venerdì 27 aprile 2012

La chimica al cinema ( IV )

L’alambicco che ribolle, al cinema e in tv, è una delle cose che si vedono sempre quando si mostra un laboratorio chimico: vapori, fumi, liquidi ribollenti anche se palesemente freddi. Sono trucchi abbastanza banali, al cinema si vedono cose ben più complicate fin dai tempi di Georges Méliès; io non sono un esperto di trucchi cinematografici ma so che per simulare un’ebollizione in un liquido, anche senza fuoco, basta un po’ d’aria compressa, del tipo di quella che usa anche il gommista: la si fa gorgogliare lentamente, da un tubo nascosto, ed ecco pronto il misterioso liquido ribollente anche senza fiamma. Nei laboratori chimici c’è sempre l’aria compressa, serve per asciugare la vetreria, per facilitare l’evaporazione dei solventi, per tante cose che non sto qui a spiegare. Basta farla uscire lentamente, da un tubicino nascosto, e l’illusione è perfetta.
Fumi e vapori si possono ottenere facilmente con il ghiaccio secco, che è anidride carbonica solida: se le formule chimiche vi fanno impressione, basterà pensare che anche noi, respirando, produciamo anidride carbonica, e che molti estintori anti incendio sono a base di anidride carbonica. Si riconoscono subito, perché sono vere e proprie bombole e non semplici contenitori (come per gli estintori a schiuma o a polvere), con la parte superiore dipinta in grigio. Il ghiaccio secco, cioè l’anidride carbonica solida, in laboratorio l’ho usato anch’io: serviva per controllare un lubrificante di nostra produzione che doveva mantenersi fluido anche a venti sotto zero, e con il ghiaccio secco ci si arriva. Da noi ne bastavano piccole quantità, che prendevamo dalla bombola dell’anidride carbonica: aprendola e facendo entrare il gas in un apposito stampo, si ottengono dei dischetti di “quasi neve” facilmente maneggiabili. Al cinema, basta mettere un po’ di ghiaccio secco in fondo a un recipiente e poi versarci sopra un po’ di acqua a temperatura ambiente per veder sviluppare dei fumi bianchi: esistono metodi un po’ più sofisticati, ma penso che qui possa bastare e passo ad altre cose misteriose.
Un oggetto molto spettacolare, oltre ai tubi refrigeranti di cui ho già parlato, è sicuramente l’imbuto separatore, di ottimo effetto scenografico se montato sugli appositi sostegni. Per spiegare come funziona l’imbuto separatore farò un esempio pratico: mettiamo che si voglia sapere che olio è stato usato in una maionese, se è olio d’oliva o di semi e, nel caso, di quali semi si tratta. Si prende la maionese, se ne pesa una piccola quantità e la si porta nell’imbuto separatore: dato che l’imbuto separatore ha un rubinetto sul fondo, sarà bene verificare di aver chiuso il rubinetto prima di iniziare l’operazione. Non l’avete chiuso? Capita, anche ai migliori di noi analisti è successo, e succederà ancora: nessuno è perfetto, ma adesso bisogna ricominciare da capo. E dunque, si pesa qualche grammo di maionese, la si porta nell’imbuto separatore (avete chiuso il rubinetto in basso?), e si aggiunge un solvente facilmente evaporabile, per esempio cloroformio, etere etilico, in alcuni casi va bene anche l’alcool; il solvente separa l’olio dall’acqua, se non si separa bene basta aggiungere un po’ di acqua salata. Si mette il tappo grosso nella parte superiore (questo è facile da ricordare, se vi dimenticate del tappo sopra è grave), si agita lievemente, e poi si lascia a riposo. Se l’operazione è stata fatta bene avremo due fasi, sopra l’olio (nel solvente) e sotto l’acqua, e tutto quello che nell’acqua si scioglie (dato che è maionese, l’aceto o il succo di limone); aprendo il rubinetto sotto si toglie la fase acquosa e rimane la fase superiore, che adesso si può analizzare facilmente. Nella fotografia qui sopra, che ho preso da wikipedia, si vedono bene le due fasi, ben separate.
In una celebre foto che ritrae Madame Curie si vede bene un altro oggetto che è stato di uso molto comune, e che in italiano si chiama spruzzetta: un nome non finissimo, ma è quello che si usa normalmente. Oggi le spruzzette sono tutte fatte di plastica, una bottiglia di plastica morbida con una cannuccia infilata dentro; non sto a spiegare come funziona, mi sembra ovvio: che premendo sui lati esca il liquido lo sanno anche i bambini di tre anni. Ma le bottiglie di plastica esistono solo dagli anni ’60, prima si usava la spruzzetta come quella che ha in mano Madame Curie, e che anch’io ho fatto in tempo ad usare. Due cannucce di vetro infilate in un tappo di gomma: soffiando in una delle due cannucce, dall’altra esce il liquido (acqua distillata, di solito) e il getto si può dirigere dove meglio conviene, per esempio per pulire le pareti di un bicchiere e raccogliere una parte del campione che era finita sulle pareti. Anche qui, mi sembra inutile spiegare il funzionamento: è un’esperienza che si può fare anche in casa con due cannucce per le bibite, basta guardare la foto. (il grande recipiente alle spalle di Madame Curie è un semplice bottiglione, l’ampollina che ha nell’altra mano è soltanto un’ampollina di vetro). E’ invece interessante far notare che fino a pochi anni fa, cioè prima dell’avvento e del trionfo della plastica, i chimici erano anche un po’ vetrai. Funzionava così: si comperavano dalle vetrerie bacchette o tubi di vetro molto lunghi, anche due metri, di vari diametri e spessori, che poi si tagliavano e modellavano su una fiamma a gas. Anche la spruzzetta di Madame Curie è fatta sicuramente così: alcuni chimici di laboratorio erano dei veri artisti e modellavano e sagomavano il vetro in maniera perfetta, altri (tra i quali anch’io, disdetta) avevano minore abilità manuale e i tubi e le bacchette uscivano sempre un po’ strani e poco eleganti, ma l’importante era che svolgessero le loro funzione. Se non riuscivano a svolgere la loro funzione, o se si spezzavano, allora bisognava buttare via tutto e ricominciare da capo; ma dopo un po’ di volte e un po’ di “ritenta, sarai più fortunato”, di regola anche i più imbranati riuscivano nell’impresa.
Chissà se oggi si insegna ancora a modellare il vetro, nei laboratori; temo di no, ma in ogni caso provate a fare attenzione a tutta la vetreria che si vede nei film e in tv, dal Frankenstein di James Whale (1933) fino ad Harry Potter: palloni, matracci, bottiglie, flaconi, vetreria varia di tutte le forme, colori e dimensioni. Qui è possibile che sia tutto vero, è anche possibile che il flacone per il misterioso elisir sia una boccettina autentica, recuperata da qualche antiquario. Per tutto il periodo alchemico e prescientifico, e anche per tutto l’Ottocento i chimici (anche quelli importanti) infatti dovevano essere anche un po’ vetrai, farsi gli oggetti da soli o spiegare bene cosa fare a un vetraio vero. Da qui deriva la grande varietà di forme e colori delle bottiglie e bottigliette, delle beute e dei matracci, dei flaconi e dei vasi dei farmacisti.
(nelle immagini: un imbuto separatore, da wikipedia; una foto famosa di Madame Curie, premio Nobel per la chimica nel 1903 e nel 1911; due immagini da “The bride of Frankenstein”, con Boris Karloff ed Elsa Lanchester).

