sabato 25 luglio 2009

A proposito di tagli alla cultura

Ecco una piccola lista di cose e persone, necessariamente incompleta, che un ragazzo di 15 o 20 anni non ha mai visto in tv (tantomeno sulla Rai, servizio pubblico): Charlie Chaplin, Buster Keaton, un concerto di Beethoven, un’intervista a Claudio Abbado, un’opera lirica, il teatro di Pirandello, l’hockey su ghiaccio, il curling, Carlos Kleiber, un quartetto d’archi, il basket NBA, Raoul Casadei, “Rashomon” di Kurosawa, “La strada” di Fellini, un balletto classico, un balletto moderno, un cantastorie siciliano, un fisarmonicista vero, eccetera eccetera eccetera.
Quand’ero ragazzo io, e fino a una decina d’anni fa, queste cose in tv passavano con grande facilità. Insomma, c’era la possibilità di farsi un’idea del mondo indipendente dalle campagne pubblicitarie e da tutto il resto che tanto piace a chi ci comanda oggi. O, per dirla meglio: “Alcune sere fa si è verificata a Roma una concomitanza di eventi. All’Auditorium, Claudio Abbado dirigeva la Settima Sinfonia di Mahler; al teatro Sistina, Enrico Montesano debuttava con il suo varietà “Noio vulevam savuar”. Con tutto il rispetto per Montesano, i due eventi erano assolutamente incomparabili. Ad ascoltare Mahler c’era il Presidente della Repubblica; a vedere il varietà c’era Silvio Berlusconi. Ognuno passa le serate come crede, ovviamente; ma, passandole come crede, si rivela. In cinque anni, il capo del Governo non ha mai, dico mai, manifestato il minimo interesse, la minima premura, per libri, cinema, teatro, arti figurative, musica, insomma la cultura. Dirò di più: questa parola, “cultura”, egli non l’ha mai pronunciata. Ci meravigliamo se, dal profondo della sua insensibilità, egli abbia detto sul teatro d’opera, a cominciare dalla Scala, le offensive sciocchezze che ha detto? (…)” (Corrado Augias, 21 ottobre 2005, La Repubblica- rubrica lettere)

I portici di Santa Maria Novella

Tre anni fa, il 23 giugno del 2002, ero a Firenze e faceva un caldo boia, prologo a quello memorabile che sarebbe venuto l'anno seguente, e che sarebbe durato quasi tutta l'estate. Era quasi mezzogiorno, ed ero dentro Santa Maria Novella; stavo pensando a dove andare a ripararmi dal caldo, ma nei portici del chiostro c'era un quartetto d'archi, e stava per iniziare un concerto. E così mi siedo su un gradino, in un angolo ben riparato, e mi metto in ascolto con le altre persone presenti. E si stava bene, sotto gli antichi portici, nell'atrio dell'antico chiostro. Ogni volta che si parla di caldo, del gran caldo (e lo si è fatto spesso, soprattutto nei tg, in questi ultimi anni...) ripenso a quel mio mezzogiorno fiorentino, e all'abilità di quegli antichi costruttori, che sapevano bene cosa stavano facendo e perché lo facevano. Oggi abbiamo dei materiali migliori, almeno in teoria: ma si costruiscono cose senza senso, in cemento, senza alberi, senza portici (costano troppo e non portano soldi), in fretta; e sembra quasi che gli architetti, quando li lasciano lavorare, s'inventino forme strabilianti solo per distinguersi gli uni degli altri, ma senza una vera utilità pratica per chi, poi, nelle città ci dovrà vivere.
E invece io quel giorno a Firenze, come i fiorentini dei secoli passati e lontani, mi sono riparato dal caldo e sono stato bene per un'ora. A proposito, il programma del concerto era questo: Haydn, Quartetto in re maggiore op.65 n.5 "L'allodola" ; Cherubini: Quartetto in fa maggiore n.5, op. post.; Mozart: Rondò "in una pagina sola". Intorno a me, gli affreschi di Paolo Uccello (danneggiati dall'alluvione del 1966, che peccato); e, sulle colonne, una decorazione fantastica con uccelli simili a gufi o barbagianni, decisamente curiosa e molto rossiniana, sui quali vanno a posarsi i passeri e i piccioni, incuriositi o forse disturbati dal concerto. All'ora canonica, le campane di Santa Maria Novella si fanno sentire e il primo violino s'interrompe per un attimo, sorridendo e indicando il cielo con l'archetto: ubi maior... A fine concerto, all'uscita nella piazza assolata, i piccioni sostano sulle quattro tartarughe alla base dell'obelisco col giglio, e paiono formare una strana bestia, forse una nuova specie d'ippogrifo pronta a volare via (ma, forse, è solo l'effetto del caldo che torna a farsi sentire nella mia testa...)

Folon

- Quando vengo qui a Firenze vado a cercare le ali degli angeli di Beato Angelico: all’epoca di Beato Angelico c’era lo specialista per le ali degli angeli, così come c’era lo specialista per le nuvole, lo specialista per il viso della Vergine. C’erano specialisti che andavano da una bottega all’altra per disegnare le loro specialità, così non è dato sapere chi ha fatto cosa. So soltanto che quando guardo le ali degli angeli del Beato Angelico resto assolutamente meravigliato, e cerco di copiarle perché sono bellissime.
(Jean Michel Folon, da Repubblica del 22.9.2005)
Mi ero abituato all’idea di avere Folon tra i miei contemporanei. Lo conoscevo ormai da tanti anni e, come per tutti, era stato amore a prima vista. Mi piaceva l’idea, anche nei momenti più bui (come questo che stiamo passando) che Jean Michel Folon fosse da qualche parte, in quello stesso momento, a dipingere qualcosa di bello. Perché di sicuro era qualcosa di bello, quello che Folon stava dipingendo; bello come la colomba della pace che ci tiene compagnia da tanto tempo, per esempio: una delle tante colombe dipinte da Folon.
Giuliano, 20.10.2005

Renoir e Courbet ( II )

Renoir e Courbet, n.2
Lì vicino, la "fucilazione" di Manet, un piccolo quadro che ricorda il famoso Goya e che anticipa Picasso. E, di Monet, una "Veduta di Londra sotto la nebbia" che si direbbe un Folon. Tra i disegni (acqueforti) di Manet è bello il frate domenicano che dice: Silentium! Ma sull'altra parete ci sono i disegni di Auguste Renoir, ce ne sono tanti e molti sono capolavori. Poi risalgo, torno indietro e mi metto davanti ai quadri più famosi, finalmente liberi e abbastanza osservabili. E' sempre così nelle grandi mostre, e nei musei: i quadri più famosi sono quelli che si vedono peggio, perché c'è sempre molta gente intorno, magari intenta a fare inutili fotografie e filmati più o meno clandestini. Molto spesso ci sono sorprese, il quadro famoso che hai visto tante volte riprodotto sui giornali è più grande o più piccolo di quello che pensavi, e i colori sono sempre diversi (i colori giusti non vengono mai, sulle foto). Molto spesso c'è anche la delusione ad attenderci, di solito per via dell'illuminazione: troppa luce o troppo poca, o mal disposta ( terribili i riflessi di luce sui dipinti ad olio! ma illuminare bene i quadri è un'arte difficile). Ma qui non ci si può lamentare, le mostre sono sempre ben studiate e l'ambiente è giusto, né troppo grande né troppo piccolo, e ben illuminato. In questa mostra, il mio secondo quadro preferito è "La lezione di scrittura" di Renoir: dove Renoir figlio sembra una bambina, con i lunghi capelli biondi. E il viso del bambino rimanda alla simpatica faccia, quasi da uomo di neve, di Jean Renoir adulto come appare nel personaggio di Octave, in "La regola del gioco": ma questo è un altro discorso, e prima o poi bisognerà tornarci sopra, prima che troppa televisione e troppi videogames cancellino del tutto l'opera dei Renoir, padre e figlio.

