L'altro giorno in tv ho sentito ripetere il lamento sui troppi bambini (e bambine) che fanno poco sport, e che spesso sono anche obesi. Seguivano disquisizioni che ho già ascoltato tante volte, ma mancava una voce, la mia. La mia e quella di tanti altri e altre: perché dunque non abbiamo fatto sport, noi mollaccioni? Allora racconto un po' cosa succede, perché anche oggi le cose non sono poi tanto cambiate rispetto alle mie esperienze.
Un collega sul lavoro era venuto a
cercarci: mettiamo su una squadra di calcio, venite anche voi? Io e
il mio compagno di quel turno avevamo messo le mani avanti: sapevamo
di non essere mica tanto bravi, ma l'amico aveva insistito, era tanto
per divertirci, non eravamo noi gli unici scarsi, anzi. E così siamo
andati a giocare anche noi: è stato divertente e avrei continuato
volentieri perché ero in buona forma fisica (mi ispiravo a Francesco
Morini, roccioso stopper anni '70: l'unica cosa che potevo fare,
tenere a bada gli attaccanti avversari mentre tutti gli altri
andavano avanti in cerca di gloria), ma già dalla seconda partita
sono cominciati ad apparire scarpini chiodati, parastinchi, portieri
con i guanti, roba da professionisti. Così ho lasciato perdere, e mi
è dispiaciuto. Da allora, non ho più giocato al pallone e se mi
invitavano dicevo no grazie.
Qualcosa di simile mi è accaduto in
vacanza, o con le gite in montagna: fiato a parte (quello si fa, con
un po' di esercizio) c'erano sempre quelli che partivano a manetta,
una gara a chi arrivava primo, mentre a me piaceva guardarmi in giro.
La montagna risvegliava in me il naturalista che non sono mai
diventato (ahimè, mea culpa) e mi fermavo volentieri a guardare le
piante, l'erba, le chiocciole, gli insetti, i sassi sul percorso. A
Creta, nelle gole di Samaria (un bel posto, chi c'è stato lo sa) mi
era successa la stessa cosa: "voi siete gli ultimi, gli altri
sono già fuori" ci aveva detto sorridendo la guida. Già fuori?
Che cos'era, una corsa a premi? Era prestissimo, io sarei rimasto lì
anche la notte se avessi avuto una tenda... Andò a finire che
restammo fuori, fermi, più di un'ora ad aspettare il traghetto che
ci avrebbe riportati al pullman.
Ecco, questa storia dell'agonismo
presentato sempre come cosa positiva mi ha sempre disturbato. Ricordo
ancora il disagio dell'ora di educazione fisica, a scuola. Io non
sono mai stato agile, ero grande e grosso e facevo fatica a stare al
passo degli altri; mi piaceva correre, mi piaceva giocare a
pallavolo, ma mi hanno fatto passare la voglia molto presto. Col
tempo, finita la scuola, mi sono comperato una bicicletta e mi sono
iscritto a una palestra, e ho raggiunto dei discreti risultati.
Niente di trascendentale, sia ben chiaro, ma abbastanza per
raggiungere una buona forma fisica. Ho anche pensato, più di una
volta, che se mi avessero lasciato fare, non dico da solo ma senza
avere gente che mi urlava nelle orecchie, avrei anche imparato a
nuotare. E mi dispiace molto di non aver imparato, ho sempre
invidiato quelli che vanno in barca, al mare o sul lago.
E' stato così, vivendo in un mondo di
insegnanti di ginnastica un tantino fanatici (educazione fisica,
educazione motoria, fate voi) che non sono diventato un atleta. E'
più forte di me, quando mi obbligano a fare qualcosa, quando mi
gridano nelle orecchie, io mi fermo. L'ultimo di questo genere l'ho
trovato in quinta alle superiori: "la mia materia conta come le
altre, come chimica e matematica", permalosissimo. Il fatto è
che quando poi fai i colloqui per trovare un lavoro non ti chiedono
in quanto tempo fai i cento metri, ma la chimica e la matematica, o
la ragioneria (eccetera). Il mio professore era uno dei tanti
frustrati che vivono l'insegnamento come un ripiego; in seguito
sarebbe diventato famoso nell'ambiente professionistico e lo era già
stato in precedenza, ma si vede che in quel periodo si sentiva
davvero incompreso. Avere a che fare con gente come me, e come tanti
altri, figuriamoci, uno che aveva fatto le Olimpiadi...
Io avevo il fisico del lanciatore di
peso, ma mi si chiedeva di fare il salto in alto; ovvio che ne
uscissero delle brutte figure. Però mi ero impegnato, a un certo
punto saltavo gli ostacoli correndo; ma ormai l'implacabile
professore non mi guardava più, ero segnato, un lavativo da
compatire.
Che dire, è giusto che pratichi
l'agonismo chi ha voglia di provarci. Diventare professionisti e fare
dei record è una fortuna che capita a pochi e a poche, per tutti gli
altri basterebbe potersi mantenere in una buona forma fisica, e per
questo sarebbe importante avere insegnanti che sappiano distinguere
una persona dall'altra, e che soprattutto lascino in pace i sedicenni
e i diciottenni, già capaci di decidere sulla loro vita e di essa
responsabili. A me fanno impressione quelli che fanno gli ottomila in
mezza giornata (che senso ha?), o che prendono gli steroidi per
diventare mister muscolo a Cantù, o le ragazze che per correre la
mezza maratona a Orvieto si rovinano la salute imbottendosi di anti
infiammatori (che senso ha?).
Chiudo ripensando a un film famoso,
"Full metal jacket" di Stanley Kubrick. Quando uscì ero
ancora abbastanza giovane e mi ero riconosciuto nel protagonista
della prima parte, il soldato grande e grosso che non riusciva a
completare gli esercizi dei marines. Ricordo che un critico disse di aver riso di
cuore davanti agli sforzi del "grassone", ma il film
parlava del Vietnam e a quel tempo c'era ancora il servizio militare
di leva. Oggi è diverso, ma il soldato Pyle non aveva chiesto di
fare il soldato, era stato obbligato a farlo. Avere un sergente che
ti urla nelle orecchie è una cosa fastidiosa, così come avere un
professore di ginnastica che ti dà del lavativo e che volta la faccia dall'altra
parte quando ti impegni e comunque provi a migliorarti. Quando ero
uscito dal cinema, sulle note di "Paint it black" dei
Rolling Stones, mi ero detto che era stata una fortuna non avere
fatto il militare (ero molto miope, sulle dieci diottrie per ogni
occhio). Chissà che cosa avrei fatto, ventiquattro ore su
ventiquattro, per mesi, con uno che mi urlava nelle orecchie in quel
modo. E, per di più, con un fucile in mano.
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