E poi ci sarebbe l’Amleto: ma non c’è
verso di far scrivere Amleto al mio scanner. Ogni volta lo trovo
cambiato: Anileto, Amlieto, Amieto, Arileto, seguendo il vento che
spira da Nord-Nord Ovest. Ne escono tante cose strane, ma io ho avuto
un sobbalzo soltanto alla vista di “fragilità, il tuo nome è
Dorina”. Ma poi ho pensato che in fin dei conti anche questo ha un
senso, Amleto non lo direbbe mai ma perché Anileto non dovrebbe
dirlo? Può ben darsi che nell’Anileto una Dorina ci sia, noi non
lo sappiamo ma chi potrebbe negarlo?
Se veramente mi guardi e
non mi parli,
che sia per timidezza o
per errore,
(che con gli occhiali io
so che può succedere),
se veramente taci il tuo
tacere
collima poco con quel che
può piacere
a me o a qualsivoglia
altra persona.
Se veramente taci per
tacere,
ahimé dovrò cambiar
parere allora.
A questo punto anche la mia mente
comincia a ragionare come lo scanner, e i miei occhi a leggere come
lui. E’ così che scopro altre cose inaspettate: come la tigre dai
denti a spatola, presto estinta (un bel lapsus di quelli di una
volta, infine). Ma anche scrivere stroia invece di storia è un bel
refuso, molto significativo soprattutto di questi tempi (solo al pc
possono succedere queste cose)
E anche ricarica è una bella parola,
rica-rica; e Urani sono gli abitanti del cantone di Uri (lo dice la TSI); e il
verbo introiettare contiene una porcellina. E, a proposito: che
bestia sarà mai il gappotardo?
S’avanza lepido il
tranellopardo
(mi fa paura sol con lo
sguardo):
vive tranquillo al limite
estremo
del grande buco in cui
tutti cadremo,
e non è esotico e non ha
riguardo,
ride felice se caschi, io
temo...
Lo schiaffopardo, ben
assestato,
è per avere tu ritardato
con lenti riflessi la mia
risalita
con lievi eccessi la mia
riuscita
con dolci amplessi l’ora
che attendo
per rivedere infine
l’aurora;
ma aspetta, aspetta che
venga l’ora...
(che ben punisce chi non va in
galera!).
Trovo in una lettera (una mail, per la
precisione: posta elettronica) il signore che, con l’occasone, mi
saluta cordialmente. Raccolgo gli auguri, ma cosa sarà mai
l’occasone? Che si celi una minaccia dietro a tanta cordialità?
Che quel signore mi aspetti dietro un angolo, con l’occasone in
mano, pronto a darmelo in testa? O, invece, che attenti alla mia già
più che curva linea del ventre con un magnifico occasone, ripieno di
uvette e di canditi? (sarebbe anche un bel nome per un vino rosso:
“occasone”, come l’amarone, per un vigneto illuminato
dolcemente dalla luce del tramonto...).
Per veder bene ecco gli
occhiali inforca;
tra le sue mire sono le
rime ch'egli cerca -
ma non le trova e tira i
remi in barca.
E infine le pagine dei libri,
scansionate per portarne dei frammenti in un qualche scritto. E’
così che mi sono imbattuto negli artisti a cavallo. Gli artisti a
cavallo??? Ah no, ecco: “gli artisti a cavallo fra il XIX e il XX
secolo...”: bastava girare pagina, ma io non l’ho fatto.
E ringrazio ancora l’industriale che,
in un’intervista peraltro molto interessante, se ne esce con questa
frase: “Penso che noi sciupiamo in maniera incredibile. Rincorriamo
totem che ci fanno perdere le dimensioni e il valore delle cose...”.
Vedi cosa succede quando si parla: si dicono tante belle cose, e poi
ci si trova a rincorrere qualcosa che sta fermo. Rincorrere un totem?
Dev’essere un bello sport, ecco qualcosa che saprei fare anch’io.
Voluto ho essere io
cacofonico
voluto io essere ho
disarmonico
voluto mettere prosa
sinfonica
laddove versi et anco rime
abbondano;
voluto mettere io capri
con cavoli
et a merenda ancor
mangiare un polipo;
voluto fare qui quel che
mi garba
tenere o radere questa mia
brutta barba
far della metrica dovunque
strame;
questo è il mio regno,
telkì lo mio reame.
Ma è appunto il totem, il palo
immobile e scolpito, qui nel bel mezzo del trivio, che mi ricorda che
è ora di farla finita con questa commedia. Perciò passo e chiudo:
ma come chiudere? Avrà un significato tutto questo mio discorso, o
sarà solo “il racconto di un povero idiota, vento e suono che
nulla dinota” ? Nel dubbio, chiudo così, cioè meglio che posso,
cioè in una qualche miniera, come mio solito; augurandovi che soave
sia il vento, che tranquilla sia l’onda, e che ogni elemento /
benigno risponda / ai vostri desir.
(continua)
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