Georges Perec, da "La vita istruzioni per l’uso"
Un quadernetto parzialmente riempito di note spesso incomprensibili era scampato al fuoco. Alcuni studenti dell'Istituto di Etnologia si accanirono a decifrarle e, aiutandosi con le rare lettere che Appenzzell aveva inviato a Malinowski e a qualcun altro, con informazioni provenienti da Sumatra e testimonianze recenti raccolte presso coloro ai quali aveva, in occasioni eccezionali, riferito di sfuggita qualche particolare della sua avventura, riuscirono a ricostruire per sommi capi quello che gli era successo e ad abbozzare uno schematico ritratto di quei misteriosi "Figli dell'Interno".
Dopo parecchi giorni di cammino, Appenzzell aveva finalmente scoperto un villaggio Kubu, una decina di capanne su palafitte disposte a cerchio sul ciglio di una piccola radura. Il villaggio gli era sembrato all'inizio deserto poi aveva scorto, sdraiati su stuoie sotto la gronda dei capanni, parecchi vecchi immobili che lo guardavano. S'era fatto avanti, li aveva salutati secondo l'usanza malese con il gesto di sfiorargli le dita prima di portarsi la mano destra sul cuore, e aveva deposto accanto a ciascuno di loro un sacchetto di tè o di tabacco in segno di offerta. Ma quelli non risposero, non chinarono il capo né toccarono i doni. Poco dopo, dei cani si misero ad abbaiare e il villaggio si popolò di uomini, donne e bambini. Gli uomini erano armati di lance, ma non lo minacciarono. Nessuno lo guardò, né parve accorgersi della sua presenza.
Appenzzell trascorse vari giorni nel villaggio senza riuscire a mettersi in contatto con i suoi laconici abitanti. Esaurì in pura perdita la piccola scorta di tè e tabacco; nessun Kubu - nemmeno i bambini - prese mai uno di quei sacchetti che a sera i temporali quotidiani avevano già reso inservibili. Tutt'al più poté guardare come vivevano i Kubu e cominciare a mettere su carta quello che vedeva. La sua osservazione principale, così come la descrive brevemente a Malinowski, conferma che gli Orang-Kubu sono proprio i discendenti di una civiltà evoluta la quale, cacciata dai suoi territori, si sarebbe poi sepolta nelle foreste dell'interno regredendovi. Così, pur non sapendo più lavorare i metalli, i Kubu avevano ferri alle lance e anelli d'argento alle dita. Quanto alla lingua, era molto simile a quelle del litorale e Appenzzell la capì senza troppe difficoltà. Quello che lo colpì maggiormente, fu l'utilizzazione di un vocabolario estremamente ridotto, che non superava poche decine di parole, e si domandò se per caso, a imitazione dei loro lontani vicini, i Papua, i Kubu non avessero volontariamente impoverito il loro vocabolario, sopprimendo delle parole ogni qualvolta nel villaggio un membro moriva. Una delle conseguenze di questo fatto era che la stessa parola indicava un numero di oggetti via via più grande. Per cui Pekee, la parola malese che significa caccia, voleva dire indifferentemente cacciare, camminare, portare, la lancia, la gazzella, l'antilope, il maiale nero, il my'am, specie di spezia molto piccante abbondantemente usata nella preparazione di alimenti carnei, la foresta, l'indomani, l'alba, eccetera. Come pure Sinuya, parola che Appenzzell accostò alle parole malesi usi, la banana e nuya, la noce di cocco, indicava mangiare, pasto, zuppa, zucca, spatola, stuoia, sera, casa, vaso, fuoco, selce (i Kubu accendevano il fuoco sfregando due selci una sull'altra), fibula, pettine, capelli, hoja' (tintura per i capelli basata sul latte di cocco mischiato a terre e piante varie), eccetera.
Se, di tutte le caratteristiche della vita dei Kubu, questi aspetti linguistici sono i più noti, è perché Appenzzell li descrisse minutamente in una lunga lettera al filologo svedese Hambo Taskerson che, conosciuto a Vienna, lavorava allora a Copenaghen con Hjelmslev e Brondal. Fece anche notare, al volo, che tali caratteristiche potrebbero adattarsi benissimo a un falegname occidentale che servendosi di strumenti menti dal nome molto preciso - truschino, incorsatoio, sponderuola, pialla, bedano, barlotta, eccetera - li chiedesse al suo garzone dicendogli semplicemente: "Passami il coso". (...)
(Georges Perec, da “La vita istruzioni per l’uso”, pag.120 ed. BUR-Rizzoli 1989)
Due note mie personali:
1) questa storia della tribù che si allontana sempre più verso l’interno man mano che viene rintracciata e raggiunta mi ricorda molto “Lord Jim” di Joseph Conrad, anche per l’ambientazione malese o indonesiana; ma mi ricorda anche molto la mia attuale situazione personale. Non so cosa sia successo agli Orang-Kubu (orang in malese significa “uomo”), ma per quanto mi riguarda lo spazio per tirarmi indietro ormai è finito.
2) Non sono sicuro che il libro di Georges Perec mi piaccia per davvero, ogni volta che lo sfoglio vi trovo sempre molti difetti; detto questo, devo però confessare che “La vita istruzioni per l’uso” è esattamente il libro che avrei voluto scrivere io.
giovedì 20 dicembre 2012
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2 commenti:
Perec è uno dei miei scrittori preferiti: nei suoi libri si trova di tutto, la noia e il piacere puro della lettura, l'ironia e la disperazione, il gusto di raccontare e la voglia di osservare. Schematico e confuso, semplice e complicato, come la vita vera. Solo che nella vita non ci sono istruzioni per l'uso
la vita è un puzzle...
:-)
uno dei miei libri preferiti
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