bambino, me ne stavo in disparte per leggere un libro. Sono cose che non si fanno, non fatelo fare ai vostri figli.

venerdì 24 luglio 2020

El nost Milan


El nost Milàn
"El nost Milàn" di Carlo Bertolazzi è un altro dei grandi spettacoli del Piccolo Teatro, tra i più famosi e celebrati; mi chiedo se oggi sarebbe possibile rimetterlo in scena e direi proprio di no, ma mi auguro di sbagliarmi. Rimetterlo in scena, intendo, non in una qualche maniera più o meno raffazzonata ma con quella perfezione e con quella forza: era uno spettacolo avvincente, con attori straordinari in ogni ruolo, anche il più piccolo e apparentemente insignificante.
Carlo Bertolazzi, nato in provincia di Cremona, visse fra il 1870 e il 1916; giovanissimo, a 23 anni, scrive "El nost Milàn" (La nostra Milano) che ha subito grande successo. Il testo è diviso in due parti, "La povera gent" e "I sciôri"; Strehler mise in scena solo la prima parte, dove una ragazza (Nina) è innamorata del clown di un circo, ma poi cede al Togasso, un mezzo delinquente, un duro insomma. Con il Togasso le cose non andranno bene, e per salvarla dovrà intervenire il padre di lei, Peppòn, in un finale molto drammatico.
Rileggendo il testo mi sono accorto di aver dimenticato molte cose, troppe, di questo spettacolo; oltretutto, non è disponibile neppure una registrazione in video e questo è un vero peccato. Di "El nost Milàn", come a tutti credo, mi sono rimasti nella memoria soprattutto Tino Carraro, che in scena era un titano, e Mariangela Melato. Tino Carraro aveva interpretato il Togasso nelle recite degli anni '50, e in questo nuovo allestimento aveva invece la parte del padre; il Togasso era affidato a Franco Graziosi, un altro grande attore, fedelissimo di Strehler e del Piccolo Teatro. Mariangela Melato non era soltanto brava (questo me lo aspettavo), era anche molto bella e Strehler sottolineava con sapienza con le luci e le ombre la sua figura, difficile dimenticarsela. Avrei rivisto e riascoltato Mariangela Melato qualche anno dopo, senza Strehler, in una (per me) deludentissima Medea; dimostrazione di quanto conti il regista in uno spettacolo.
"El nost Milàn" fa parte del percorso sui dialetti, e sulle lingue, fatto da Giorgio Strehler: comprende il teatro di Goldoni (Il campiello, Le baruffe chiozzotte), e un po' tutte le sue lingue madri o di adozione, dal tedesco al veneziano (Strehler era triestino di nascita), dal francese (memorabile il suo Corneille, "L'illusion comique") al milanese imparato in via Rovello, sede del Piccolo Teatro.
"El nost Milàn" andò in scena al Teatro Lirico, vicino al Duomo, che purtroppo è chiuso da un'eternità. Io ero presente il 3 febbraio 1980, e oltre alla bellezza dello spettacolo ricordo ancora una ragazza che era seduta vicina a me, con la quale ho fatto una lunghissima chiacchierata. Poi ci siamo persi di vista, la persona che l'aveva portata a teatro (un parente, penso fosse lo zio) se la portò via di corsa. Non era ancora il tempo dei telefonini e degli smartphone, insomma; e chissà cosa sarebbe successo, di sicuro ci saremmo lasciati un contatto, si pensava che ci sarebbe stato tempo ma così non è andata.
Con "El nost Milàn" termina la mia fase "di apprendistato" sul teatro; ero già stato alla Scala, per il "Boris Godunov" di Mussorgskij diretto da Claudio Abbado, e ormai sapevo muovermi per conto mio. Il mio interesse principale sarebbe diventata la musica, ma le chiavi del teatro ormai le avevo in mano, e sapevo come muovermi; ma solo da spettatore, sia ben chiaro.