Renoir e Courbet ( I )

Renoir e Courbet, n.1
(La mostra di Renoir è del 2002, a Milano alla Fondazione Mazzotta)
Come al solito, tutta la gente blocca l'ingresso. E dunque corro avanti, ben sapendo che poi sulle prime opere in mostra potrò tornare in seguito, quando potrò guardarle meglio. Intanto dò un'occhiata veloce in giro, poi vado al piano di sotto e vedo il primo capolavoro vero, il "campo di papaveri" di Alfred Sisley. E poi due bronzi molto belli: la modella è, con ogni evidenza, la madre di Jean, il grande regista francese figlio del pittore. Si vede subito, i lineamenti sono i suoi, cher Octave... (il padre non gli somiglia affatto). Sono moltissimi i ritratti della madre di Jean Renoir, ben riconoscibile dal viso paffuto, dolce ma non bellissimo. E' inevitabile pensare ai grandi film di Renoir figlio, a "La grande illusione", per esempio; e soprattutto a "La regola del gioco". Poi mi cade l'occhio sui Courbet, che lì per lì avevo un po' snobbato. Sono bellissimi e sarà quello che più mi porterò dietro. Sono paesaggi marini, onde, e boschi al tramonto... La prima volta che li guardo resto un po' deluso. Courbet è un pittore che amo molto, e mi aspettavo qualcosa in più. Ma è solo dopo dieci minuti, e dopo aver fatto due volte il giro della mostra, che comincio a vederli veramente, ed è stato magnifico. Li ho guardati di sbieco, con la coda dell'occhio, uscendo dalla "saletta" dei bronzi: e così ho colto la loro vera natura. E' così che bisogna fare, con questi quadri. Devi far finta di non vederli, di ignorarli. Poi ti volti lentamente, senza dar nell'occhio, mentre si sono dimenticati della tua importuna presenza, e loro sono lì veri e vivi, stavano facendo qualcos'altro e li hai colti di sorpresa. Le onde si muovono lentamente, e sembra di ascoltare il rumore della risacca; e, nel bosco non più banale ma incantato, di lato, da sinistra, un bagliore lontano del sole al tramonto mostra tutti i dettagli...

Pinguini e panettoni

Pao è un tizio di Milano che dipingeva i "panettoni". Adesso pare che i nostri genii politici lungimiranti si siano accorti che i panettoni di cemento sono pericolosi: se qualcuno ci va a sbattere contro, magari in bici o in moto, rischia di farsi male. Però, chi l'avrebbe mai detto: che gran pensata...
Ma intanto Pao è triste, perché i suoi pinguini (clandestini) disegnati sui panettoni erano allegri, piacevano. Adesso pare che glieli butteranno via tutti, a Milano. Si chiede se non sia possibile salvarli, magari non tutti ma qualcuno: e pare di no, visto che è ormai accertato che sono pericolosi, e dunque vanno assolutamente banditi, a meno di ripensamenti (o mazzette?).
Non amo molto gli writers, soprattutto quelli che sporcano muri appena dipinti o palazzi antichi; e poi quasi tutti hanno gusti pessimi e fanno dei brutti disegni. Ma ci sono delle belle eccezioni, per fortuna; e se dipingono un muro di cemento, magari in periferia, e magari ci fanno sopra un bel disegno, sto di certo dalla loro parte. E dunque solidarizzo con Pao. I suoi pinguini sono davvero divertenti, e colorati. Pao è stato bravo: a Milano le occasioni per sorridere sono davvero poche, e sarebbe un peccato perderle.
(anno 2003)

Filippo e Raffaello

- Lo sai che Filippo è un artista? - mi dice Luca, in mensa.
- Filippo chi? - chiedo io, che sono di pessimo umore e mi sento poco interessato alla questione. Ma poi Luca, che fa parte del Consiglio di Fabbrica, mi spiega: Filippo è stato assunto con le nuove leggi, e quindi non è sicuro del suo lavoro. Insomma, ha un contratto a termine; pare che i "vecchi" del reparto lo vedano male e abbiano dato parere negativo alla sua riconferma, e la Direzione adesso si stia chiedendo se convenga tenerselo o se è meglio mandarlo a cercarsi un altro posto. Di questo stavano parlando, fino a pochi minuti fa, con il Capo del Personale.
Non so nemmeno se ci ho mai parlato, con Filippo, a parte le questioni di lavoro. So che prima di venire qui faceva il muratore, ma non mi ricordo più se è calabrese o siciliano; so solo che quando viene in mensa mette una quantità incredibile di peperoncino ovunque, anche nei ravioli in brodo, ed è questa - finora - la sua caratteristica che più mi è rimasta impressa.
- Filippo disegna benissimo, - insiste Luca, e mi costringe a dargli attenzione.
- Davvero?
- E' un artista, dovresti vedere che roba.
Non me lo aspettavo. Adesso che ci penso, è siciliano: almeno così mi ricordo, ma è vissuto un sacco di tempo in Germania. Forse è per questo che non ha un accento particolare, e forse è il peperoncino che mi ha sviato. Non che sia importante, però; adesso più che altro penso che forse lo lasceranno a casa, e che ha due figli piccoli e un terzo in arrivo.
La sera, alle dieci, finito il nostro turno, ci troviamo in parcheggio. C'è anche Luca, e Filippo - che è gentilissimo - tira fuori i suoi disegni dal baule della macchina, alla luce dei lampioni. Sono davvero belli: angeli, cavalli, ritratti femminili, su grandi fogli da disegno: molto grandi. Chi l'avrebbe mai detto. E che invidia, soprattutto. E' proprio vero che non si finisce mai di conoscere le persone. Mi viene da pensare che se fossimo nel XV secolo forse Filippo sarebbe impegnato a dipingere in qualche chiesa, che dipingerebbe i Santi e la Madonna in trono, e che forse il suo vecchio mestiere di muratore gli sarebbe utile nello stendere con cura un intonaco, come ben si conviene ad un pittore di affreschi.
Memorie di fabbrica, n.10 (circa 2002)
(il disegno è di Raffaello)


venerdì 24 luglio 2009

I draghi di Calvino ( IV )

«...Riflettiamo. A ben guardare, l'elemento comune delle due storie è nel rapporto con un animale feroce, drago nemico o leone amico. Il drago incombe sulla città, il leone sulla solitudine. Possiamo considerarlo un solo animale: la bestia feroce che incontriamo tanto fuori quanto dentro di noi, in pubblico e in privato. C'è un modo colpevole di abitare la città: accettare le condizioni della bestia feroce dandogli in pasto i nostri figli. C'è un modo colpevole d'abitare la solitudine: credersi tranquillo perché la bestia feroce è resa inoffensiva da una spina nella zampa. L'eroe della storia è colui che nella città punta la lancia nella gola del drago, e nella solitudine tiene con sé il leone nel pieno delle sue forze, accettandolo come custode e genio domestico, ma senza nascondersi la sua natura di belva. Dunque sono riuscito a concludere, posso ritenermi soddisfatto. Ma non sarò stato troppo edificante? Rileggo. Strappo tutto? Vediamo, la prima cosa da dire è che quella del Sangiorgio-Sangirolamo non è una storia con un prima e un dopo: siamo al centro d'una stanza con figure che si offrono alla vista tutte insieme. Il personaggio in questione o riesce a essere il guerriero e il savio in ogni cosa che fa e pensa, o non sarà nessuno, e la stessa belva è nello stesso tempo drago nemico nella carneficina quotidiana della città e leone custode nello spazio dei pensieri: e non si lascia fronteggiare se non nelle due forme insieme. Così ho messo tutto a posto. Sulla pagina, almeno. Dentro di me tutto resta come prima. »
(Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, capitolo finale)


PS: nelle immagini qui sotto, Gustave Doré (ma si tratta di Angelica e Rinaldo) e un disegno di Ugo Guarino per il Corriere della Sera, anni '80 o forse '90.

