Non ho mai avuto una gran simpatia per Adriano Sofri, ma più passa il tempo e più mi capita di pensare a lui. Ricapitolando velocemente, per chi non ne sapesse nulla: il giornalista e scrittore Adriano Sofri è in prigione, dove sta scontando una pena legata all’omicidio del commissario Calabresi, compiuto negli anni ’70. Il colpevole vero di quell’omicidio non fu mai trovato, le accuse a Sofri nascono dalle rivelazioni di un pentito (nel 1988, molti anni dopo il fatto) ma soprattutto dai suoi articoli scritti contro Calabresi sul quotidiano “Lotta Continua”, dove Sofri attaccava con estrema durezza il commissario, ritenuto responsabile di fatti accaduti nell’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana, a Milano. Si andava molto lontani nel tempo: la strage di Piazza Fontana è del dicembre 1969, l’omicidio Calabresi è del maggio 1972.
A Sofri viene contestata, da sempre, l’istigazione all’omicidio del commissario Calabresi. Le responsabilità ci sono, gli articoli scritti in quegli anni ci sono rimasti, ma questi articoli, da soli, non bastano a giustificare una condanna. Cosa dovremmo fare, allora, con tutte queste istigazioni a delinquere, all’odio razziale e alla lotta armata, che sono ormai questione quotidiana da molti anni? E’ giusto che Sofri stia in galera e che invece sieda in Parlamento chi elogia il pazzo neofascista che a Oslo ha appena ucciso 90 persone? E’ giusto che siano in Parlamento, e per di più ministri, persone che dicono di avere centinaia di fucili pronti a marciare su Roma? Con ogni probabilità si tratta soltanto di dichiarazioni rese con estrema leggerezza (almeno, lo spero...), ma i pazzi ci sono, sono anche armati, e bisognerebbe stare attenti a quello che si dice, soprattutto quando ci sono centinaia o migliaia di persone che ci ascoltano. Quante volte anche noi, con leggerezza, abbiamo detto nella nostra vita quotidiana che “a quello là bisognerebbe dargli una lezione”? Bisogna stare attenti, alle volte basta poco per essere fraintesi; e se si parla davanti a centomila persone invece che a due o tre, il pericolo diventa molto grande. A me sembrano banalità, purtroppo mi tocca constatare che invece gli sprovveduti (spero sempre che siano davvero sprovveduti...) esistono anche tra chi fa della politica o della comunicazione il suo mestiere. Un caso clamoroso è quello successo negli USA nel gennaio 2011: la deputata Gabrielle Giffords, vittima di una campagna violenta scatenata contro di lei dalla candidata alla presidenza Sarah Palin. La Giffords fu ferita gravemente, ed oggi è viva per miracolo. Nell’attentato sono morte 5 persone, altre sono rimaste ferite; eppure la Palin, e altre persone come lei nelle tv e sui giornali, continuano a rimanere al loro posto, in Parlamento e in posti di responsabilità (anche dirigere un giornale è un posto di responsabilità, così come avere una rubrica in tv).
Per questi motivi, pur non provando particolare simpatia per lui, esprimo la mia solidarietà ad Adriano Sofri: che ha le sue colpe ma, in fin dei conti, era solo uno che scriveva su un piccolo giornale. Qui stiamo parlando di ministri, parlamentari europei, candidati alla presidenza USA, magari anche preti e cardinali; e stiamo parlando dell’oggi, non di quarant’anni fa.
Che fare? Io non posso farci niente, ma proprio niente. Per queste persone non ho mai votato, ma me le sono ritrovate lo stesso al governo. E’ per questi motivi che prendo un libro dallo scaffale: c’è chi dice che i romanzi non servono a niente, ma c’era aveva già descritto tutte queste cose, e si era ancora nell’Ottocento.
Fiodor Dostoevskij, da “I fratelli Karamazov” (parte quarta libro 11 cap.7)
...portava gli occhiali, cosa che Ivàn Fiodorovic non gli aveva mai visto prima. Questo particolare insignificante sembrò anzi raddoppiare la stizza di Ivàn Fiodorovic: « Un essere simile e porta anche gli occhiali! ». Smerdjakòv alzò la testa lentamente e fissò il visitatore attraverso gli occhiali; poi se li tolse con calma e si sollevò un po' sulla panca, ma senza molta premura, anzi con una mossa pigra, tanto per osservare la cortesia strettamente necessaria, della quale proprio non si può quasi fare a meno. Tutto questo Ivàn lo intuì in un lampo, e con una sola occhiata abbracciò e notò ogni cosa, soprattutto notò lo sguardo di Smerdjakov decisamente maligno, scortese e perfino arrogante: « Che vieni a fare? - pareva dire. - Ci siamo già intesi su tutto, perché sei ritornato? ». Ivàn Fiodorovic si dominò a stento.
