sabato 14 maggio 2011

L'attrazione del vuoto

Ogni tanto capita, nei libri, di imbattersi in un personaggio e dire: "ma questo sono io". A me è andata bene: il mio ritratto l'ha fatto Achille Campanile. Questo qui sotto sono proprio io, mi chiedo ancora come avrà fatto Campanile a farmi un ritratto così perfetto, dato che non ci siamo mai incontrati  (un giorno o l'altro vado su a chiederglielo).

Achille Campanile
L'ATTRAZIONE DEL VUOTO
Si narra di persone che, affacciate su un abisso profondissimo o da un'altissima torre, provano un senso di "attrazione del vuoto". Forse il pensiero che un atto tanto semplice e tanto grave, quale è il buttarsi giù, dipende da un loro piccolissimo gesto, sicché il farlo o non farlo è soltanto attaccato all'esile filo della loro volontà, riempie questi signori - spero che non sieno molti, in verità - d'un tale timore di "indursi a buttarsi giù", di non riuscire ad evitare un atto gravissimo il quale dipende unicamente da essi stessi, che finiscono con l'esser presi dal capogiro e col precipitarsi nel vuoto.
Giorgio era andato a visitare un autorevole personaggio a cui doveva chiedere un favore e che lo ricevé con molta affabilità. Era costui un uomo a cui l'autorevolezza non impediva d'esser cordiale. Col bel volto rasato, largo, aperto e sorridente, stette ad ascoltare Giorgio e si dimostrò molto ben disposto verso di lui. Quando questi ebbe finito di parlare, l'autorevole uomo gli disse che l'avrebbe aiutato molto volentieri e si diffuse a parlare del caso di Giorgio e delle possibilità che aveva e che avrebbe sfruttato a vantaggio di lui. Mentre egli parlava con la massima gentilezza protendendo il bel faccione roseo, rasato, autorevole, Giorgio era molestato da un pensiero: «Se all'improvviso, senz'alcuna ragione, gli dessi uno schiaffo?»
Cosa terribile. Che figura avrebbe fatto! E quale sorpresa per l'autorevole personaggio che certo non se l'aspettava, tanto più che stava parlando affabilmente a Giorgio e gli assicurava il proprio appoggio. Per quanto Giorgio ci pensasse, non arrivava a figurarsi quello che sarebbe accaduto se egli avesse dato uno schiaffo all'autorevole personaggio. La maraviglia di questo, insieme con l'indignazione. Ne avrebbe avuto ben d'onde. Giorgio pensava anche : «Danneggerei me stesso.»
E pensava contro di sé : «Soprattutto mi farebbe male al cuore; non me lo perdonerei, se gli dessi uno schiaffo; è un galantuomo, una persona così gentile.»
Il personaggio, continuando a parlare cortesemente, guardava Giorgio negli occhi, e questi pensava: «Non immagina mai che in questo momento io penso a quello che avverrebbe se gli dessi uno schiaffo. E come potrebbe pensarlo? Sarebbe proprio un atto ingiustificato, assurdo. Ma pensare, se si potesse leggere nel pensiero!» E al pensiero che l'altro non gli poteva leggere nel pensiero, provava quasi una gioia maligna. Gli pareva di stare al riparo mentre fuori imperversava il temporale. Atteggiava più che mai il volto a una sincera espressione di rispettosa ascoltazione e più che mai pensava: Ciàc! Su quel bel faccione. Che catastrofe! Resterebbe sbalordito e indignato; correrebbero gli uscieri; forse sarei arrestato; o messo al manicomio; non potrei in nessun modo giustificare un atto simile, che nulla in realtà giustificherebbe. Sarei un mascalzone.
Un'ilarità interna gli solleticava lo stomaco mentre ascoltava compunto l'autorevole personaggio. Poi pensava: «Mascalzone che sono, anche senza dargli uno schiaffo. Mi sta promettendo appoggi e io penso a quel che avverrebbe se gli dessi uno schiaffo. Sono pensieri che non dovrebbero nemmeno venirmi». E quasi rabbrividendo: «Che pandemonio avverrebbe! E che figura! Vorrei esser sotterra». Poi, mentre l'altro lo guardava negli occhi con occhi benevoli e del tutto ignari: Ciàc!, su quel bel faccione. Non t'immagini nemmeno lontanamente quello che mi passa per la testa. Basterebbe un piccolo gesto. Il faccione è a portata di mano. Ciàc! e il disastro. Non dipende che da me il non farlo. È un atto gravissimo e semplicissimo di cui l'evitarlo non dipende che dall'esile filo della mia volontà. E il farlo altrettanto: nessuno sforzo né fisico né di volontà; per farlo non mi occorrerebbe che compiere un piccolo moto della mano; con una spaventosa facilità creerei una situazione spaventosa per me. È un pericolo terribile. E se il filo della mia volontà, che mi trattiene e che potrei spezzare con un niente, si spezzasse? Non dipende che da me. Ciàc!
Ciàc! Ciàc!, rideva lo spiritello maligno nello stomaco.
Il faccione sorrideva benevolo, florido, proprio lì, a pochi centimetri di distanza. Non dipende che da me. Sono alla mercè della mia volontà. Che disastro sarebbe! Ciàc!
Lo schiocco secco risuonò all'improvviso nel queto salone. Il faccione era rimasto senza fiato, boccheggiante, per un attimo. Poi si rovesciò gridando su Giorgio che era diventato un cencio e si guardava la mano terrorizzato.
Giorgio si lasciò malmenare e trascinar via dagli uscieri. Udì voci indignate che gridavano «mascalzone», «delinquente» e «pazzo». Non oppose la minima resistenza. Capiva benissimo d'aver torto marcio e avrebbe voluto sprofondar sotterra per la vergogna; specie agli occhi di quell'uomo così gentile e benevolo verso di lui. Per lui provava una pena acuta. Avrebbe voluto riacquistarne subito la stima e la benevolenza. Dirgli che sapeva di averlo colpito ingiustamente e che ne era pentito.
Quando lo interrogarono non seppe proprio giustificare l'atto. E in realtà non c'era nessuna giustificazione possibile. Anzi, egli avrebbe avuto tutte le ragioni per trattare col massimo riguardo una persona gentile che lo aiutava. Oltre tutto egli aveva danneggiato se stesso. E questa era la miglior difesa per lui. Nessun risentimento. Al contrario. Ma allora perché lo aveva fatto? Proprio per questo; perché sarebbe stato assurdo, addirittura spaventoso fare una cosa tanto grave e tanto fuori luogo. Non lo capivano. Lo credevano pazzo. Ma dentro di sé, pur ammettendo che aveva torto marcio, che aveva fatto una cosa ingiusta e gravissima senza ragione, Giorgio sapeva benissimo di non essere pazzo.
(Achille Campanile, da “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”, 1978, ed. tascabili BUR Rizzoli)

2 commenti:

gaz ha detto...

Ci vuole una grande maestria per saper descrivere questo strano stato d'animo con il tocco lieve del sorriso.

Giuliano ha detto...

Campanile è davvero un grande scrittore
:-)
scrive in un italiano bellissimo, un modello da consigliare per chiarezza e stile