martedì 24 aprile 2012

Gli eroi son tutti giovani e belli

Stavolta Francesco Guccini è proprio arrabbiato, e ne ha ragione. Una sua canzone è stata rubata dai neofascisti, una delle più famose: l’intervista con Guccini è su Repubblica on line, http://www.repubblica.it/ , in data 24 aprile 2012, penso che si possa ben immaginare il suo pensiero e non la riporto qui anche se è un’intervista molto bella. Quello che mi interessa invece sottolineare è il fatto che, per l’ennesima volta, si facciano delle citazioni “a capocchia”: si prende una frase da un testo perché piace, e non ci si cura minimamente di leggere fino in fondo, nemmeno le due righe che stanno intorno a quella frase. Leggere tre righe, o magari una pagina intera, è chiedere troppo? Evidentemente sì, e la stessa cosa capita anche al cinema: ho conosciuto molte persone che di un film di due ore avevano visto solo cinque minuti, ma a loro tutto il resto non interessava, gli interessano solo quei cinque minuti lì; di solito, uno stupro o una sparatoria, o qualcuno che si droga. Anthony Burgess e Stanley Kubrick, per esempio, hanno lasciato molte interviste e articoli per spiegare cosa avevano fatto con “Arancia meccanica”, ma è stato tempo perso. Alla fine, sia Burgess che Kubrick hanno gettato la spugna, concludendo che sarebbe stato meglio non iniziare quel discorso. Io aggiungerei: visto il livello medio di chi legge, ascolta, guarda, forse non vale la pena di iniziare nessun discorso – ma mi rendo conto che ormai il mio pessimismo sta raggiungendo livelli molto alti, perciò ritorno sulla canzone di Guccini, che è “La locomotiva”.
La conosciamo tutti a memoria, ma comunque ne riporto l’inizio: Non so che viso avesse, neppure come si chiamava, con che voce parlasse, con quale voce poi cantava, quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli, ma nella fantasia ho l'immagine sua: gli eroi son tutti giovani e belli.
E continua così: Conosco invece l'epoca dei fatti, qual' era il suo mestiere: i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere (...)
Si tratta quindi di una descrizione. Un inizio favolistico, da ballata medievale; un incipit tra i più belli che mi sia capitato di leggere o ascoltare. Non so che viso avesse, ma comunque nella fantasia gli eroi sono tutti giovani e belli: Guccini attinge al repertorio dei cantastorie, che hanno percorso per secoli (per millenni) la nostra storia, e che fino agli anni ’60 capitava ancora di incontrare nelle piazze e nelle fiere. Così furono trasmesse anche l’Iliade e l’Odissea, e i grandi poemi epici di tutto il mondo e di tutte le epoche: a voce, senza scrivere, a memoria. By heart, come dicono gli inglesi: si traduce “a memoria” ma il significato letterale è “con il cuore”.

Ripetere l’ultimo verso, in quel modo, serve per non far perdere il filo a chi ascolta, e per attirare l’attenzione dei passanti; se fatto bene (ci vuole orecchio, classe, senso del ritmo e della rima: non è da tutti) si ottiene un effetto di grande suggestione. E dunque, Guccini non ci sta affatto dicendo che gli eroi sono davvero tutti giovani e belli, così come non ci sta dicendo, più avanti, che lui davvero auspichi il trionfo della giustizia proletaria: è il suo protagonista che lo pensa, non Guccini. Può darsi che il narratore sia d’accordo con la storia che racconta, ma non è affatto scontato.
Questa storia dello spezzettare, del non prestare attenzione per più di due minuti, è in gran parte frutto del martellamento pubblicitario che ci arriva ogni giorno da quando sono nate le tv e le radio commerciali; prosegue con il successo delle raccolte di aforismi (perché leggere un libro intero quando te la puoi cavare con una battuta?), e arriva al suo apice con le scuole di scrittura che insegnano a spezzettare le frasi e a fare periodi sempre più corti (altrimenti chi ti legge si distrae, come capita con i cagnolini e con i bambini di due anni). La ciliegina sulla torta è l’effetto sms, o twitter o facebook: le centoquaranta battute da non superare. Centoquaranta battute vanno bene, appunto, per fare una battuta; o magari per dire “butta la pasta, arrivo”: ma provate a scrivere la ricetta dei bucatini all’amatriciana in 140 battute. (Ho esagerato, lo so: può anche servire per dire “ti amo, aspettami”).
I risultati sono questi, che sui giornali (anche quelli importanti) per dire che stamattina mi sono alzato, mi sono lavato e mi sono fatto la barba si trovano queste perle: «Mi sono alzato. Mi sono lavato. Mi sono fatto la barba.» E ormai molti scrivono davvero così, ci sono perfino correttori automatici che ti correggono quello che hai scritto: “troppo lungo! spezzettare!”. Ci sono anche dei critici che teorizzano queste cose come se fossero cose giuste: prendo un pezzettino di qui, un pezzettino di là, ecco fatto il film su misura come mi piace a me.

Si può applicare questo metodo anche alla Storia? Prendere quello che ci piace, e buttar via il resto? La storia del fascismo comincia con l’omicidio di don Minzoni (1923), con il rapimento e l’omicidio di Matteotti (1924), con l’aggressione a Gobetti (1926), mica si può sorvolare su queste cose. La storia della Repubblica Sociale Italiana è la consegna dell’Italia (della Patria) ai nazisti, siamo dalle parti dell’alto tradimento. In mezzo, decenni di persecuzioni agli oppositori, di guerre perse prima di cominciarle, di leggi razziali e di deportazione di compatrioti inermi ed onesti. La Resistenza non fu solo comunista, fu anche cattolica, laica, socialdemocratica, liberale. Ma tutto questo, temo, ormai non serve più: ho oltrepassato il limite di attenzione concesso ai cagnolini e ai bambini di due anni, chissà quanti sono arrivati a leggere fin qui, chissà se in futuro ci sarà ancora spazio per un blog: il futuro è nelle 140 battute, anche meno, e se il livello medio è quello di chi contesta gli ex partigiani, o di chi ruba il verso di una canzone famosa per farci sopra i suoi porci comodi, forse per comunicare basterà un rutto, chissà. A patto che non sia un rutto troppo lungo, mi raccomando, altrimenti chi vi ascolta finirà col distrarsi.

venerdì 20 aprile 2012

La chimica al cinema ( III )

