martedì 10 dicembre 2019

Il grande gelo


Penso che a tutti sarà capitato di vedere un grande impianto chimico, magari in tv o passandogli accanto in autostrada. Ce ne sono di enormi, come le raffinerie petrolifere (quelle che fanno la benzina, per intenderci), grandi come paesi, dentro le quali ci si sposta con l'automobile o magari in bicicletta, e ce ne sono di meno grandi, come quella in cui ho lavorato io.
Grande o piccola, una fabbrica chimica è comunque sempre piena di tubi: tubi dappertutto, gli idraulici sono sempre i primi ad essere assunti, in un impianto chimico. I tubi collegano i serbatoi, la caldaia, e le macchine per il finissaggio, oltre che essere necessari per il carico e lo scarico dalle autobotti. Tubi su tubi, dunque, con dentro tante cose, tutte quelle che potete immaginare e anche qualcosa di più. Lavorando per un'industria di saponi e detersivi, come quella in cui ero io, nei tubi scorrono anche sostanze che di solito immaginiamo solide: la stearina, per esempio (quella delle candele), oli e grassi di varia origine, che necessitano del vapore per rimanere fluide e pompabili.

Quando sono arrivato io era ancora vivo il ricordo della grande nevicata del gennaio 1985: tre giorni di neve, molto fitta e senza interruzione, ventiquattro ore su ventiquattro. In Lombardia eravamo abituati alla neve, ma così tanta non l'aveva mai vista nessuno. Ogni tanto ci penso ancora adesso: a un certo punto non sai più dove metterla, ti guardi intorno con la pala in mano, nevica ancora, e ti chiedi come farai.
Di solito, in una ditta, si rimedia a questi problemi lasciando accesa la caldaia anche di notte e nelle festività; ma in quel dicembre 1984 la ditta che poi mi avrebbe assunto era appena subentrata, e aveva sottovalutato il problema. Forse non volevano pagare il festivo ai caldaisti, chissà: sta di fatto che sotto le feste non c'era nessuno in fabbrica, e il gelo calò su tutto lo stabilimento. Al ritorno in fabbrica, dopo l'Epifania, amara constatazione: tutto bloccato. La stearina e l'ocenolo sono solidi a 20°C, figuratevi cosa diventano a dieci sottozero. Luciano P., che mi ha raccontato questa storia, mi ha detto che fu necessaria una settimana per far ripartire la fabbrica; e, subito dopo, appena terminata l'operazione (vapore, vapore, vapore...) venne giù la nevicata di cui ancora oggi parliamo noi vecchi, quella del gennaio 1985, e fu necessario ricominciare da capo, stavolta con la pala e i muletti a far da ruspa: ma con un metro e oltre di neve, dappertutto, c'è poco da stare allegri.
Da allora, la caldaia rimane sempre accesa, anche di notte, anche a Natale e a Capodanno. Sbagliare una volta basta e avanza, insomma. Quanto a me, nel dicembre 1984 arrivavo a casa con i ghiaccioli attaccati ai peli dei baffi, da tanto che faceva freddo: come nelle spedizioni al Polo Nord, più o meno. Non mi è più successo da allora, e non mi era mai successo prima di trovare così freddo dalle nostre parti; dietro, c'era l'eruzione di un grande vulcano in America, se non ricordo male il Mount St.Helen, Washington State, dall'altra parte del mondo: le ceneri nell'atmosfera avevano prodotto il raffreddamento.

Ci penso spesso, a quell'inverno lontano, quando sento gli scettici sul cambiamento climatico e sul riscaldamento globale, e sull'ambiente in generale: non sappiamo di cosa è capace la Terra, anche chi ci è passato in mezzo il più delle volte fatica a capire, o magari non vuole capire affatto. Ma se Madre Natura volesse cancellarci via dalla faccia della Terra, potrebbe farlo da un giorno con l'altro. Magari anche a colpi di neve, e di gelo:
Some say the world will end in fire,
some say in ice.
From what I've tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if I have to perish twice,
I think I know enough of hate
to say that for destruction ice
is also great
and would suffice.
(Robert Frost, Fire and ice)

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