- Fa caldo qui da te - disse, restando in piedi e sbottonandosi il cappotto.
- Levatevelo pure - rispose Smerdjakòv.
Ivàn Fiodorovic si tolse il cappotto e lo buttò su una panca, prese una sedia con le mani che gli tremavano, l'accostò alla tavola con un gesto rapido e si sedette. Smerdjakòv si era già rimesso a sedere sulla sua panca, senza attendere che si sedesse Ivàn.
- Prima di tutto, siamo soli? - domandò Ivàn Fiodorovic in tono duro e violento. - Non ci sentono dall'altra stanza?
- Nessuno sentirà nulla. L'avete visto da voi: c'è il corridoio.
- Ascolta, mio caro: quando uscivo dalla tua camera all'ospedale, che stupidaggine dicesti? Che se io non avessi contato della tua bravura nel simulare gli attacchi epilettici nemmeno tu avresti riferito al giudice tutta la nostra conversazione di quella sera sul portone? Cosa significa quel “tutta”? Che volevi dire? Era una minaccia, per caso? Ho forse fatto un complotto con te, io? Devo forse aver paura di te?
Ivàn Fiodorovic aveva parlato in tono furioso, evidentemente voleva fargli capire che sdegnava qualsiasi perifrasi e qualsiasi approccio, e che giocava a carte scoperte. Gli occhi di Smerdjakòv ebbero un lampo cattivo; quello sinistro si contrasse e anche lui dette subito la sua risposta, sia pure con la solita aria misurata e contenuta: « Vuoi che parliamo chiaro? Bene, eccomi qua!», diceva la sua faccia.
- Io intendevo dire, e perciò pronunziai quella frase, che voi, sapendo in anticipo dell'assassinio di vostro padre, lo avevate abbandonato al suo destino, e perché la gente non pensasse male dei vostri sentimenti, e non pensasse, magari, anche a qualcos'altro, vi promisi di non dir nulla alle autorità.
Smerdjakòv parlò senza fretta e con evidente padronanza di sè, ma nella sua voce si sentiva ormai una nota dura e decisa, aveva un tono maligno e insolente, di sfida. Fissò Ivan Fiodorovic con aria arrogante, e l'altro per un momento non ci vide più:
- Come? Cosa? Ma hai la testa a posto?
- Perfettamente a posto.
- Ma che forse io “sapevo” allora dell'assassinio? - gridò infine Ivàn Fiodorovic, e picchiò un pugno sulla tavola. - Che significa “anche a qualcos'altro?”. Parla, farabutto!
Smerdjakòv taceva e continuava a osservare Ivàn Fiodorovic con lo stesso sguardo insolente.
- Rispondi, canaglia puzzolente, che significa “anche a qualcos'altro?” - urlò Ivàn.
- Ebbene, con quel “qualcos'altro” ho inteso dire che anche voi, forse, avevate molta voglia che vostro padre morisse.
Ivàn Fiodorovic saltò in piedi e gli dette un pugno nella spalla con quanta forza aveva, tanto che l'altro andò a sbattere contro il muro. La sua faccia si bagnò subito di lacrime: « Vergogna, signore, picchiare un uomo debole! » disse Smerdjakòv, poi si coprì gli occhi col suo fazzoletto di cotone azzurro a quadretti, tutto moccioso, e cominciò a piangere in silenzio.
Passò quasi un minuto.
- Basta! Smettila! - esclamò, infine, lvàn Fedorovic in tono imperioso, rimettendosi a sedere. - E non mi far perdere la pazienza!
Smerdjakóv si levò dagli occhi il suo straccetto. Ogni linea del suo viso accigliato esprimeva rancore per l'offesa patita.
- Sicché, furfante, credevi che volessi uccidere mio padre in accordo con Dmitrij?