martedì 21 luglio 2020

Super eroi


I fumetti della Marvel li trovavo dal barbiere: mi ci portava mio papà perché ero ancora piccolo, poi ho imparato ad andarci da solo e dovevo star lì anche se mi facevano aspettare un'ora, così mi ero fatto una cultura in merito. Erano nuovissimi, belli, colorati, disegnati bene, con trovate strane sul tipo del supereroe cieco che aveva un costume che usciva dall'anello, e altro ancora. Tutto bello, ma dopo un po' me ne ero stancato e mi sarei portato volentieri un libro da casa. Non è che ci fosse molto, in quei fumetti, dopo la trovata iniziale: anche i Fantastici Quattro, finita la sorpresa, rivelava poi trame appena passabili. L'impressione è che non sapessero più cosa fargli fare dopo i primi tre o quattro episodi, eppure andavano avanti e vanno avanti ancora oggi, con sequel, film, remakes dei remakes.
A casa mia circolavano altri fumetti, più vecchi o più recenti: tra i più vecchi, ristampati su qualche giornale recente come "Il Giorno dei Ragazzi" ricordo ancora L'ombra che cammina, cioè L'Uomo Mascherato, o magari Mandrake e Flash Gordon, roba degli anni '30. Erano fatti meglio, la sceneggiatura era migliore, le trame più belle, e anche i disegni mi piacevano molto di più. Sul Corriere dei Piccoli avrei poi trovato i primi episodi di Corto Maltese (Una ballata del mare salato) e prima ancora Hugo Pratt vi pubblicava riduzioni da Stevenson (Il ragazzo rapito). Insomma, tutta un'altra cosa; e con Hugo Pratt cominciavo a conoscere e a riconoscere Dino Battaglia e Sergio Toppi, e Mino Milani come sceneggiatore; tutto un mondo che mi si apriva davanti. Anni dopo, avrei cominciato a leggere Linus. Oggi quasi nessuno parla più di Battaglia, di Toppi, di Milani; si pubblicano i manga, in libreria trovo le graphic novel, li sfoglio un po' ma poi mi stanco e ritorno a pensare a me stesso bambino davanti ai fumetti Marvel, seduto dal barbiere in attesa del mio turno. Ricordo anche i fumetti Lancio Story: dopo averne letti un po' (io leggevo qualsiasi cosa) avevo imparato a lasciarli perdere, sembravano fotoromanzi.
I disegni erano e sono ancora belli, sono le storie che mi sembrano ripetitive e poco originali. Mi fa un po' impressione anche vedere ancora nuovi episodi di Tex, per esempio. Tex Willer viene pubblicato da settant'anni, cosa ci sarà ancora di nuovo? Ne sto guardando un disegno recente, e Tex non è più Tex, è diventato un mascellone con sospetti di culturismo e chissà cosa ci sarà ancora da raccontare, su Batman, su Tex, su Spiderman, sui Fantastici Quattro, su Dylan Dog e su Martin Mystere. A voi piacciono queste cose? Fate pure, io torno indietro di cent'anni e qualcosa, e apro ancora una volta le porte a Winsor Mc Cay e a Little Nemo. Sono sempre le stesse tavole, ma ogni volta c'è l'entusiasmo della prima volta che le ho viste. (sono sicuro che da qualche parte c'è ancora qualcuno così grande, è impossibile che non ci sia; il difficile sarà trovarlo, o trovarla, visto lo stato dell'editoria italiana).