I draghi di Calvino ( III )

«...In ogni caso San Giorgio compie la sua impresa davanti ai nostri occhi, sempre chiuso nella sua corazza, senza rivelarci nulla di sé: la psicologia non fa per l'uomo d'azione. Caso mai potremmo dire che la psicologia è tutta dalla parte del drago, coi suoi rabbiosi contorcimenti: il nemico il mostro il vinto hanno un pathos che l'eroe vincitore non si sogna d'avere (o si guarda bene dal mostrare). Di qui a dire che il drago è la psicologia, il passo è breve: anzi, è la psiche, è il fondo oscuro di se stesso che San Giorgio affronta, un nemico che già ha fatto strazio di molti giovani e giovinette, un nemico interno che diventa oggetto di estraneità esecranda. E' la storia d'un'energia proiettata nel mondo o è il diario d'una introversione?
Altri dipinti rappresentano la fase successiva, (il drago steso al suolo è una macchia sul terreno, un involucro sgonfio) e vi si celebra la riconciliazione con la natura, che cresce alberi e rocce a occupare tutto il quadro, relegando in un angolo le figurine del guerriero e del mostro (Altdorfer, a Monaco; Giorgione, a Londra); oppure è la festa della società rigenerata, intorno all'eroe e alla principessa (Pisanello, a Verona, e Carpaccio nelle tele seguenti del ciclo, agli Schiavoni). (Sottinteso patetico: l'eroe essendo un santo non vi saranno nozze ma battesimo). San Giorgio conduce al guinzaglio il drago nella piazza per metterlo a morte in una pubblica cerimonia. Ma in tutta questa festa della città liberata dall'incubo, non c'è nessuno che sorrida: tutti i volti sono gravi. Suonano le trombe e i tamburi, è un'esecuzione capitale che siamo venuti ad assistere, la spada di San Giorgio è sospesa in aria, stiamo tutti col fiato sospeso, sul punto di comprendere che il drago non è solo il nemico, il diverso, l'altro, ma siamo noi, è una parte di noi stessi che dobbiamo giudicare. Lungo le pareti degli Schiavoni, a Venezia, le storie di San Giorgio e di San Girolamo continuano l'una di seguito all'altra come fossero una storia sola. E forse sono davvero una sola storia, la vita d'uno stesso uomo, giovinezza maturità vecchiaia e morte. Non ho che da trovare la traccia che unisca l'impresa cavalleresca alla conquista della saggezza. Ma se proprio adesso adesso ero riuscito a rovesciare il San Gerolamo verso il fuori e il San Giorgio verso il dentro? »

(Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, capitolo finale)



I draghi di Calvino ( II )

«...Anche nei quadri dei pittori, San Giorgio ha sempre una faccia impersonale, non diversamente dal Cavaliere di Spade delle carte, e la sua lotta col drago è una figura su uno stemma inchiodata fuori dal tempo, sia che lo si veda al galoppo a lancia in resta, come in Carpaccio, caricare dalla sua metà della tela il drago che s'avventa nell'altra metà, e darci dentro con un'espressione concentrata, a testa bassa, da ciclista (intorno, nei dettagli, c'è un calendario di cadaveri le cui fasi di decomposizione ricompongono lo svolgersi temporale del racconto), sia che cavallo e drago si sovrappongano come in un monogramma, come nel Raffaello del Louvre, e San Giorgio lavori di lancia dall'alto al basso nella gola del mostro, operando con angelica chirurgia, (qui il resto del racconto si condensa in una lancia spezzata in terra e in una vergine blandamente sbigottita); oppure, che nella sequenza: principessa, drago, San Giorgio, la bestia (un dinosauro!) si presenti come l'elemento centrale (Paolo Uccello, a Londra e Parigi) o invece San Giorgio separi il drago là in fondo dalla principessa in primo piano (Tintoretto, a Londra).»
(Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, capitolo finale)




I draghi di Calvino ( I )

Al Santuario di Saronno, la mia attenzione è attirata da un dipinto dall'aspetto buffo. Rappresenta, con ogni evidenza, un cacciatore sorridente, che posa con la sua preda. E' in una posizione di tutto rispetto, dentro la chiesa: molto vicino all'altare. Ed è anche una posizione un po' ingrata: vicinissimo agli affreschi di Bernardino Luini, e sotto il cielo d'angeli di Gaudenzio Ferrari. Il cacciatore del dipinto mi sorride contento: ha presa una bella bestia, molto grossa, che giace ai suoi piedi; e giustamente se ne vanta. Ma che cos'è, di preciso, questa preda? E cosa ci fa un dipinto così in una chiesa, per di più così vicino all'altare?
Mi avvicino alla targhetta e leggo: "Cesare Magni, San Giorgio e il drago". Il mio cacciatore è dunque un San Giorgio, e quello lì è il drago?? Che mattacchione, questo Magni... Però vedendo il suo quadro ( che risale al '500) mi è venuta in mente qualcosa di veramente bello, e vorrei rendervi partecipi di questo affioramento della mia memoria.
Il libro è "Il castello dei destini incrociati" di Italo Calvino, e questo è il capitolo finale.
(...) C'è stato pure un tempo in cui girando nei musei mi fermavo a confrontare e a interrogare i Sangiorgi e i loro draghi. I quadri di San Giorgio hanno questa virtù: fanno capire che il pittore era contento d'avere da dipingere un San Giorgio. Perché San Giorgio lo si dipinge senza crederci troppo, credendo solo alla pittura e non al tema? Della condizione instabile di San Giorgio (come santo di leggenda, troppo simile al Perseo del mito; come eroe del mito, troppo simile al fratello minore della fiaba) sembra che i pittori siano sempre stati consapevoli, cosi da guardarlo sempre un po' con l'occhio "primitivo". Ma, nello stesso tempo, credendoci: nel modo che hanno i pittori e gli scrittori di credere a una storia che è passata per tante forme, e per il fatto di dipingerla e ridipingerla, di scriverla e riscriverla, se non era vera lo diventa.
(Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, capitolo finale)

PS: il San Giorgio di Cesare Magni in rete non si trova; questo qui sotto è di Giovanni Bellini.

