« (...) Una abilità analoga aveva un altro veronese, questa volta nel Cinquecento, Gerolamo Fracastoro, nell'assaggiare le urine. I medici di allora procedevano a questo esame "di laboratorio" per diagnosticare un diabete (urine dolci) o una nefrite (urine acide) e poiché in una occasione gli presentarono un campione di urine di mulo al posto di quelle del paziente, su cui fece una precisa diagnosi e fu ovviamente ridicolizzato, si esercitò sulle urine di ogni specie animale diventando super esperto. (...)»
(da un articolo su Lombroso dello psichiatra Vittorino Andreoli, Corriere della sera 26 luglio 1992)
Questo aneddoto, di per sè divertente, mi è rimasto impresso anche per un altro motivo: spesso la gente scambia gli studiosi (e gli analisti di laboratorio) per degli indovini o dei maghi veggenti. Invece chi fa un’analisi, prima di cominciare, ha bisogno di indicazioni chiare e di sapere il maggior numero di informazioni possibile: poco tempo fa le cronache riportarono una storia analoga a quella di Fracastoro, ma in chiave moderna. All’analista (in questo caso un laboratorio clinico) diedero del tè spacciandolo per urina; il laboratorio fece le analisi richieste e consegnò il referto con i dati richiesti, senza accorgersi di niente. La storia finì sui giornali, perché per questo motivo era stata organizzata, ma la sua conclusione potrebbe sorprendere: il laboratorio fece causa agli autori dello scherzo, e vinse la causa. Il laboratorio aveva ragione, e la cosa può stupire solo chi ignora cosa fa un analista di professione: fa le analisi che gli vengono richieste. Infatti, se ci fate caso, nella maggior parte dei casi le analisi richieste sulle urine sono l’aspetto, il peso specifico, il pH, l’eventuale presenza di tracce di sangue, e poco più. Non viene richiesto di identificare le urine, perché si dà per scontato che di urine si tratti. Il peso specifico può variare (se si beve molta acqua, le urine saranno simili all’acqua), il pH è quasi sempre leggermente acido (come quello del tè), eccetera. Nel tè, ovviamente, sarà ben difficile trovare tracce di sangue... Inoltre, identificare che cos’è un campione porta via molto tempo, e si rischia – se il campione è di piccola quantità – di distruggerlo completamente con analisi che possono essere evitate.
Anche a me era capitato qualcosa di simile, in fabbrica. Siccome un prodotto presentava un aspetto poco consono a quello consueto, avevo chiesto al capoturno: “Sei sicuro di aver messo la materia prima giusta?”, perché sapevo per esperienza diretta che era facile confondersi. La risposta era stata: “Che analista sei tu se mi vieni a chiedere cosa c’è dentro”. E io avevo spiegato: l’unica analisi richiesta era il residuo fisso, il “secco” come veniva comunemente chiamato. E cioè: si fa evaporare l’acqua, e si pesa quanto rimane, facendo poi il rapporto percentuale rispetto al peso originario. Di più non serviva, secondo le istruzioni ricevute dall’alto: si dava per scontato che nel prodotto finissero sempre gli ingredienti giusti, e non qualcosa di più o meno simile. In questo caso, dato che l’aspetto fisico non era quello richiesto, furono necessarie analisi più approfondite.
Se su quelle false urine fosse stata richiesta la glicemia, per esempio, il dubbio sarebbe sorto immediatamente...ma nessuna persona di buon senso, oggi, andrebbe in giro ad annusare o ad assaggiare le urine; tantomeno in un laboratorio clinico.
E’ per motivi come questi che, dopo aver letto questo ritaglio di giornale, ho messo immediatamente Gerolamo Fracastoro nella mia galleria di personaggi notevoli; se lo merita perché di sicuro con quegli assaggi ha potuto fare diagnosi migliori, e magari salvare qualche persona - e poi, con quel nome e cognome da cartone animato, come fa a non essere almeno un po’ simpatico?
(la foto qui sotto viene dal film “Le cronache di Narnia”: non c’entra niente ma questi castori, marito e moglie, sono per me un’attrazione irresistibile – e infatti non sono riuscito a resistere...).
Fabrizio RAVANELLI
17 ore fa
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