L’immagine tipica del laboratorio chimico, al cinema e nell’immaginario comune, è associata ad esplosioni, vapori, fumi bianchi, scienziati pazzi coi capelli dritti sulla testa. In un laboratorio vero, vapori e fumi vanno sempre sotto cappa; le esplosioni sono un fatto accidentale, il pericolo esiste ma si tratta più o meno delle stesse cose che possono succedere in cucina: vi si è mai rotto un vaso in pyrex, o in ceramica? Il latte che trabocca, o l’olio che schizza fuori dalla pentola: ecco che cosa può succedere, più o meno, in un laboratorio chimico normale. Alle volte neanche questo, perché in molti laboratori, ormai, ci sono strumenti che fanno tutto da soli: basta mettere un po’ di campione, dare l’avvio, e poi c’è la schermata che spiega cosa succede. Oltretutto, anche in chimica, come nei negozi di elettronica, gli strumenti sono ormai diventati indistiguibili l’uno dall’altro: se rimangono spenti, un vassoio per le paste e un tablet di ultimissima generazione sono praticamente identici, e la stessa cosa capita ormai anche con gascromatografi e spettrometri, che a prima vista appaiono tutti come scatole o scatoloni metallici di forme più o meno variabili.
Non c’è niente di spettacolare in un laboratorio chimico, dunque: non è un gran che come colpo di scena, lo capisco benissimo e non vorrei che lo spettatore comune ne rimanesse troppo deluso, perciò provo a spiegare che cosa sono tutte quelle cose che si vedono comunemente nei film dove c’è un laboratorio chimico.
Di solito, si tratta di refrigeranti. In chimica, il refrigerante è un tubo di vetro dove scorre l’acqua, acqua normale di rubinetto che serve a raffreddare i vapori durante una distillazione, o per far ricadere il solvente ed evitare la calcinazione. Il tubo di vetro ha due camere interne, ben distinte: nella parte più esterna scorre l’acqua che raffredda i vapori, nella camera interna ci sono i vapori prodotti dal riscaldamento del campione.
Serve quindi un fornello, a gas o elettrico; sul fornello va il recipiente (magari un matraccio, per chi è affezionato ai termini tecnici: un pallone di vetro pyrex molto resistente), sul recipiente si innesta il tubo refrigerante, mediante apposito raccordo. Roba da idraulici, insomma, se non fosse per il dettaglio che è tutto di vetro: infatti il vetro è inerte, non si corrode (il vetro si corrode solo con l’acido fluoridrico, che non è un reagente di uso comune) e si pulisce meglio del metallo. Nella distillazione della grappa, come è noto, si usano anche tubi metallici: ma qui si parla di laboratorio e in laboratorio i tubi metallici sono poco usati, proprio perché il metallo si può corrodere; non si corrode con l’alcool della grappa e dei liquori, ma con altri reagenti sì.
I refrigeranti possono essere di diversi tipi, e prendono il nome dai chimici che li hanno inventati: nomi più o meno famosi, Liebig, Ahlin, Dimroth, Soxhlet, Davies...I nomi non se li ricorda quasi nessuno, e di solito vengono utili solo quando bisogna comperare dei tubi refrigeranti; in questi casi, si consulta il catalogo della ditta che fornisce la vetreria, si confrontano le figure, si apprende con stupore che quel coso lì l’ha inventato Liebig (lo stesso del dado, proprio lui?) e poi siccome è una nozione che non serve a niente (niente di pratico, però a me piace saperlo) lo si dimentica immediatamente, fino a che qualche analista distratto non ne spacca uno di troppo (di solito sono i raccordi che saltano), e allora bisogna rifare l’ordine, tornare a consultare il catalogo, tornare a stupirsi che quel coso si chiami così (chi l’avrebbe mai detto), eccetera eccetera. Insomma, per farla breve, noi chimici di solito diciamo: il refrigerante a bolle, quello diritto, quello a serpentino. E pazienza per i signori che se li sono inventati, ma così va il mondo.
(qui sotto, un piccolo campionario che ho messo insieme a partire da un vecchio catalogo di strumenti per laboratorio).
Un discorso a parte si merita il Soxhlet, che si usa per i solidi: in questo caso, più che di distillazione si parla di “estrazione”. Parente stretto del Soxhlet è il Kipp, ma sul Kipp (che non è un refrigerante) ho molti ricordi personali e magari ne parlerò più avanti in separata sede.
La prima immagine in alto, che viene da http://www.wikipedia.it/  (dove la voce “distillazione” è scritta in maniera comprensibile a tutti) rappresenta un alambicco sette-ottocentesco, che mostra come si faceva prima dell’invenzione dei tubi refrigeranti; nella seconda immagine, presa da un libro di scuola, c’è lo schema della distillazione come si fa in laboratorio (le parti colorate in rosso e in arancione rappresentano i tappi di raccordo e i tubi che vanno al lavandino, entrambi in gomma, che sono proprio di quel colore lì). Il cartoon è della Walt Disney, anno 1957, titolo “Mars and beyond”; Mr. Spock di Star Trek appare in una suggestiva immagine che ho preso da qualche parte su internet, ma se siete arrivati a leggere fin qui non vi farà nessuna impressione perché avrete ormai molta confidenza con i refrigeranti a serpentino.
Infine, un’immagine pubblicitaria della ditta Sportmax, risalente a una dozzina d’anni fa, che porto qui non tanto per la bellezza della ragazza (notevole) e per l’eleganza dell’abito (notevole anch’esso, ma con una modella così qualsiasi cosa apparirebbe bella), quanto per il fatto che da dodici anni mi sto chiedendo se la costruzione alla nostra sinistra sia uno scherzo o se abbia un qualche senso pratico. Data la presenza delle pompette di gomma, e in quella posizione, propendo per la prima ipotesi; ma in fin dei conti la mia esperienza come chimico di laboratorio è molto limitata, chissà mai, può darsi.
(continua)

giovedì 19 aprile 2012

La chimica al cinema ( II )

La realtà del laboratorio chimico, al di là delle spettacolarizzazioni del cinema, è stata descritta soprattutto da Primo Levi, che su questi ambienti ha scritto racconti meravigliosi. Chi non sa niente di chimica difficilmente riesce a capire quanto sia stato grande il Dottor Primo Levi come scrittore. E’ una cosa che mi dispiace moltissimo, ma la Chimica è un terreno ostico per tutti i diplomati del liceo classico, che sono la maggioranza assoluta tra i critici letterari: quelli che in questi casi abbandonano la lettura dopo le prime tre righe ma per contratto parlano anche dei libri che non hanno letto. Purtroppo, anche molti lettori seguono il loro esempio.
Riporto qui un breve brano tratto da “Il sistema periodico”, raccomandando la lettura del racconto per intero, perché è bellissimo, profondo e divertente. Da allora sono passati sessant’anni, oggi gli archivi sono quasi tutti computerizzati, ma vi posso assicurare che i coloranti continuano a macchiare le dita, che la glicerina è sempre appiccicosa, e che l’olio di pesce continua a puzzare di pesce (serve per preparare gli ingrassi per il cuoio: borsette e scarpe ne escono meravigliosamente morbide, ma l’odore è difficile da eliminare).
Il giovane dottor Levi, neolaureato assunto in una ditta di vernici, sta cercando di recuperare una produzione andata a male e ammassata in gran quantità nei magazzini; per riuscire nell’impresa, come un investigatore, deve andare a scavare nel passato...
(...) Del resto, cominciavo a sentire intorno a me ed al mio lavoro una curiosità canzonatoria e malevola: chi era questo ultimo venuto, questo pivello a 7000 lire al mese, questo scribacchino maniaco che disturbava le notti della, foresteria scrivendo a macchina chissà che, per intrigarsi degli errori passati e lavare i panni sporchi di una generazione? Ebbi perfino il sospetto che il compito che mi era stato assegnato avesse avuto lo scopo segreto di condurmi ad inciampare contro qualcosa o qualcuno (...) Non mi fu difficile procurarmi, oltre alle PAN, anche le altrettanto inviolabili PDC, Prescrizioni di Collaudo: in un cassetto del laboratorio c'era un pacchetto di schede bisunte, scritte a macchina e piú volte corrette a mano, ognuna delle quali conteneva il modo di eseguire il controllo di una determinata materia prima. La scheda del Blu di Prussia era macchiettata di blu, quella della Glicerina era appiccicosa, e quella dell'Olio di Pesce puzzava di acciughe. Estrassi la scheda del cromato, che per il lungo uso era diventata color dell'aurora, e la lessi con attenzione. Era tutto abbastanza sensato, e conforme alle non lontane nozioni scolastiche: solo un punto mi apparve strano. Avvenuta la disgregazione del pigmento, si prescriveva di aggiungere 23 gocce di un certo reattivo: ora, una goccia non è una unità cosí definita da sopportare un cosí definito coefficiente numerico; e poi, a conti fatti, la dose prescritta era assurdamente elevata: avrebbe allagato l'analisi, conducendo in ogni caso ad un risultato conforme alla specifica. Guardai il rovescio della scheda: portava la data dell'ultima revisione, 4 gennaio 1944; l'atto di nascita del primo lotto impolmonito era del 22 febbraio successivo.
A questo punto si cominciava a vedere la luce. In un archivio polveroso trovai la raccolta delle PDC in disuso, ed ecco, l'edizione precedente della scheda del cromato portava l'indicazione di aggiungere « 2 o 3» gocce, e non « 23»: la «o» fondamentale era mezza cancellata, e nella trascrizione successiva era andata perduta. (..)
(Primo Levi, “Cromo”, da “Il sistema periodico”, edizione Einaudi)
PS: La foto sorridente di Primo Levi è del 1979, la consegna del Premio Strega per “La chiave a stella”, presa dal Venerdì di Repubblica qualche anno fa; l’altra immagine qui sopra rappresenta uno dei grandi miti della fotografia, un mito anche perché si tratta di qualcosa che è ormai praticamente estinto: il primo scatto del rullino, quello che non si sa mai se viene e perciò si fa alla prima cosa che capita.
(continua)

mercoledì 18 aprile 2012

La chimica al cinema ( I )

