L’influenza della pubblicità sulla politica è diventata enorme, e pesante, dagli anni ’90 in qua. Non solo perché i candidati vengono sempre più spesso scelti in base alla fotogenia e alla capacità di parola e non per le loro qualità (in USA ci fu il caso clamoroso di Ronald Reagan): si tratta ormai di un cambiamento veramente profondo, e che è andato a colpire direttamente la nostra vita. Da noi, solo un paio d’anni fa, un importante politico ha fatto un lungo discorso (ne esiste la registrazione video) parlando di politica non come valori o come idee ma in termini di quote di mercato, di spazi pubblicitari, di investimenti che devono avere un ritorno. Inutile dirne il nome: viene anche lui dalla pubblicità.
Con questa classe politica, soprattutto in Lombardia e con i politici lombardi, le parole più frequenti sono ormai fidelizzazione, smart card, target, sconto, eccetera. L’altro giorno ho richiesto il PIN per la smart card sanitaria (pardon, “carta dei servizi”), che è obbligatoria se si vuole avere assistenza medica, e sul foglio stampato, come prime parole, ho trovato scritto “La ringraziamo per averci scelto”, il che è davvero – come dire? – curioso, paradossale; ma se chi ti governa viene dalla pubblicità e dal marketing, bisogna aspettarsi questo e anche altro.
Un’altra operazione tipica dei pubblicitari è quella di cambiare il nome a qualcosa che già c’era, spacciandolo per novità: cambiare nome ai ministeri, ai vigili urbani, ai partiti stessi. Il servizio di riscossione tributi è diventato “Equitalia” (che bel nome: peccato che le funzioni siano esattamente le stesse, se non pagate vi pignorano la casa), la tessera di abbonamento al tram è diventata “Itinero” (parola sdrucciola: si pronuncia “itìnero”, e non “itiñero do Brazil”).
Un altro esempio: in giurisprudenza è stato introdotto il reato di “stalking”, che prima era alla voce “molestie”, e anche “molestie aggravate”. D’improvviso, “molestie” è sembrata una parola innocua, molle, inefficace: bisognava fare qualcosa di nuovo, far vedere che si stava lavorando duramente, e si sono introdotti i termini inglesi “stalking” e “stalker”. Parole difficili da pronunciare, parole di cui non si conosce il significato (io lo so dal 1979: è un termine dei cacciatori, significa seguire un sentiero, seguire la selvaggina attraverso quel sentiero, lo stalker è una guida, uno scout). Insomma, tutto rimane come prima ma introducendo un termine nuovo sembra che si sia fatto chissà che cosa. Per inasprire le pene, bastava aggiungere una riga al reato di molestie: ma i giornali non ne avrebbero nemmeno parlato (e già sento le vocine indignate: ma no, no, non è la stessa cosa – e invece sì, sempre di molestie si tratta, molestie aggravate, e se succede qualcosa in più si passa ad altro tipo di reato, più grave. Queste norme ci sono sempre state, nei Codici).
Si tratta dunque di operazioni puramente esteriori, poi tocca sempre agli stessi lavorare, fare fatica fisica, correre rischi. Si cambiano le parole, e si fanno partire gli spot; ma intanto si tagliano i fondi, si riduce il personale, e queste sì che sono cose che vanno diritte a colpire nel segno. Se un carabiniere che va in pensione non viene sostituito, poi chi va ad arrestare i molestatori, pardon “stalkers”?
Un’altra regola del marketing, opposta a quella di sopra e molto scorretta, è ridicolizzare e rendere sgradevole “la concorrenza”. Per esempio, l’efficace lavoro fatto sulla parola Cooperativa: che da “lavorare insieme” è passato, con la Legge Biagi e con annessi e connessi, ad essere sinonimo di sfruttamento. Ormai, soprattutto tra i giovani e tra chi è in cerca di lavoro, l’unico significato conosciuto per “cooperativa” è quello, una società che ti dà un posto di lavoro per due settimane. Cooperare, cooperativa, nel suo vero significato, significa invece lavorare insieme, operare insieme: i contadini coltivano gli ortaggi, mungono il latte, si riuniscono per venderlo insieme e poi si dividono i profitti, ma senza un padrone. Ma ormai, chi se lo ricorda più?
Queste tecniche funzionano. Ci si potrebbe scrivere un saggio, fare un film, una serie tv, perfino fare un videogame: ma editoria, tv, videogames, musica, tutto è ormai nelle mani dei pubblicitari e degli addetti al marketing. Questa è una dittatura, e sarebbe bello se si tornasse alla libertà.
- Lei pensa mai agli spettatori?
- No, come avrei potuto? Cosa rappresentano per me? Devo insegnare loro qualcosa? Ho qualche mezzo per sapere cosa pensa John Smith a Londra o Vasil Ivanov a Mosca? Davvero dovrei essere un ipocrita a dichiarare di conoscere i pensieri, il mondo interiore di un'altra persona. Se voglio creare qualcosa posso farlo solo col mio linguaggio, trattando il pubblico come un partner a pari livello. Se ho qualche problema penso che anche il pubblico lo abbia e cerco di usare il mio film per fare chiarezza per me e per gli spettatori. Non sono né piú intelligente, né piú stupido, la mia dignità è ugualmente vulnerabile. Niente di piú facile che fare un film con lo sguardo rivolto alle tasche degli spettatori, ma non è la mia vocazione...
(ANDREJ TARKOVSKIJ, intervista raccolta a Londra da Irena Brežnà (pubblicata a suo tempo dal mensile “Frigidaire”, circa 1982)
(i fotogrammi qui sopra vengono dal film “Stalker” di Andrej Tarkovskij, anno 1979)
Una Notte a New York - Christy Hall
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