Paul Klee

Non è vero che gli Svizzeri ci hanno dato solo il cioccolato e l'orologio a cucù: lo diceva il personaggio interpretato da Orson Welles nel "Terzo uomo", ma la Confederazione Elvetica ci ha dato, oltre a Carl Gustav Jung, un clown meraviglioso come Grock, un altro bravo clown come Dimitri, e anche un altro bel matto come Paul Klee.
Leggo che Klee ci ha lasciato novantamila opere, tra dipinti e disegni: e sono uno più bello dell'altro. Klee disegnava e dipingeva dappertutto, e la maggior parte delle sue opere sono su carta, perciò difficili da conservare. Carta qualsiasi: carta da pacco, carta di giornale, tutto quello su cui si poteva scrivere, o dipingere, appena ne aveva voglia: e cioè sempre. Klee è la felicità dello scrivere, l'ispirazione allo stato puro. Quando dipinge, Paul Klee è un bambino: quasi sempre un bambino felice o sereno, ogni tanto serio o pensoso, raramente spaventato. Ma, si sa, ai bambini capita, ogni tanto, di essere spaventati. Il mondo è pieno di cose incomprensibili, e noi tutti, davanti al suo mistero, ci ritroviamo spesso nella condizione di un bambino di tre anni; la reazione di stupore, di meraviglia, di gioia è la stessa che ritrovo, ogni volta, davanti all'opera di Paul Klee.

Renato Guttuso

Guttuso non è più di moda? Oh bella, non me ne ero accorto. A me i suoi quadri sembrano sempre gli stessi di vent'anni fa, e non m'importa molto di sapere cosa fa oggi quella bella signora che gli ha fatto da modella per tante volte. I quadri di Guttuso sono sempre gli stessi, e io non li vedo con occhi diversi: mi piacciono ancora come mi piacevano prima, né di più né di meno. Una parola come "moda" in arte non dovrebbe nemmeno esistere: non in questo senso, almeno. E se poi qualcuno vuole sottintendere che Guttuso era famoso perché all'epoca la sinistra, il PCI, eccetera eccetera... Beh, anche queste cose hanno poco a che fare con l'arte. Era bravo Guttuso? Erano belli i suoi dipinti? A me sembra proprio di sì, e vedo che non sono il solo a pensarla in questo modo. Caso mai, mi interesserebbe ascoltare uno studio critico come di deve, di tipo tecnico, sull'opera di questo pittore; e tutto il resto è fiato sprecato, inutile stormire di fronde, occasioni perse per starsene zitti.
(Giuliano, anno 2003)

Lucio Fontana

Arturo, vedendo un quadro di Fontana, una tela rosa con un taglio verticale, gli domandò: « E' il ritratto della sua signora? » Che gaffe. Non sapeva che il nostro anfitrione era scapolo.
(Marcello Marchesi, da "Il malloppo")
Non sono così birichino come il personaggio di Marcello Marchesi, che aveva le sue buone ragioni per riconoscere qualcosa di femminile in quella tela rosa, ma Fontana è davvero un pittore che dà emozione. Non quel tipo di emozione, ma forse qui ci vorrebbe Freud con i suoi discorsi sul rapporto fra arte e libido... No, troppo complicato: meglio lasciar perdere e guardarsi (godersi?) il lavoro di Fontana. Intanto, le date: che sono sempre importanti. I suoi tagli ("Concetti spaziali") sono degli anni 40-50. Ne è passato di tempo! Allora avevano il valore (e il gusto) della provocazione; e forse di una provocazione c'era bisogno, a quei tempi, soprattutto se fatta da un artista del valore di Fontana, già grande e famoso sia come pittore che come scultore. Oggi, cinquant'anni dopo, o forse anche sessanta, le Biennali e le Triennali sono piene di "artisti provocatori". Cosa ci sia ancora da provocare dopo sessant'anni, dopo la pop art e tutto il resto (piercing e tatuaggi compresi), è per me un mistero. Non lo so, ma gli "artisti provocatori" del XXI secolo, a quel che leggo, guadagnano grosse cifre e possono fare a meno di andare a lavorare in fabbrica o mettersi alla cassa di un supermercato, per di più come precari.
Per parte mia, lascio volentieri ai galleristi i Damien Hirst e i Cattelàn. Che ci facciano tutti i danari che vogliono: io intanto faccio scorrere qualche immagine del lavoro di Lucio Fontana, grande artista e fine seminatore di dubbi.

Razionalismo dei palazzinari

Correva l'anno 1987 quando feci il mio primo incontro con il cinema di Peter Greenaway. Il film si chiamava "Il ventre dell'architetto", ed era bizzarro e intelligente, ricco di immagini e di idee. Non sapevo ancora che Greenaway in seguito avrebbe girato film ancora più strani, ma il motivo per cui me ne ricordo oggi è un altro.
Il film racconta di un architetto americano (l'attore Brian Dennehy) che vuole allestire da anni una mostra sull'architetto francese Boullée (1728-1799), famoso per il suo talento ma anche per non aver mai costruito nulla. Finalmente gli si offre l'occasione che cercava, e qui inizia il film; ma siamo a Roma e il nostro architetto incontra ostacoli e difficoltà, non ultima l'ostilità di un gruppo di architetti romani "di destra" che gli scippano i fondi per la mostra e li dirottano su una retrospettiva dell'architettura del Ventennio. Non starò qui a raccontare tutto, anche perché i film di Greenaway non vanno raccontati ma visti (e anche ascoltati, nel senso della musica), vista l'enormità del suo talento visivo; però l'apparizione nel film di questo gruppo di "architetti fascisti" mi sembrò un po' improbabile, in quel 1987. Ricordo di aver pensato che era un espediente un po' forzato per dare al film la svolta che Greenaway faticava a trovare; e invece il regista inglese aveva visto lontano, e oggi lo sappiamo bene.
Per esempio, in questi giorni a Como si parla molto della mostra sul centenario dell'architetto Terragni.
Terragni è il fondatore dell'architettura razionalista, e per questo è ricordato dalla Storia dell'Arte. E chi se ne frega, direbbe l'italiano medio cresciuto con cura da Mediaset negli ultimi vent'anni; oltretutto, ricorrenze anche più importanti passano del tutto inosservate. Ma a Como di personalità importanti ne sono nate davvero pochine, tanto è vero che la massima gloria cittadina è ancora Alessandro Volta. Ogni tanto si tira fuori il calciatore Meroni, che giocava 40anni fa nel Torino e morì giovanissimo in un incidente stradale, e poco più. Gira e rigira, la città è piccola e gli argomenti sono sempre i soliti; e Terragni è uno di questi, ma non è che l'architettura, soprattutto quella del Novecento, goda di grande fascino popolare e richiami folle di turisti, nemmeno se si tratta del Bramante. Dov'è dunque il fascino del peraltro bravo Terragni? A cosa si deve l'attrattiva che esercita sugli assessori lariani? Presto detto: Terragni lavorò nel famigerato Ventennio, e il suo capolavoro conclamato è la "casa del fascio", in Piazza del Popolo a Como. Se volete vederla, è ancora lì: ospita la Guardia di Finanza e certo ha la sua rilevanza storica, ma se proprio volete farvi un giro a Como, a mio parere, prima andate a cercarvi il Duomo, il Broletto, San Fedele, Sant'Abbondio, Piazza Cavour e il lago...
(Giuliano, 5 maggio 2004)