Qualche anno fa mi sono trovato coinvolto nella realizzazione di un filmato professionale. E’ andata così: io lavoravo in una ditta chimica, piuttosto importante, che aveva deciso di stabilire rapporti di buon vicinato con gli abitanti dei paesi vicini agli impianti. L’iniziativa si chiamava “fabbriche aperte”: in giorni prefissati, chi voleva venire a visitare la fabbrica avrebbe potuto farlo, guidato dai dipendenti. Un’iniziativa lodevole, anche perché gli impianti chimici sono sempre guardati con molto sospetto e la gente non sa che una bombola in cantina può essere molto più pericolosa di un impianto chimico ben custodito. Di quel progetto faceva parte la realizzazione di un filmato, per realizzare il quale furono chiamati dei professionisti del settore, che usarono la fabbrica come set cinematografico per qualche giorno spostandosi di reparto in reparto.
Io il film non l’ho mai visto, e nelle immagini non ci sono; però quando sono venuti a girare in laboratorio c’ero. Quella settimana mi toccava il turno di notte, il che significa iniziare alle 22 per terminare alle sei del mattino del giorno seguente. La buona regola in fabbrica era di arrivare venti minuti prima, così c’era tutto il tempo per il passaggio di consegne, e così avevo fatto anch’io, come sempre; ma quella sera, alle 21:40, nessuno mi prestava attenzione. I miei due colleghi, impegnati come attori, avevano ben altro da fare: agli ordini del regista e dell’addetto alla fotografia stavano spostando tutto, strumenti e reagenti e bilance, perché così come erano messi creavano dei problemi con le luci. Anche il mio capo, la Dottoressa, era lì presente; e guardava con riprovazione e disapprovazione il mio distacco da quell’alacre attività.
Una volta spostati gli strumenti, le bilance, i reagenti, e tutto lo spostabile, sorse un altro problema: la maggior parte delle nostre analisi concerneva liquidi incolori, assolutamente non fotogenici. In tutti i laboratori di analisi si lavora quasi sempre su diluizioni o su quantità molto piccole di campione: non esiste niente di meno spettacolare di un laboratorio chimico.
Che fare? Il problema fu presto risolto usando acqua colorata: e così si fa normalmente in tutti i servizi fotografici e nei filmati che vedete in tv e al cinema. Le materie prime possono essere colorate, ma sciogliendone un grammo in un litro d’acqua distillata il colore inevitabilmente si perde. Inoltre, la strumentazione moderna richiede sempre meno quantità di campione, a volte ne basta una goccia o una punta di spatola, che oltretutto va a finire in strumenti magari molto complessi e costosi, ma che visti dal di fuori sono scatoloni somigliantissimi al decoder della tv digitale o al forno di casa vostra. Insomma, dal punto di vista spettacolare il laboratorio chimico è una vera delusione; ne consegue che il 95% delle foto di laboratorio che vedete sui giornali sono foto più o meno farlocche, fatte con tutte le migliori intenzioni ma inevitabilmente false, come la foto qui sotto.
I miei colleghi-attori se ne andarono solo dopo le 23, di corsa e quasi senza salutare, e soprattutto senza mettere in ordine: l’ingrato compito toccò a me, dato che l’alternativa era darmi malato, piantar lì tutto e andare a casa. Mettere a posto il laboratorio mi tenne occupato fino a mezzanotte inoltrata, e poi dovetti affrontare la mole di lavoro arretrato, perché la fabbrica non si era fermata, la produzione era andata avanti, c’erano gli impianti da controllare e le macchine da scaricare. Insomma, del cinema in fabbrica non sono entusiasta e ora sapete anche perché.
Pochi ambienti sono meno spettacolari di un laboratorio chimico. Dimenticatevi il dottor Jekyll e il dottor Frankenstein, dimenticatevi gli effetti speciali, i fumi, le esplosioni: tutte cose che accadevano ai tempi del dottor Lavoisier nel 1789, ma che oggi sono rarissime. I fumi si fanno sotto cappa, e anche le cappe non sono molto fotogeniche.
Alla realtà di un laboratorio chimico è andato molto vicino Andrej Tarkovskij con il film del 1972 del quale vedete alcune immagini in questo post: l’attore è Anatolij Solonitsin, nei panni dello scienziato Sartorius (“Sartorius” è una nota marca di bilance analitiche), sulla stazione orbitante che si muove attorno al pianeta Solaris. La realtà del laboratorio è questa: barbe lunghe, capelli arruffati, magliette macchiate, pantaloni stinti, scarpacce antinfortunistiche. E camici sporchi, perché una fabbrica non è una clinica e capita sempre di aprire fusti, prelevare campioni dai serbatoi, andare a ricevere i camion e le autocisterne e magari arrampicarcisi sopra e guardare dentro per vedere se sono pulite. Non è una realtà molto fotogenica, e non sono sicuro che Tarkovskij abbia fatto bene a mostrarcela in un film: ma così funziona ancora oggi, tra i colleghi che cominciano alle 6 del mattino e quelli che a quell’ora vanno a casa a dormire. (N.B.: per osservare al meglio le macchie e la stazzonatura della maglietta di Snaut, interpretato dall’attore Jurij Jarvet, è consigliabile fare clic sull’immagine).

Il ritratto di Lavoisier è opera di Jacques-Louis David. La foto del laboratorio con le soluzioni colorate viene da un vecchio giornale che non saprei più indicare; le ultime tre immagini vengono dal film "Solaris" di Andrej Tarkovskij. L'ultima immagine, sempre da Solaris, mostra un essiccatore, un oggetto molto comune nei laboratori ma qui usato impropriamente come se fosse un qualsiasi portaoggetti. Anche questo, si sa, capita (in ogni caso, per tornare ad usare l'essiccatore basta svuotare, pulire, e aggiungere il gel di silice sul fondo).
(continua)