- Io i vostri pensieri non li conoscevo - rispose Smerdjakòv con aria offesa - e appunto perciò vi fermai quella sera sul portone, quando entraste, perché volevo tastarvi proprio su questo punto.
- Tastare che cosa? Che cosa?
- Ma appunto per vedere se volevate o no che vostro padre fosse ammazzato al più presto possibile.
Quello che esasperava Ivàn Fiodorovic più di tutto era il tono insolente che Smerdjakòv si ostinava a non voler abbandonare.
- L'hai ammazzato tu! - esclamò a un tratto Ivàn.
Smerdjakòv fece un sorriso sprezzante.
- Che non sia stato io lo sapete benissimo anche voi. E credevo che di questo un uomo intelligente non ne volesse più nemmeno parlare.
- Ma perché, perché ti venne un simile sospetto nei miei riguardi?
- Semplicemente per la paura, come voi già sapete. Ero in uno stato tale che tremavo sempre di paura e sospettavo di tutti. Mi proposi di tastare anche voi, perché, pensavo, anche voi avevate lo stesso desiderio di vostro fratello, allora era la fine di tutto, e sarei stato spacciato anch'io.
- Senti un po', due settimane fa non parlavi così.
- Io intendevo dire la stessa cosa, quando parlai con voi all'ospedale, ma credevo che avreste capito anche senza tante parole superflue, e che, da persona intelligente, non desideraste una spiegazione diretta.
- Guarda un po'! Ma rispondimi, rispondimi, io insisto nella mia domanda: perché, come, precisamente, ho potuto ispirare alla tua anima vile un sospetto così infame?
- Quanto a ucciderlo, questo voi non l'avreste mai fatto, e non lo volevate neanche fare, ma quanto a desiderare che qualcun altro lo ammazzasse, questo sì, lo desideravate.
- E con che calma me lo dice, con che calma! Ma perché lo dovevo desiderare, per quale motivo?
- Come per quale motivo? E l'eredità? - replicò subito Smerdjakòv in tono velenoso, anzi, quasi vendicativo. – Dopo la morte del vostro genitore a voi tre fratelli vi potevano toccare sui quarantamila rubli per uno, e forse anche di più, ma se Fiodor Pàvlovic avesse sposato quella signora, Agrafena Aleksandrovna, lei dopo il matrimonio si sarebbe fatta mettere tutto il capitale in testa sua, perché non è mica stupida, e allora a voi tre non sarebbe rimasto nemmeno un rublo alla morte di vostro padre. E che ci mancava per arrivare al matrimonio? Ci mancava un pelo: bastava che quella signora gli facesse cenno col dito mignolo, e lui si sarebbe precipitato in chiesa di corsa, con la lingua penzoloni.
Ivàn Fiodorovic faceva degli sforzi penosi per dominarsi.
- Bene - disse alla fine - vedi che non sono saltato in piedi, non ti ho picchiato, non ti ho ammazzato. Continua: allora secondo te io avevo destinato proprio mio fratello a quello scopo, contavo proprio su di lui?
- E come avreste potuto non contarci? Se l'ammazzava lui, perdeva tutti i diritti nobiliari, il titolo e il patrimonio, e l’avrebbero deportato. Allora la sua parte di eredità restava a voi e a vostro fratello Aleksèj Fiodorovic in parti uguali, vi sarebbero toccati non più quarantamila rubli per uno, ma sessantamila. Certo che contavate su Dmitrij Fiodorovic, non c'è dubbio!
- Be', ne sto sopportando parecchie da te! Ascolta, farabutto: se io avessi contato su qualcuno, di sicuro avrei contato su te, e non su mio fratello, e ti giuro che ebbi anzi il presentimento di qualche infamia da parte tua... mi rammento benissimo che ebbi quella sensazione!
- Anch'io lo pensai, per un minuto solo, che voi contaste su di me - disse Smerdjakòv con un sorriso beffardo. - E così voi allora vi siete smascherato ancora di più di fronte a me, perché se avevate il presentimento di qualche cosa da parte mia e partivate lo stesso, era proprio come se mi diceste: puoi ammazzare mio padre, non te lo impedirò.
- Farabutto! Tu la intendesti così! (...)
(Fjodor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, parte quarta libro XI capitolo VII, ed. Sansoni 1969, traduzione Pina Maiani ed Ettore Lo Gatto)
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