Grünewald

Sul bollettino della mia parrocchia trovo un brano di Tonino Bello, un prete (e vescovo) famoso. Inizia così: «Tra le tante crocifissioni di cui è piena la storia dell'arte, quella che prediligo è la Crocifissione di Matthias Grünewald. Soprattutto per un particolare: ai piedi della Croce, il pittore tedesco con un audace anacronismo ha collocato Giovanni Battista, il quale ha un dito enorme puntato su Gesù morente. Quell'indice impossibile domina lo scenario e sta a dire che, per noi credenti, il Crocifisso resta l'unico angolo prospettico da cui giudicare la storia.»
E' una bella riflessione, che don Tonino continua così:
«Mi pento del mio stupido sfoggio di cultura e sostituisco subito a questi nomi difficili i vostri poveri nomi. Il nome tuo, Damiano, che stamattina, quando hai finito di raccontarmi l'odissea di una vita incredibile, sei scoppiato a piangere vergognandoti dei tuoi quarant'anni. (...) Il nome tuo, Luigi, oppresso dai debiti (...) Il nome tuo, Anna Maria, che hai un figlio handicappato (...) Un giorno, quando avrete finito di percorrere la mulattiera del Calvario e avrete sperimentato come Cristo l'agonia del patibolo, si squarceranno da cima a fondo i veli che avvolgono il tempio della storia e finalmente saprete che la vostra vita non è stata inutile. (...) »
L'intervento di don Tonino prosegue, nel nostro quotidiano, parlando della Pasqua e di tutti noi che soffriamo o abbiamo sofferto della nostra condizione umana; ma io mi fermo qui e vado a informarmi un po' di più su questo prete che scopro di conoscere poco, come anche Grünewald e tutto il resto, Giovanni Battista compreso. Però una cosa mi ha fatto male: leggere che don Tonino chiede scusa "per il suo stupido sfoggio di cultura". Eh già, sono questi i tempi che corrono. Bisogna proprio chiedere scusa, e non certo ai poveri parrocchiani che non hanno avuto un'istruzione adeguata, se i nostri interessi vanno appena un po' oltre le cose che interessano tutti, e che non fanno né audience né mercato...
(Giuliano 10 aprile 2004)

Un realismo assoluto

«(...) L'arte esiste solo se ci sono delle cose segrete, qualcosa che non viene detto e che non si può dire (...) l'arte oggi non cerca illusione. Viviamo in un realismo assoluto e tecnologico, che non consente segreti. (...) Tutta l'arte, o la maggior parte dell'arte, che si vede alla Biennale è virtualmente decorativa, potrebbe essere venduta ai grandi magazzini. Del resto, è una cosa che si fa normalmente, c'è solo il decreto di chi afferma che è arte a distinguerne la specificità. (...) Il messaggio dovrebbe essere che non c'è più nulla da dire. Si visualizza l'idea dell'arte, siamo al limite estremo, dove l'arte è al minimo, non è più forma ma è un'idea. (...) Se l'arte è ovunque, allora cessa di esistere. (...) La morte dell'arte è un paradosso: l'arte muore per eccesso di arte. Il taglio è rappresentato da Duchamp, che ha messo in campo (...) la promiscuità totale fra l'oggetto e il museo, per cui qualsiasi cosa può entrare nel museo. Non ci sono più posizioni singolari, ognuno crea le sue regole del gioco. Tutti possono produrre, non ci sono più segreti, tutti possono affermare qualcosa e hanno il diritto di farlo. Dal punto di vista dell'artista, il tema centrale diventa il fatto che sta dipingendo, non più l'oggetto reale. Tutti diventano creatori, c'è una mobilitazione generale che porta al paradosso per cui non c'è più un destinatario, tutti sono trasmettitori. Ognuno crea la propria espressione, e non ha più tempo di ascoltare gli altri. (...) »
Jean Baudrillard, da Repubblica del 6 gennaio 2004 (intervista di Pico Floridi)
(Giuliano 7 aprile 2004 )

San Gerolamo nel deserto

Di tutti i Santi raffigurati dai pittori, San Gerolamo è uno dei più facili da riconoscere, anche per chi non ha una grande cultura specifica. Viene quasi sempre raffigurato come un vecchio, nudo o poco vestito, con un libro in mano e un leone al fianco. Il leone è mansueto, e il libro lo sta scrivendo il Santo, che è importantissimo perché fu il traduttore della Bibbia in latino, partendo dagli originali in ebraico e aramaico; traduzione che si usa ancora oggi e che è detta Vulgata.
San Gerolamo, che era di origine dalmata e visse tra il 347 e il 420,viveva nel deserto: è per questo che nei dipinti viene ritratto così. Viene, in ordine cronologico, subito dopo Sant'Antonio Abate (egiziano, 250-356 d.C.) che è il fondatore del monachesimo cristiano; a lui si ispirarono i Padri del Deserto, che nel deserto, per l'appunto, vivevano essendosi ritirati dal mondo.
Ogni volta che vedo un quadro con San Gerolamo, penso che sarebbe bello, con tutto quello che ci tocca vedere e sopportare, poterlo fare ancora. Andare nel deserto e ritirarsi dal mondo, intendo: ma oggi nel deserto ci corrono il Camel Trophy, e in ogni caso dopo pochi giorni arriverebbe una troupe tv per cercarti e magari per intervistarti... Insomma, anche il deserto non è più quello di una volta. Pazienza, verrebbe da dire: che è certo una virtù non delle persone comuni ma dei Santi; e neanche di tutti, a guardar bene.
(Questo San Gerolamo qui sotto è opera del Caravaggio)
(24 dicembre 2003)

Tagliare le radici

Il Corriere della Sera, in data 9 novembre 2003, pubblicava questa breve lettera di un lettore:
«In ottobre ho visitato la chiesa di San Lorenzo a Firenze. Costo 13,50 euro (interno 2,50 , sacrestia nuova 6,00 , Biblioteca laurenziana 5,00). Il 4 novembre ho visitato il Museo del Prado, a Madrid. Costo, 3 euro. Avendo moglie e due figli fanno 54 euro contro 12. Serve un commento? » Il nome del lettore è Franco Beretta, di Milano; il commento non me la sento di farlo, e forse davvero non serve. Invece prendo un quotidiano, e tiro giù i prezzi dei teatri di Milano: al Carcano, 27 euro oppure 20,50 ; al Piccolo, 22,50 e 19,50; allo Strehler, 29,50 e 23,50; al San Babila, 27 o 19,50 euro. Potrei continuare, ma mi fermo. I biglietti dei cinema viaggiano sui 5-7 euro; alle mostre di pittura e ai musei non si accede con meno di 9 euro. Eccetera. Magari potrei continuare la lista con salari e stipendi, o forse con l'importo delle pensioni...
(Giuliano, 18 novembre 2003)

giovedì 23 luglio 2009

Juliette

Gustave Courbet (1819-1877) è famoso per un quadro famoso, che fece scandalo per più di un secolo: si chiama "L'origine del mondo" e lo potrete facilmente ritrovare in rete. Non sapevo niente di Courbet, e quel quadro fu il mio primo incontro con lui. Al di là del soggetto, si vedeva subito che il dipinto non era opera di un pittore qualsiasi; così mi venne voglia di cercare altre sue cose, e fu una gran bella sorpresa. Sorpresa solo per me, naturalmente: Courbet è un pittore molto quotato. Con lui ho avuto, fin qui, un solo incontro di persona: alla mostra itinerante su Auguste Renoir, che io ho visto a Milano l'anno scorso, c'erano le sue marine, e un paesaggio in un bosco. Apprezzo molto l'opera di Renoir (padre e figlio), ma davanti a Courbet sono rimasto molto più tempo che davanti ai Renoir. Le marine, e i paesaggi, sono poi un genere molto particolare. Non colgono l'attenzione al primo sguardo, e si è portati a sottovalutarle: Tutto qui? E anch'io ho fatto così, ma mi sono distratto un attimo (era passata una bella signora) e poi l'occhio mi è caduto, quasi per caso, di nuovo sulle marine di Courbet. E le marine, colte di sorpresa, mi hanno accolto nel loro regno; e così mi è successo anche con quel bosco. Ed è così che si deve fare, con le opere dei grandi artisti: non andargli incontro direttamente, ma coglierli di sorpresa, o aspettare che siano loro a chiamarvi...
Di Courbet ho scelto un'opera che mi commuove sempre molto, un ritratto a matita di sua figlia Juliette.
(12 novembre 2003)

Toti Scialoja

Rileggere Toti Scialoja è sempre un piacere. Comincio con la sua gatta:Sulla tettoia passa senza peso
la gatta grigia nella luce fioca;
vedo da sotto lo zampino sceso
che preme contro il vetro e s'apre rosa.
Proseguo col serpe:Il serpe sovente è alle prese
con una scarpetta celeste:
non farsi schiacciare la testa
è il minimo delle pretese.