martedì 17 aprile 2012

Ul

“El mé marì l’è de Ulm”, disse la moglie di Einstein – o forse avrebbe potuto dirlo, dato che Albert Einstein era nato a Ulm, nel 1879, e visse a Milano per un paio d’anni, da ragazzo (in via Bigli 21, ci dovrebbe essere ancora una lapide). Se invece Einstein fosse stato comasco, invece che milanese, la moglie avrebbe potuto dire “Ul mé marì l’è de Ulm”, una frase che farebbe la delizia degli enigmisti: e questo perché a Como e dintorni l’articolo il diventa inesorabilmente “ul”, mentre a Milano se diseva “el”, e in altre parti della Lombardia si salta direttamente la vocale e si dice ‘l mé marì. O, quantomeno, così capitava quando la gente parlava ancora in dialetto; oggi sarebbe tutto da verificare. C’è ancora qualcuno che parla il suo dialetto natale, ma ogni paese aveva il suo proprio dialetto, spesso diversissimo da quello del paese confinante, e quasi sempre durissimo e incomprensibile per chi veniva da fuori: e quel “venir da fuori” si riferisce, per l’appunto, a chi abitava nel paese confinante, meno di cinque minuti camminando di buon passo. E’ così un po’ in tutta Italia, dal Nord al Sud, da Est a Ovest; e chi parla di “dialetto lombardo” o di “lingua lombarda” (idem con il napoletano, o con il sardo) dimostra solo di non sapere nemmeno di cosa si sta parlando. Le sorprese, quando si parla di dialetti, sono molte: l’Italia è stata per millenni zona di passaggio, e ricordo, en passant, che il bergamasco è diversissimo sia dagli altri dialetti lombardi che da quelli veneti, che esistono zone in cui si parla l’albanese antico (in Sicilia, in Puglia, e altrove), che Guardia Piemontese è in Calabria (già il nome spiega molte cose), e che fino a non molti anni fa c’era un paese, mi pare in Friuli, dove si parlava qualcosa di molto simile al russo: purtroppo non me ne ricordo il nome, ma dato che era un posto isolato, in montagna, si ipotizzava qualche gruppo di soldati che, tra Ottocento e Settecento, stufo di far guerre, si fosse ritirato qui senza più esser ritrovato.
A questo proposito, mio fratello mi ha raccontato che a metà degli anni ’70 si era trovato a parlare di queste cose con un ingegnere tedesco, un tecnico di computer (a quei tempi, tecnologia all’avanguardia), che gli aveva raccontato di essere rimasto colpito dal dialetto dei comaschi: con tutti quegli “ul” e tutti quei suoni gutturali, gli pareva di essere finito in mezzo ai turchi di Berlino. Ci potrebbe essere una spiegazione per questa cosa: gli esperti, etnologi e linguisti, consigliano di porre attenzione ai nomi dei paesi sul Lago di Como: Onno, Nesso, Lenno, tutti nomi greci. Altri studiosi hanno notato l’alta percentuale di capelli ricci e crespi tra gli abitanti di quelle parti, non immigrati ma proprio indigeni da generazioni; e ci si è ricordati che ai tempi dell’Impero Romano (quindi, duemila anni fa) furono mandati da queste parti molti coloni di origine greca, o magari della zona che oggi corrisponde alla Turchia. Più avanti negli anni, i genetisti hanno avanzato l’ipotesi che lo stesso tipo di aspetto fisico e di capigliatura, o simili, si trovi in Inghilterra per lo stesso motivo: “truppe romane”, si dice comunemente, ma molti soldati “romani” erano in realtà di origine africana, o mediterranea nel senso più vasto. Dato che questa immigrazione risale a duemila anni fa, o magari anche di più, è più che naturale che se ne sia persa la memoria.
Concludendo, o provando a concludere per oggi, ricordo che a metà anni ’80 si cominciarono a stampare dalle mie parti dei calendari “in comasco”: virgolette d’obbligo, perché il dialetto comasco non esiste, esistono invece “i” dialetti comaschi (per noi comaschi vicini a Milano, il tremezzino di Davide Van de Sfroos è quasi una lingua straniera). Su quel calendario, invece di scrivere i nomi dei santi c’era scritto l’articolo “il”, come si fa in famiglia: il Giuseppe, il Francesco, eccetera. Trattandosi comunque di dialetto comasco, ne risultava una fila verticale di “ul” davvero impressionante: ul Giüsepp, ul Francesch, ul Mansuett, ul Carlo, ul Costantìn, e per fortuna ogni tanto anche l’Ernèst, l’Enrico, la Caterina, la Teresa, la Carla. Rimane da riportare il nome di quel calendario, volutamente antico: Ul tacuin, cioè “il taccuino”.
(le immagini vengono da vecchi numeri del "Corriere della Sera", l'articolo era sul "Venerdì di Repubblica": facendo clic si legge bene tutto, o almeno lo spero)

domenica 15 aprile 2012

Fumo e vapore

Un errore molto comune, che vedo fare continuamente anche nei telegiornali, è quello di confondere il fumo con il vapore. Si tratta di due cose molto diverse: il vapor d’acqua è bianco come le nuvole, il fumo può avere varia forma e natura (dipende da cosa sta bruciando) ma raramente è bianco e soffice come il vapor d’acqua. Di solito, il fumo varia dal nero più nero (soprattutto se sta bruciando della plastica, o nafta, o gasolio) al grigio-bianco di quando brucia la legna secca (grigio fumo, insomma), con varianti colorate se sta bruciando qualcosa di particolare, magari anche spettacolari se va a fuoco qualcosa come un deposito di fuochi d’artificio, o simili. Il vapore acqueo invece è sempre vapore, acqua evaporata che soprattutto d’inverno (per il freddo) assume caratteristiche molto simili a quelle delle nuvole. Anche la scia degli aerei, in alto nel cielo, è quasi sempre vapore di condensazione.
Ovviamente, questo non significa che il fumo sia sempre pericoloso e che il vapore sia sempre innocuo; il fumo può essere del tutto innocuo (al massimo qualche colpo di tosse) e nelle ciminiere e camini moderni ci sono sistemi di abbattimento delle sostanze pericolose, mentre nel vapore possono essere presenti sostanze pericolose (basterà pensare alle piogge acide, o alla radioattività del dopo Chernobyl), ma di solito la presenza del vapore ha un’origine molto più tranquilla.
Quasi tutte le fabbriche, infatti, hanno bisogno del vapore. In quasi tutte le fabbriche, tranne forse le metalmeccaniche, c’è una caldaia pensata apposta per produrre vapore: il vapore serve per impedire che gelino le tubature d’inverno, per sciogliere o per rendere liquidi i prodotti da usare, o magari semplicemente per la pulizia delle macchine. Quando io ho cominciato a lavorare, non erano ancora in commercio gli elettrodomestici casalinghi tipo “vaporetto”, ma nell’industria il vapore si usava da sempre: niente pulisce e sgrassa come il vapore, che però non è facilissimo da gestire e richiede mani esperte. Si sa bene, del resto, che anche una pentola a pressione può essere pericolosa se gestita male, che anche un ferro da stiro a vapore richiede valvole e guarnizioni che tengano bene, ormai il vapore è un’esperienza comune anche nelle nostre case. Eppure il vapore fa sempre un po’ impressione, quando lo si vede; e molti, moltissimi, dicono ancora che “i camini fumano” anche quando si tratta, con ogni evidenza, di vapore d’acqua.
Cos’altro aggiungere? Molte cose, moltissime, oppure niente; per oggi mi accontento di riportare qui il ricordo di un fatto successo nella ditta dove lavoravo, che produceva saponi e detersivi e quindi aveva tra le sue materie prime molti grassi e molte cere, roba che d’inverno gela e diventa durissima, ma che veniva pompata dai serbatoi mentre era nella sua fase liquida: cioè a caldo, anche a temperature non altissime ma comunque a caldo - come la cera delle candele, per intenderci. Nel gelido inverno 1984-85 (io non lavoravo ancora lì, ma me l’hanno raccontato) la ditta era stata appena rilevata da una multinazionale, e non tutto funzionava ancora a regime. Per farla breve, i capi si “dimenticarono” di pagare i caldaisti, perché farli lavorare su tre turni, anche a Natale e Capodanno, mentre la ditta era chiusa, sembrava una spesa eccessiva. L’anno prima era andata benino, quell’inverno fece un freddo eccezionale e poi nevicò per tre giorni filati: tutte le tubazioni erano otturate, e fu necessario un grande spreco di vapore, e molti giorni di lavoro, per far ripartire tutto. Da allora, la caldaia fu sempre mantenuta accesa, Natale Capodanno ed Epifania comprese: nelle fabbriche serie si fa così, da sempre. Chi ha mai detto che il personale è un costo? Evidentemente, chi lo dice è una persona che non ha mai lavorato...
(le foto che pubblico qui vengono da un blog precedente, non le avevo scelte io e quindi non saprei indicarne la fonte, cosa della quale devo fare ammenda).

