Penso che a tutti sarà capitato di
vedere un grande impianto chimico, magari in tv o passandogli accanto
in autostrada. Ce ne sono di enormi, come le raffinerie petrolifere
(quelle che fanno la benzina, per intenderci), grandi come paesi,
dentro le quali ci si sposta con l'automobile o magari in bicicletta,
e ce ne sono di meno grandi, come quella in cui ho lavorato io.
Grande o piccola, una fabbrica chimica
è comunque sempre piena di tubi: tubi dappertutto, gli idraulici
sono sempre i primi ad essere assunti, in un impianto chimico. I tubi
collegano i serbatoi, la caldaia, e le macchine per il finissaggio,
oltre che essere necessari per il carico e lo scarico dalle
autobotti. Tubi su tubi, dunque, con dentro tante cose, tutte quelle
che potete immaginare e anche qualcosa di più. Lavorando per
un'industria di saponi e detersivi, come quella in cui ero io, nei
tubi scorrono anche sostanze che di solito immaginiamo solide: la
stearina, per esempio (quella delle candele), oli e grassi di varia
origine, che necessitano del vapore per rimanere fluide e pompabili.
Quando sono arrivato io era ancora vivo
il ricordo della grande nevicata del gennaio 1985: tre giorni di
neve, molto fitta e senza interruzione, ventiquattro ore su
ventiquattro. In Lombardia eravamo abituati alla neve, ma così tanta
non l'aveva mai vista nessuno. Ogni tanto ci penso ancora adesso: a
un certo punto non sai più dove metterla, ti guardi intorno con la
pala in mano, nevica ancora, e ti chiedi come farai.
Di solito, in una ditta, si rimedia a
questi problemi lasciando accesa la caldaia anche di notte e nelle
festività; ma in quel dicembre 1984 la ditta che poi mi avrebbe
assunto era appena subentrata, e aveva sottovalutato il problema.
Forse non volevano pagare il festivo ai caldaisti, chissà: sta di
fatto che sotto le feste non c'era nessuno in fabbrica, e il gelo
calò su tutto lo stabilimento. Al ritorno in fabbrica, dopo
l'Epifania, amara constatazione: tutto bloccato. La stearina e
l'ocenolo sono solidi a 20°C, figuratevi cosa diventano a dieci
sottozero. Luciano P., che mi ha raccontato questa storia, mi ha
detto che fu necessaria una settimana per far ripartire la fabbrica;
e, subito dopo, appena terminata l'operazione (vapore, vapore,
vapore...) venne giù la nevicata di cui ancora oggi parliamo noi
vecchi, quella del gennaio 1985, e fu necessario ricominciare da
capo, stavolta con la pala e i muletti a far da ruspa: ma con un
metro e oltre di neve, dappertutto, c'è poco da stare allegri.
Da allora, la caldaia rimane sempre
accesa, anche di notte, anche a Natale e a Capodanno. Sbagliare una
volta basta e avanza, insomma. Quanto a me, nel dicembre 1984
arrivavo a casa con i ghiaccioli attaccati ai peli dei baffi, da
tanto che faceva freddo: come nelle spedizioni al Polo Nord, più o
meno. Non mi è più successo da allora, e non mi era mai successo
prima di trovare così freddo dalle nostre parti; dietro, c'era
l'eruzione di un grande vulcano in America, se non ricordo male il
Mount St.Helen, Washington State, dall'altra parte del mondo: le
ceneri nell'atmosfera avevano prodotto il raffreddamento.
Ci penso spesso, a quell'inverno
lontano, quando sento gli scettici sul cambiamento climatico e sul
riscaldamento globale, e sull'ambiente in generale: non sappiamo di
cosa è capace la Terra, anche chi ci è passato in mezzo il più
delle volte fatica a capire, o magari non vuole capire affatto. Ma se
Madre Natura volesse cancellarci via dalla faccia della Terra,
potrebbe farlo da un giorno con l'altro. Magari anche a colpi di
neve, e di gelo:
Some say the world will
end in fire,
some say in ice.
From what I've tasted
of desire
I hold with those who
favor fire.
But if I have to perish
twice,
I think I know enough
of hate
to say that for
destruction ice
is also great
and would suffice.
(Robert Frost, Fire and ice)
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