sabato 18 luglio 2020

Disimparare


"Sto disimparando tutto quello che ho imparato", mi dice l'amico Bellini, un anno dopo aver cambiato lavoro. Si aspettava qualcosa di meglio, ma più che altro il nuovo posto di lavoro gli permetteva di fare meno chilometri e di stare più vicino alla famiglia. Ma il suo non è un caso isolato, è anzi un lamento molto comune: molti di noi si trovano a lavorare in ambienti che richiedono solo un lavoro meccanico e ripetitivo, spesso noioso e burocratico, che con la chimica ha poco a che fare.
E la verità pratica è forse proprio questa: che per lavorare in un'industria chimica aver studiato chimica non è affatto necessario. Spesso basta il buon senso, l'aver vicino un collega che ti dà le dritte giuste; a volte anche questo è superfluo, non necessario: basta una buona raccomandazione, e puoi anche andare in cima al mondo, saldo come una roccia, con tutta la tua ignoranza (quella di partenza e quella guadagnata sul campo). (A proposito, che la raccomandazione valga solo nei posti statali è un altro mito da sfatare: c'è dappertutto e funziona sempre.)
Molto utile è per esempio aver fatto l'idraulico, e averlo fatto bene: chi guarda un impianto chimico da fuori vedrà subito di quanti tubi e valvole e raccordi è fatto, e magari se ne spaventerà. E fondamentale è la caldaia, che produce vapore; i distratti lo scambiano per fumo, ma è acqua allo stato gassoso, cioè vapore. Siccome il vapore è caldo, serve a molti scopi: per evitare che i composti che gelano (cere, grassi) otturino le condutture, oppure per scaldare e pulire le autoclavi.
Ma nemmeno tutte queste cose sono sufficienti ad avere un buon posto di lavoro, o a far carriera. Non conta nemmeno l'impegno, a molti sembrerà assurdo ma invece è spesso così.
Sembrerà strano, ma non sono queste le cose che contano, nel lavoro: conta di più saper dire di sì al capo, per esempio. Tanto, il fesso che lavora anche per te, e magari correndo, lo si troverà sempre.

giovedì 16 luglio 2020

L'operaio stupido e il capo a piede libero


La Ditta distribuisce un libro a fumetti, con suggerimenti per evitare gli infortuni. E' un buon provvedimento, e mi complimento per l'idea; e siccome mi piacciono i fumetti gli do subito un'occhiata.
La veste grafica non è male, e i disegni sono simpatici e ben sceneggiati. Certo non è qui che si possono pretendere finezze, ma il livello è discreto. Soddisfatto del primo esame, e anche della legatura robusta, mi appoggio al muro e leggo con più attenzione.
Nel primo episodio (sono episodi di una pagina ciascuno) un operaio un po' distratto si versa addosso qualcosa. Morale: bisogna stare attenti. Nel secondo episodio, passa una bella ragazza e un operaio, che vuol dimostrare quanto è forte, prova a sollevare un peso eccessivo, rimediando un forte mal di schiena. Nel terzo episodio, un operaio decisamente stupido... Ma è tutto così questo libro? Vado avanti, e la musica non cambia; va avanti così fino alla fine, con operai stupidi o distratti che fanno errori che si potrebbero evitare: e così è la vita, in effetti.
Ma io chiudo il libro e vado a guardare le referenze: non conosco gli autori ma in copertina c'è anche l'approvazione dei sindacati, tutti e tre uniti come capita raramente di questi tempi. Non so bene se tutto questo è giusto, ma appoggio con delicatezza il libro su un tavolo e riprendo a lavorare, ma guardandomi intorno con attenzione. Chissà mai che non ci sia un operaio stupido anche qui nei dintorni, che potrei farne le spese in prima persona...

PS: Rileggo questo mio appunto dopo quasi vent'anni, e ripenso all'acciaieria Thyssen di Torino, alle sentenze su Porto Marghera, a Casale Monferrato e all'infinita serie di rimandi sulla lavorazione dell'amianto, alle discariche abusive in Lombardia (in Lombardia, tra Pavia e Cremona)... Anche in ferrovia, la colpa - si sa - è sempre del macchinista, o dell'addetto agli scambi. I capi la fanno sempre franca, anche questo si sa: se sono stupidi o impreparati, c'è sempre qualcuno che li protegge.