sabato 14 aprile 2012

Il mondo secondo Passera

Aver bisogno delle Poste, e arrabbiarsi: quante volte vi è successo, di recente? L’elenco dei disservizi è lunghissimo, ogni giorno ne spunta uno nuovo: dalle code cervellotiche e interminabili alla mancata consegna della corrispondenza (anche quella urgente), dalle risposte idiote (“l’ufficio dei postini è nell’edificio accanto, si rivolga a loro”) fino al blocco di quattro giorni consecutivi (quattro giorni consecutivi) di tutti i servizi, verificatosi pochi mesi fa, se si comincia a parlarne non si finisce più. Si tratta di disservizi nuovi, a volte nuovissimi: li ha introdotti Corrado Passera, che una decina d’anni fa era il Grande Capo delle Poste. Non che prima le cose andassero a meraviglia, ma - quantomeno - tutti gli sportelli facevano tutte le funzioni: io entravo, mi mettevo in coda, il più delle volte bastava avere un po’ di pazienza, non importa che cosa avevo in mano, se un bollettino da pagare, un versamento, una cartolina da spedire, un pacchetto: ogni ufficio andava bene, non c’era da star lì col naso alzato a guardare un tabellone, quand’eri davanti all’impiegato bastava un timbro, e potevi andar via. Come utente, come cittadino, è questo che mi interessa: di tutto il resto, cioè della valanga di nuovi servizi introdotti dalla gestione Passera, non so cosa farmene. Per esempio, ho già una carta di credito: la accettano in tutta Europa, probabilmente in tutto il mondo, perché Poste Italiane deve fare storie?

Dopo le Poste, Corrado Passera andò a dirigere una Banca, una delle più importanti d’Italia. Sotto la gestione Passera, mi sono trovato a pagare tutto: ma proprio tutto, a meno che non sia io quello che lavora. Da casa, col computer, se lavoro io, che non sono ragioniere né commercialista e che posso sbagliare, è tutto gratis; se ho bisogno di un impiegato, pago salato. Tenuto conto che la Banca ex Passera ha in deposito e in gestione un bel pacchetto di soldi miei, che sono soldi veri, non fuffa, roba guadagnata, contanti, liquidità, mi sembra davvero un furto: ma così volle Passera, e mi tocca accettarlo.
Adesso, Corrado Passera è ministro: un ministro importante, da lui dipende il futuro dell’Italia intera, da lui ci si aspettano le misure per il rilancio dell’Economia e dell’Industria, la fine della recessione, la ripresa dell’occupazione. Avendo visto cosa ha fatto Corrado Passera alle Poste e in Banca, posso immaginarlo: licenziamenti, dismissioni, chiusure di uffici, aumento della burocrazia (cosa sono quei numerini e quei tabelloni nelle code di Poste Italiane, se non burocrazia trionfante?), eccetera eccetera. Il resto del discorso lo lascio fare a chi mi legge, tanto come funzionano Poste e Banche lo sappiamo tutti.

Mi si obietterà: pareggio di bilancio, attivo, non più debiti. Ok, ma a fare il manager così siamo capaci in tanti: se chiudi metà degli uffici, se licenzi tre quarti del personale, se fai pagare quello che prima era compreso nel servizio, eccetera, arrivare al pareggio e all’attivo è facile. E’ un po’ come se una famiglia si rivolgesse a un consulente e il consulente gli dicesse: avete tre figli, vendetene uno, magari anche due. Un’ottima proposta, il bilancio familiare ne trarrebbe sicuro giovamento; la scommessa invece, la vera scommessa per un manager vero, è far funzionare le Poste consegnando la Posta, far funzionare le Banche aiutando i clienti onesti, far funzionare le Ferrovie mantenendo e rinforzando le linee per i pendolari, eccetera eccetera eccetera.
La generazione di manager cresciuta in questi ultimi trent’anni è una cosa spaventosa. Ce la prendiamo spesso con i politici, ma i manager non sono certo migliori; l’unica vera ricetta per far ripartire questo Paese è un cambiamento culturale netto rispetto a quello thatcheriano-liberista, ma non succederà mai. Non può succedere, perché le nuove generazioni, i ventenni, sono quasi tutti in giro con una cuffietta nelle orecchie e gli occhi fissi sullo smart phone: in queste condizioni, lo si ammetterà, è difficile accorgersi del mondo che ci circonda, e di come sta il nostro prossimo.

PS: a proposito, che fine ha fatto il dibattito sulle nostre radici Cristiane? Non se ne parla più, forse nel frattempo qualcuno ha letto il Vangelo e ha capito di cosa è fatto veramente il messaggio di Gesù Cristo...(troppo scomodo, meglio lasciar perdere, il mondo secondo Passera è sicuramente meno faticoso: a patto di avere tanti soldi in tasca, s’intende).
PPS: aggiornamento al 23 aprile 2012: Poste Italiane farà a meno di duemila dipendenti nei prossimi due anni, cioè niente più postini. Una volta, si chiamavano licenziamenti: oggi si tratta solo di lasciare a casa dei precari. E' la ripresa, signori.
AGGIORNAMENTO al 26 ottobre 2012: il ministro Passera, intervistato in tv da Maurizio Crozza, si mostra gioviale, felice e contento. Beh, se non è soddisfatto lui... (dice anche che le Poste prima non funzionavano, adesso sì: a dire il vero, io da quando è arrivato Passera ho dovuto disdire tutti gli abbonamenti alle riviste che avevo da vent'anni...mi arrivano ancora delle offerte, perfino col 75% di sconto, ma non mi riabbono per non prendere rabbia visto come funzionano le Poste - ma certo, se Passera è contento, se il ministro Passera è soddisfatto...)