E questo è uno scioglilingua degno di Bruno Munari:Cerco l'ago nel pagliaio
cerco l'ego nel migliaio
cerco l'ergo nel bisbiglio
cerco l'agro nell'intruglio
cerco il largo nel risveglio
cerco il drago nel vermiglio.


Però se prendete l'enciclopedia e cercate Toti Scialoja, sotto il suo nome troverete scritto: Pittore. Per la precisione: "Pittore, scenografo e poeta. Legato alla scuola romana, dopo il 1945 si legò all'astrattismo. Le sue poesie sono sapienti variazioni sul nonsense". Prima pittore, e poi poeta... Che peccato! Io rovescerei volentieri l'ordine delle parole: un poeta, che faceva anche - con grande bravura e grande successo - il pittore.C'è un ramo che sporge sul lago
di Como, sospeso a quel ramo
un ragno si specchia nel lago
ma l'onda morente di un remo
increspa, col ragno, nel lago
quel ramo del lago di Como.

(tutte le poesie di Scialoja sono state pubblicate in libro, in tempi diversi e con diversi editori: però bisognerà cercarle, e magari se le chiedete in libreria vi guarderanno male perché non sanno nemmeno che esistono - mala tempora currunt...)

Palazzo Terragni

A Como si dedica una parte dei giardini del lungolago a Sergio Ramelli, un ragazzo di 18 anni ucciso nel 1975 da estremisti di sinistra. In città ci sono reazioni aspre; il direttore del quotidiano locale, "la Provincia", scrive un articolo di fondo nel quale stigmatizza chi si permette di dare "lezioni di democrazia" e invece, secondo lui, non ne ha il diritto.
All'inaugurazione è presente tutto il vertice di Alleanza Nazionale, o quantomeno tutti quelli che potevano venire; e sono tutti molto offesi con chi ha osato mettere in discussione la loro decisione.
Ma le perplessità sono d'obbligo: è un fatto triste ma ormai lontano nel tempo, e oltretutto Ramelli viveva a Milano, e non a Como, e a Milano è successo il fatto; e forse a Como c'erano altre persone da ricordare.
Ma Como è un posto dove succedono cose strane, e non da adesso. Per esempio, Palazzo Terragni.
Quando andavo a scuola, nel mio corso di studi non c'era Storia dell'Arte; però il nostro professore di lettere ogni tanto si faceva prendere la mano e parlava di architettura, e andava avanti magari per un'ora intera. Dev'essere così che sono venuto a sapere che a Como c'è uno dei punti fermi dell'architettura del '900, che si trova su tutti i testi di Storia dell'Arte: si trattava di Palazzo Terragni, opera dell'architetto comasco capostipite del Razionalismo. Il professore aveva anche spiegato dov'era, vicino alla stazione di Como Lago, in Piazza del Popolo. Di lì ci passavo spesso, perciò mi chiedevo dove mai fosse questo capolavoro che non avevo notato. Poi ho capito: era il palazzo sede della Guardia di Finanza! Sono sbalordito ancora adesso, dopo quasi trent'anni: più che altro, sembra il capostipite dell'architettura di Quarto Oggiaro... (e lì vicino c'è il Duomo col Broletto, a renderlo ancora più brutto ). Ma passi: poi mi sono informato, il razionalismo è stato una reazione al Liberty, lo stile floreale con i suoi eccessi nell'altro senso (eccessi di decorazione, per esempio). Insomma, la cosa aveva un suo senso storico e ci poteva stare.
C'era un piccolo particolare del quale allora ci si vergognava: il palazzo fu costruito come "casa del fascio", negli anni '30, e il nome "Palazzo Terragni" , oltre a rendere omaggio al nome dell'architetto, serviva un po' a nascondere questa sventura iniziale.
Da 5-6 anni, invece, sul "monumento" (sempre sede della Guardia di Finanza) hanno messo un cartello turistico, di quelli gialli che segnalano l'interesse storico-artistico, molto utili soprattutto per quelli come me che non hanno una grande cultura. Il cartello dà molte informazioni, su Terragni e sul Palazzo. Quello che mi disturba, anche per la stupidità della cosa, è che se lo si guarda da lontano si legge solo una cosa: non il nome dell'architetto, ma "casa del fascio", scritto in grassetto a caratteri cubitali.
Non mi disturba che si ricordi la destinazione originaria, ci poteva anche stare: ma, per quanto riguarda la Storia dell'Arte e l'importanza dell'edificio, la destinazione originaria è assolutamente ininfluente. Poteva essere una scuola, una biblioteca, una caserma: è lo stile architettonico che importa.
Ma Como è sempre stata un covo di nostalgici, è molto facile sentire gente che parla di come si viveva bene a quei tempi là, "che non c'era la delinquenza che c'è adesso". Questi discorsi li ho sentiti fin da bambino, ma speravo che col tempo il ventennio fascista rimanesse solo una pagine triste sui libri di storia. Rimangono invece, e si rinnovano sempre, il dispiacere, il disgusto, la preoccupazione per il futuro...
(Giuliano, 1 luglio 2003)

Ennio Morlotti

Un paesaggio lecchese, dice la targhetta sotto il dipinto di Ennio Morlotti. Sarà... Mi allontano un po', come si deve fare quando si guarda un quadro di questo genere; poi un altro po'; ed infine lo vedo, il benedetto paesaggio. E' anche piuttosto bello. Però c'è un'altra cosa che mi colpisce, nelle tele di Morlotti, ed è la quantità di colore che vi si trova. Lo spessore del colore, in Morlotti, è impressionante: due, forse tre centimetri di crosta che sporgono dalla tela, quasi che Morlotti volesse dare una rappresentazione tridimensionale ai suoi paesaggi.
Penso che ai tempi di Leonardo, nel Rinascimento e anche prima e dopo, i colori costavano moltissimo e c'era molta fatica fisica dietro la preparazione dei colori. Si acquistavano le "terre", e i minerali (lapislazzuli, terra di Siena...), che poi bisognava macinare finemente, a mano. I colori costavano: denaro, tempo, e fatica. Trovare i colori non era facile, anche per i "produttori" e i commercianti. Gli azzurri splendenti, per esempio, se li potevano permettere solo i pittori di successo, quelli molto bravi e molto più pagati degli altri. Ricordo anche d'aver letto una cosa impressionante sui neri fumosi di quel periodo: lo chiamavano "color mummia", ed erano davvero fatti macinando pezzi di mummia, rari e costosi, provenienti dal lontano e misterioso Egitto. E la usavano anche in farmacia, la mummia, ai tempi del Tintoretto... Oggi è tutto più facile: basta spremere dal tubetto, e poi stendere con la spatola. E' vero che i tubetti non sono a buon mercato, ma a me questo sembra davvero uno spreco. Meglio i sacchi di Burri, mi viene da pensare...
(anno 2001 circa)