lunedì 9 aprile 2012

Samadhi

Elémire Zolla, da "Archetipi":
(...) Samàdhi denota la mente quando si sia sganciata da tutto ciò che di norma la impegna, dopo che si è distolta dall'occhio vagante, dall'avido udito, dalla lingua golosa, dall'elettrica pelle e, scendendo nell'intimo, dall'incessante rammemorare, dall'inquieto immaginare. (...) La persona che sta vivendo l'esperienza metafisica può sembrare a chi la osservi da fuori tutta presa dagli eventi e di fatto li affronta lucidamente e con prontezza. (...) Si può vivere a fianco d'un uomo in samadhi senza notarlo: sbriga le sue faccende e lo si crede coinvolto, si proiettano su di lui i comuni sentimenti e non si ricevono smentite.
Una condizione puramente interiore è priva di connotati. Le metafore con le quali se ne parla designano fatti esterni e perciò falsificano, a cominciare dall'alternativa geometrica di dentro/fuori, esterno/interno. Quando in samàdhi, si è immedesimati in se stessi, eppure si ingloba il mondo circostante; si è ritirati nella propria interiorità e allo stesso tempo espansi nella natura; tanto si è consapevoli quanto impersonali. Nell'esperienza metafisica sfuma la differenza fra “io sono” ed “è” (...) Chi avverte estaticamente l'unità di se stesso e dell'essere, considera illusoria la molteplicità degli eventi, perciò, quando si presentano, non fa scattare la Biade automatica bene/male, amico/nemico. Si lascia attraversare, come un mare, uno specchio.
Il rovescio di samàdhi è ciò che i vecchi psichiatri chiamavano nevrastenia, l'indugio accigliato e penoso sulle cose, che ogni sensazione centellina e cincischia, su ogni immagine vagabonda indugia: non c'è circolazione, nitore mentale, e la psiche si smarrisce in un'incessante fantasticheria.
Il paradosso del nevrastenico è che sta agglutinato all'irrilevanza dei fatti come tali, e allo stesso tempo, fantasticando, ne annebbia i contorni. Si accanisce sull'esistenza bruta e trascurabile, mai illimpidita dalla meditazione, mai depurata dal raccoglimento; dell'esperienza metafisica è ignaro o si è persuaso che sia un vago intontirsi. (...) La psiche indiscriminante, nuda e vulnerabile del nevrastenico è inchiodata alla molteplicità tormentosa e irredimibile del mondo, che in samàdhi viceversa si sorvola senza restarne suggestionati, come una libellula sfiora il pelo dell'acqua: in samàdhi il mondo si inspira e si espira obliosamente.
Gli ufficiali di marina si allenavano a entrare in samàdhi quando erano messi di vedetta ad avvistare sommergibili; dovevano poggiare lo sguardo sull'estremo orizzonte senza mettere a fuoco nessun tratto di mare; così i monaci un tempo apprendevano a tenere lo sguardo sulla linea d'orizzonte della vita, a non tornare sugli eventi trascorsi, a schivare il compiacimento e l'indugio su se stessi, sorvolando il fiume della realtà e scartando i sogni di veglia.
(...)
Ai concerti si ha l'occasione di isolare e precisare quel che è samàdhi. Quando l'esecuzione è conclusa, il silenzio che segue trabocca della sostanza musicale appena trascorsa, è gremito dei suoi significati. L'ultima armonica s'è dileguata nell'aria, per un istante attonito non si sente più nulla, ma tutti i suoni dell'esecuzione sono compattamente presenti. L'applauso ancora esita; del pezzo musicale perdura l'essenza pura, il brivido. La composizione è ora concentrata in sintesi, in un punto, davanti a noi, dentro di noi, così come comparve in germe davanti al compositore, dentro di lui quando la mano gli corse febbrilmente ad annotarla. Nel silenzio che s'è spalancato, si libra l'anima della composizione; dopo le esitazioni, le insistenze, le tante invocazioni del suo svolgimento. Nell'attimo estatico della fine, l'insieme si staglia quale fu prima di assumere una veste sonora. L'ascoltatore non è in contatto con la musica stessa, che è stata eseguita, ma con la sua essenza generatrice, con la possibilità pura che l'ha fatta esistere, con come è più che con ciò che è.
L'intollerabile, estatica fusione dell'ascoltatore con la musica, l'identità di soggetto e oggetto, fa scoppiare l'applauso. Questa fusione non avviene peraltro soltanto alla fine ma, relativamente, in proporzione, per anticipo ad ogni pausa nel corso dell'esecuzione.  (...) Quando la triade dell'ente conosciuto, del conoscitore e della conoscenza forma un'unità, il conoscitore non ricorda più di essere una persona particolare e limitata, e perciò si prefigge la particella negativa “a” e risulta asafnprajnata samàdhi, un significante il cui significato si può «vedere»: è l'ascoltatore rapito, le mani plaudenti, gli occhi accortinati dalle lacrime, dimentico di sé, assorto in sé. Assorto in sé, nella sua essenza impersonale e infinita: «Quando questa è turbata e si disperde negli oggetti molteplici, si chiama mente; quando è persuasa d'una sua intuizione, si chiama intelligenza; quando stoltamente si identifica con una persona, si chiama io; quando invece di indagare in modo coerente, si frammenta in una miriade di pensieri vaganti, si chiama coscienza individuale. Quando il movimento della coscienza, trascurando l'agente, si protende verso il frutto dell'azione, si chiama fatalità (karma); quando si attiene all'idea "l'ho già visto prima" in rapporto a qualcosa di visto o di non visto, si chiama memoria.
Quando gli effetti di cose godute in passato persistono nel campo della coscienza anche se non si vedono, si chiama latenza inconscia. Quando è consapevole che la molteplicità è illusoria, si chiama sapienza. Quando, in direzione opposta, si oblia nelle fantasie, si chiama mente impura. Quando si intrattiene nell'io con le sensazioni, si chiama sensibilità. Quando resta non manifestata entro l'essere cosmico, si chiama natura. Quando crea confusioni tra realtà e apparenza, si chiama illusione (maya). Quando si discioglie nell'infinito, si chiama liberazione.  Pensa: "sono legato" e c'è l'asservimento; pensa: "sono libero" e c'è la libertà». Così enuncia tutta la metafisica in compendio Vasistha nel dialogo con Brahma dello Yogavasistharamayana, che risale a tra il sesto e il decimoquarto secolo: tale ne è la limpidezza dei concetti e delle parole, che dei criteri di datazione si fa beffe.
(Elémire Zolla, da “Archetipi”, edizioni Marsilio, il primo capitolo)
Elémire Zolla scriveva regolarmente sul Corriere della Sera, ed è lì che l’ho incontrato e ho cominciato a leggerlo; solo in seguito ho cominciato a cercare i suoi libri, e a leggerli. Come si vede, non ho fatto una gran fatica: il Corriere della Sera lo si trovava facilmente, alle volte anche senza pagare, nei bar, o in casa di qualche parente. Oggi nessuno scrive più di queste cose, né sul Corriere né altrove; non con questa chiarezza e non con questa competenza, intendo.
La questione è molto più interessante di quello che sembri a prima vista, perché Zolla parlava e scriveva, su un quotidiano a grandissima diffusione, di cose esoteriche. Esoterico significa intimo e segreto, riservato a pochi: scriverne e parlarne sul Corriere sembrerebbe quindi un controsenso, ma così non è, ed è Zolla stesso a spiegarlo in molte sue pagine: questi testi non sono esoterici perché riservati a pochi eletti, ma al contrario sono aperti a tutti ma pochi (pochissimi) hanno la costanza di leggerli, di informarsi, di porsi delle domande, di andare appena un po’ oltre l’apparenza delle cose. Ed è per questo che nel portare qui queste pagine ho fatto molti tagli: ne chiedo scusa a Zolla (ovunque egli sia) ma l’ho fatto perché mi sono reso conto, e non da oggi, che non tutti arrivano a concentrarsi sulle parole giuste.
L’esoterismo è riservato a pochi: non perché ci siano segreti da da mantenere, roba oscura da iniziati, ma perché a pochi interessa, pochi se ne occupano. Molte persone vedono, ridono, evitano con cura di approfondire. In poche parole, non ci arrivano: non ci arrivano neppure con il Vangelo, neppure con la nostra religione cristiana che pure dovremmo imparare fin da piccoli; figuriamoci l’esperienza del samadhi, che al più verrà accolta “alla Alberto Sordi”, come nei film di Verdone e di Fantozzi; e invece l’esperienza raccontata qui da Zolla è quotidiana, non c’è bisogno di essere dei “santoni” per provarla.
A me piace molto questa pagina, per esempio, perché ai concerti ci sono stato, ed è proprio così: un’esperienza comune, quindi, che ho condiviso spesso con altre millecinquecento o duemila persone, in una sala da concerto o magari alla Scala (dove entravo come loggionista: costava meno che andare al cinema).
C’è comunque una giustificazione per il comportamento superficiale di molti di noi, ed questa: appena ci si muove in questi campi, è molto facile trovare dei cretini o dei truffatori. Insomma, una persona come Elémire Zolla non è facile da trovare; molto più facile trovare qualcuno che cerca di approfittarsi di noi o dei nostri soldi. Ed è questo, purtroppo, che spinge alla prudenza nel trattare anche gli argomenti più belli, come quelli di cui, ancora oggi, ci parlano Elémire Zolla o Fosco Maraini nei loro libri.
Elèmire Zolla (da pronunciare El-Emir, se non ricordo male) nasce a Torino nel 1926, da madre inglese e padre italiano. E’ stato uno dei più grandi studiosi italiani di storia delle religioni, ed è anche un ottimo scrittore; ma tutto questo ne dice poco, forse si fa più presto a dire che era un’enciclopedia vivente, un uomo che aveva viaggiato molto e visto molto, e che aveva letto molti libri in molte lingue – i libri giusti, sia ben chiaro – e che sapeva raccontarli. Una curiosità su “Archetipi”: il libro è stato scritto in inglese, e pubblicato prima a Londra (nel 1981) e poi a New York, in Giappone, e in molti altri Paesi: la versione italiana è a cura di Grazia Marchianò.

lunedì 2 aprile 2012

Parco delle Basiliche

Partendo da Piazza del Duomo, si percorre tutta la via Torino (è sul lato opposto rispetto alla Galleria) e si arriva a San Lorenzo, ben riconoscibile per via delle colonne romane. Bisogna camminare per una decina di minuti, perché via Torino è piuttosto lunga (magari anche più di dieci minuti: in via Torino c’è sempre un sacco di gente), andare sempre diritti, e aver fede nella mia indicazione. San Lorenzo è la prima delle due basiliche che danno il nome al Parco, l’altra è Sant’Eustorgio, non molto distante: se siete arrivate a piedi, bisogna attraversare via Molino delle Armi (sotto c’è il Naviglio) e prendere per Porta Ticinese.
Le basiliche si trovano facilmente, più difficile è individuare il Parco, soprattutto se ci si aspetta qualcosa come il Valentino, o come quelli delle città tedesche: più che un Parco vero e proprio, di quelli pieni di alberi, è un’ampia zona verde. A Milano di zone verdi ce ne sono poche, quindi anche questo poco è una benedizione per i milanesi.
Le due chiese sono molto antiche, e molto belle; la basilica di Sant’Eustorgio è collegata al culto dei Re Magi, lì vicino c’è il Museo Diocesano, c’è la Cappella Portinari, tante cose da vedere che si meritano di essere trattate a parte. Per oggi mi concentro sul Parco: che nasce negli anni ’20, al tempo della copertura dei Navigli, e che viene ampliato dopo il 1945, quando molte delle abitazioni che erano in quel posto vennero distrutte dai bombardamenti. Le case furono ricostruite altrove, qui si fece un po’ di verde: mi viene da pensare che oggi non sarebbe così. Probabilmente, ci farebbero un centro commerciale o un grattacielo, o magari una new town: più in là di queste tre cose, gli amministratori del secolo XXI non sono capaci di andare, né sanno pensare che ci sia un’alternativa al centro commerciale, al grattacielo, alla new town.
A questo proposito, il mio pensiero corre al maestro Claudio Abbado: che un paio d’anni fa propose di tornare a dirigere a Milano, la sua città, devolvendo il suo compenso all’ampliamento dei parchi milanesi. Centomila alberi in più, si diceva: il sindaco Letizia Moratti si dichiarò entusiasta, ma era solo una promessa elettorale. Alcuni spiritosi proposero di mettere gli alberi nei vasi, invece di piantarli per terra (così si accontentava il Maestro, e poi si tornava subito come prima), ma vedo che la proposta è stata completamente dimenticata, la giunta Pisapia non ne ha mai parlato, Claudio Abbado penso che lo sapesse in partenza e ha continuato a dirigere un po’ ovunque (anche gratis, lo fa spesso) ma non a Milano. Insomma, accontentiamoci di quel che c’è: che sia rimasto qualche angolo vivibile a Milano è già un successo.
Per quanto mi riguarda, questa zona è stata una delle prime che ho vissuto, a Milano. Non perché fossi un habitué della zona, ma perché qui c’era la Fiera di Sinigaglia, negli anni ’70 venivo qui a comperare i dischi di seconda mano. Avevo sedici o diciassette anni, erano i primi anni che mi interessavo di musica, non mi sembrava vero di trovare per pochi soldi quello che in negozio costava una fortuna. Eravamo in tanti, niente di organizzato, ognuno con i suoi 33 giri da scambiare o da vendere; è così che ho potuto imparare a conoscere tante cose (non solo la musica commerciale), ed è così che ho portato a casa i miei primi dischi di musica classica (Stravinskij diretto da Abbado, Schubert con Sviatoslav Richter al pianoforte). Ne ho riparlato di recente con un amico di quei tempi, ritrovato per caso: ci siamo messi a ridere, abbiamo concluso che oggi ci metterebbero tutti in galera.
E’ l’ossessione odierna della “pirateria”: ma io poi, da adulto, sono stato uno di quelli che tenevano in piedi il commercio legale, e come me tanti altri. Ho comperato tanti dischi e tanti cd, nei negozi: quando ho avuto i soldi, ho iniziato a comperare; quando ho potuto conoscere, sono andato a cercare e a comperare, tutto con bollino Siae. Ma a sedici o diciassette anni, cosa volevate che conoscessi, che sapessi? Quanti soldi ha in tasca un ragazzo di sedici anni, uno che non sia “figlio di papà”? Per me è stata un’esperienza fondamentale, oltretutto è da qui che ho imparato a conoscere Milano, da provinciale. Di Milano non sapevo niente e mi ci sono perso un bel po’ di volte, qui nel Parco della Basiliche: oggi mi viene da sorridere, a ripensarci; ma a dire il vero da questo punto di vista non sono cambiato molto, continuo a perdermi anche da adulto. Non ho mai avuto un gran senso dell’orientamento: il più delle volte è un difetto, ma qualche volta perdersi aiuta a trovare cose nuove, a vedere con il punto di vista degli altri, insomma non è che sia sempre un male, perdere la strada: a patto poi di ritrovare la via giusta.
Di quegli anni ricordo un cartello stradale, via Calatafimi: era lì sotto, su quel marciapiedi, che ci si appoggiava. C’era già gente organizzata, centinaia di dischi messi in fila nelle scatole di cartone: non so cosa abbiano poi fatto questi ragazzi, dai trent’anni in su, di certo anche questo era un inizio di imprenditoria, praticamente un negozio ma all’aperto. Volevo tornare per farci una foto, ma oggi in quelle vie non c’è niente, e capisco bene che i residenti se ne siano lamentati a lungo, perché questa non era zona da fiere e da mercati. In seguito, la Fiera di Sinigaglia si sarebbe spostata in un luogo più consono, la Darsena (zona Porta Genova); oggi esiste ancora ma è confinata in un luogo molto triste, il parcheggio della Stazione di Porta Genova. Tutto è meno eroico e meno divertente, si trova ancora qualche buona occasione (libri e fumetti, cd e dvd), ma la Milano d’inizio millennio è di un colore solo: il grigio.
PS: molti scrivono “Fiera di Senigallia”: la questione è dibattuta da sempre, esistono le due versioni, da sempre; ma io preferisco la mia versione, anche perché Senigallia è nella Marche e invece Sinigaglia è un cognome lombardo. Può ben darsi che la dizione originale sia Senigallia, così come i librai venivano da Pontremoli può ben darsi che i rivenditori di cose usate fossero marchigiani; ma dire Fiera di Senigallia mi sembra tutto troppo levigato, troppo elegante. Sinigaglia è più brusco, più dialettale, in una parola sola: più vero (il che può anche significare che, con i tempi piallati che corrono, oggi è più esatto dire Senigallia...)
PPS: di quegli anni, mi porto due dietro due rimpianti. Ovviamente, due ragazze: nel dettaglio, quella che mi ha venduto i dischi di Tim Buckley (25.9.1976) e quella che mi ha venduto “Songs of love and hate” di Leonard Cohen (7.10.1978). La prima aveva tutti i dischi di Tim Buckley, io ero ancora un po’ sprovveduto e ne ho comperati solo due (era con il fratello, mi pare), gli altri li avrei cercati e per fortuna trovati negli anni successivi, ma non da lei. La seconda era in tutto identica alle ragazze che si vedono sulle copertine dei primi dischi di Cohen: è per questo che me la ricordo ancora.
(alcune di queste foto sono mie, ma non dico quali)