Jackson Pollock

Amo Jackson Pollock in modo incondizionato, e mi fermo a guardare ogni suo dipinto, sia riprodotto che (quando mi capita, cioè raramente) visto dal vero. Si fa presto a dire dripping, e invece non è facile essere Jackson Pollock. E' tutto così ordinato, nei suoi quadri; e anche vederlo all'opera nei filmati d'epoca, mentre versa e sgocciola i colori sulle enormi tele stese per terra, dà un'idea di metodo, di ordine e di consapevolezza che rimandano stranamente a Kandinskij. Un altro Kandinskij: non con le linee e i cerchi ma con i frattali. E tutto questo, credo, senza averlo neanche minimamente voluto né cercato.
(questo qui sotto è White light, così com'era riprodotto sulla copertina di "Free jazz" di Ornette Coleman)

Emilio Vedova

Emilio Vedova fa un gran casino. Nel suo studio, colori dappertutto: su di lui, sulle pareti, sui tavoli, sul pavimento, sulle finestre e persino sui quadri. "Disordine creativo", verrebbe da dire: in realtà, sembra la caricatura dello studio di un pittore, qualcosa tra il Jerry Lewis dei bei tempi e un cartone animato con Daffy Duck. Ma Emilio Vedova è un grande: non so se sarebbe bello averlo come vicino di casa, ma i suoi quadri ( e i suoi colori, e il modo come li accosta) comunicano qualcosa che è molto più di una semplice emozione.
(anno 2003 circa)

Creativos

Su L'Espresso del 22 aprile 2004 c'è un'intervista con un famoso "creativo" (cioè inventore di spot pubblicitari e qualcos'altro).
E' un signore francese, che "specializzato in biologia, appassionato di filosofia e dal 1973 conduce seminari di creatività", un'attività importante e fondamentale nel nostro tempo, che difatti lo ha portato a collaborare con molte aziende importanti. Il signore si chiama Hubert Jaoui, e l'intervista (condotta da Monica Capuani) non è male, anche se un po' specialistica. Però il finale mi lascia allibito. Jaoui parla della sua consulenza a ditte che erano in crisi, e riporta il suo parere entusiasta sulla sua esperienza italiana con la Granarolo. Lo riporto così come è:
(...) Quando Luciano Sitia ha assunto la presidenza di Granarolo, il gruppo era sull'orlo del fallimento. Lui ha chiesto carta bianca. Ha licenziato un terzo del personale, poi ha chiamato noi per tirar su di morale chi era rimasto, con seminari di creatività. Abbiamo formato animatori interni, è nato il Laboratorio di Archimede che ha lavorato su problemi di marketing, prodotto, organizzazione, qualità della vita in azienda. la nuova decorazione della fabbrica, incluse le sculture delle mucche giganti, è stata immaginata dagli impiegati. (...)
Il commento migliore che possa fare la mia parte razionale (quella meno razionale la tengo ben chiusa qui sotto) è mettere di seguito un estratto da un'altra intervista, sempre dall'Espresso ma un paio di mesi prima. Incrociamo le dita, forse siamo imbarcati sul Titanic ma possiamo ancora sperare che vada tutto bene...
«Oggi i capi azienda hanno un reddito che è 532 volte quello dei lavoratori, che è in media 42mila dollari all'anno. E' una differenza quasi impensabile. Quando io ero giovane, questo rapporto era 12:1. Che cos'è questa, se non guerra di classe? »(Mario Cuomo, ex governatore NewYork State, Esp. 12.2.2004, int. di Enrico Pedemonte.)
(14 giugno 2004)

Anche mio figlio di tre anni

Forse la notizia vi è sfuggita, ma è in corso, sul quotidiano di Como "La Provincia" un grande dibattito culturale. Si svolge sulla rubrica delle lettere, e la questione dibattuta è questa: Joan Mirò disegno come un bambino di tre anni? Infatti in riva al lago è stata allestita una mostra del grande pittore catalano, e i comaschi si interrogano. La domanda viene posta con molte varianti, per esempio "mio nipote di tre anni disegna meglio di Mirò", "ieri sera mia figlia che ha tre anni ha fatto un disegno più bello di quelli di Mirò" , oppure "sono stata all'asilo infantile per una mostra e vi mando il disegno di un bambino di tre anni: fate voi il paragone con Mirò."
Altro grande dibattito, stavolta sull'Espresso e con firme famose (o quasi): perché non ci sono più grandi scrittori italiani? Perché gli americani hanno scrittori che sanno parlare della società in cui vivono e da noi invece no? Anche qui, con molte varianti e molte tesi ed ipotesi. Sono dibattiti appassionanti, e anch'io voglio dire la mia.
1) su Mirò: è proprio vero, Joan Mirò dipingeva come un bambino di tre anni. Lo stesso discorso si può fare per Paul Klee, ma si tratta di pittori grandissimi, e forse proprio per questo: non è da tutti essere grandi e semplici. Però è difficile farlo capire alla gente semplice, e se i critici d'arte perdono il loro tempo osannando delle mezze calzette in cerca di facile pubblicità (come è successo a Milano in questi giorni, per esempio) non ci si riuscirà mai.
2) in realtà, la gente comune non ha ancora digerito Picasso, e nemmeno Stravinskij e la sua Sagra della Primavera, per tacere di Schoenberg: e intanto sono passati cent'anni. I musicisti degli ultimi cinquant'anni sono tutti dimenticati o quasi, e i pittori famosi, con poche eccezioni, magari se la passano bene ma fanno opere rivolte soltanto a se stessi, ai galleristi e ai collezionisti. Forse c'è qualcosa che non va...
3) sugli scrittori italiani di oggi che non sanno cogliere la realtà odierna ho un parere, ma lo dico sottovoce e lo metto qui solo tra parentesi. (ma andate a lavorare, fanigottoni...)
(2 giugno 2004)

mercoledì 22 luglio 2009

Il decoro urbano

Non ho una gran simpatia per i graffitari, ma devo riconoscere che c'è una bella differenza tra chi sporca dove non dovrebbe e chi invece dipinge un muro di cemento di quelli da incubo. Purtroppo di muri di cemento ce ne sono tanti...
- E chi scrive il proprio nome sui monumenti?
- Quella è una questione di educazione. Io non lo faccio. Detto ciò, a Milano, incredibilmente, nel dibattito sui graffiti nessuno tiene conto dell'aspetto artistico e si parla solo di decoro urbano (...) Qualcuno mi ha mai chiesto il permesso quando si è trattato di bombardare i muri della città con la pubblicità? Nessuno si preoccupa se lo trovo bello o brutto. (...) ("Dumbo", 27 anni, da 13 anni celebre firma sui muri di Milano e periferie, in un'intervista al Corriere della Sera del 28.12.2003)
(25 febbraio 2004)


Somaini

Francesco Somaini (nato nel 1926) rappresenta il mio primo incontro con l'opera d'arte, e in fattispecie con quella contemporanea. Una sua opera, una grande Croce, è infatti all'ingresso del cimitero del paese dove abito: lì mi portavano da bambino, e non potevo non rimanerne colpito. Ancora adesso la guardo con affetto e ammirazione; e purtroppo, con il passare degli anni, le visite al luogo dove è la Croce di Somaini sono diventate sempre più lunghe.
Somaini ha una caratteristica dei grandi artisti: è subito riconoscibile. Quelle sue masse levigate ma solo in parte, a nascondere e ad evidenziare, mi sono diventate subito familiari. Si può essere astratti e non essere incomprensibili, insomma: e me lo dimostrava quella croce senza croce, quel crocifisso dove Cristo risalta pur non essendo fisicamente presente, neppure in immagine. Non sempre Somaini mi convince, per esempio non trovo particolarmente significativo il suo monumento ai Marinai d'Italia, in corso 22 marzo a Milano; ma a lui devo la comprensione dell'arte del Novecento. Gliene sono grato, e scrivo queste righe in riconoscenza.

Picasso


Pablo Ruiz y Picasso a vent'anni dipingeva come Raffaello. Un bel problema. E' una cosa che riesce a pochi, e lui era uno di quelli; avrebbe potuto camparci bene, ma qualcosa non lo convinceva. E poi, più vicino a lui, c'era Seurat: e il giovane Picasso assomigliava molto a Seurat. Davvero molto, anche un po' troppo. Che fare? Guarda Seurat, guarda i suoi dipinti, e decide che non è quella la sua strada. Quella strada lì non era più percorribile: l'aveva già scoperta qualcun altro. E poi, come i bambini, Picasso si annoia; si mette a fare schizzi e pasticci, mostra a se stesso e al mondo tutte le sue facce, quelle visibili e quelle nascoste; e le mette tutte insieme in un dipinto solo. E poi passa a squadernare tutto il resto del mondo, quello visibile e quello che non lo è. Prende dunque tutto quello che aveva dentro la sua testa e lo mette giù sulla tela: ma proprio tutto, visto da tutte le parti e tutte le parti insieme. Una specie di inventario, di planimetria della sua mente; però funzionava, gli piaceva, e presto cominciò ad interessare anche ad altri. Aveva trovato la sua strada, e divenne ricco e famoso. Ma c'è poco da scherzare: quello dell'originalità, della propria personalità, della propria cifra espressiva, insomma dello stile, è un problema vero per tutti gli artisti, quelli veri. E' il problema che si trovò davanti, negli stessi anni, anche Arnold Schoenberg: Schoenberg a vent'anni componeva i Gurrelieder, la Notte trasfigurata: ma c'era già stato Mahler, e i "Canti del Castello di Gurre" sono musica meravigliosa ma a Mahler somigliano moltissimo. Anche qui, per il pittore come per il musicista, bisognava trovare nuove strade, nuovi sentieri: una scelta scomoda ma inevitabile, se si vuole rimanere se stessi.
A Picasso andò benissimo, a Schoenberg un po' meno (dal punto di vista economico, intendo), ma tutti e due hanno lasciato un segno importante nella storia del Novecento, che di loro non può proprio fare a meno. Ma non so quanto siano stati digeriti dal pubblico, dalla gente. La strada di Schoenberg, la dodecafonia, è affascinante ma assomiglia davvero a un sentiero di montagna di quelli ripidi, da esperti e da camminatori allenati. Picasso è dappertutto, ma non ce ne accorgiamo quasi più: nei vestiti, nei giornali, nei cartelloni pubblicitari...
E poi la fase "astrusa" di Picasso, quella che l'ha reso famoso, tutto sommato dura poco. Picasso ha una vita lunga, e una bella mostra milanese, un paio d'anni fa, ha mostrato bene il suo percorso artistico. Nell'ultima fase della sua vita, Picasso diventa essenziale, fa disegni e schizzi memorabili, gli basta una matita per fare meraviglie. I suoi Tori, per esempio: che sembrano quelli di Lascaux, di Altamira... E il cerchio si chiude: il grande innovatore, e i maestri nostri antenati. Che cosa fare, dopo Picasso? Il Novecento una risposta non ce l'ha data, gli ultimi 50 anni sono stati un girare su se stessi, riproponendo le stesse cose pensando di provocare, ma senza avere il coraggio che ebbero, cent'anni fa, artisti veri come Picasso e come Schoenberg.

Una visita al Poldi Pezzoli

Scricchiola sotto le mie scarpe, il parquet del Poldi Pezzoli. L'antica casa del signor Poldi Pezzoli, in via Manzoni a Milano, oggi trasformata in Museo, ha questa caratteristica: sembra davvero ancora una casa d'abitazione, e ho sempre un po' di timore reverenziale ogni volta che ci entro. Mi verrebbe da chiedere permesso, e mi sento un intruso: ma ho tra le dita il biglietto appena fatto, giù all'ingresso della Casa (pardon, del Museo), e quindi la mia parte razionale mi incoraggia ad andare avanti. Una gran bella casa, la casa di un vero signore: con la fontana all'ingresso, sotto la bella scala che porta ai piani superiori. E il Museo è bellissimo, forse il più bello di Milano. Non è un museo tematico, si vede che è il frutto della raccolta di un appassionato; ma un appassionato davvero competente. Per esempio rimango sempre un po' sconcertato quando arrivo davanti al ritratto di Martin Lutero del Cranach (come sarà arrivato fin qui?), ma tutto quanto è da guardare e da ricordare, compresi i mobili e gli arredi residui della casa. Si ha l'idea di un'altra Milano, di un'altra civiltà, di qualcosa che si è perduto forse definitivamente. Del resto, siamo in via Manzoni, nel cuore della Milano ottocentesca, a due passi dalla Scala: ed è inevitabile il confronto di questo cortile e di questa casa con il lavoro degli architetti e dei politici del nostro tempo, che non sanno rinunciare a lasciare la loro firma indelebile (proprio come gli aborriti writers) invece di restaurare, e magari anche ammodernare, ma con rispetto e "sottotraccia", senza farsi notare troppo. Operazioni che non portano voti né pubblicità, ma solo il rispetto degli appassionati veri; e quindi del tutto fuori moda.
Ma intanto sono arrivato davanti ai quadri del Luini, e ormai sapete quanto ci tenga, a questo pittore. Davanti a me c'è il suo San Gerolamo: il vecchio santo nel deserto, intento a scrivere la Vulgata, con un leone al suo fianco. Il leone è domestico, sembra un grosso gatto ed è abbastanza ridicolo. Ma non credo che sia un caso: di certo Luini avrà avuto voglia di giocare, magari di divertire i suoi figli (futuri pittori anch'essi); e poi, via, il leone terribile che diventa un grosso gatto sorridente è una bella metafora sulle nostre collere e sulle nostre preoccupazioni. Magari andasse sempre così, magari si potessero trasformare le nostre rabbie in questo modo... Per queste operazioni, è bene rivolgersi ai santi, sembra dirci Bernardino Luini: e dunque, eccomi raccolto, meglio che posso, in orazione davanti a San Gerolamo.
Il leone del Luini in San Gerolamo
che sembra un gatto ma incute anche terrore
è un grosso gatto ma è ugualmente splendido
nell'opera buffa ma bella del Pittore.
Egli è un Leone ma per il Santo è gatto:
e così accade col nostro malumore
che ci perseguita e non se ne vuole andare -
ci vuole un Santo, tramite d'amore.
(circa 1999)

Giotto


La Cappella degli Scrovegni, a Padova, non è certo un capolavoro di architettura. Sembra di entrare in una scatola da scarpe, però con il soffitto fatto a volta. E che volta: il cielo stellato, dipinto da Giotto! E' uno di quei capolavori che danno le vertigini, quando si entra nella Cappella degli Scrovegni ci vuole sempre un po' di tempo per riprendersi. E' qualcosa che va al di là dell'abilità pittorica, o del concetto di "arte" e di "cultura" . E' un'emozione.
Le anime insipide pensano che arte e cultura siano due parolacce, sinonimo di noia e di libri di scuola, e di professori noiosi e di interrogazioni; qui dentro possiamo lasciarle semplicemente da parte, insieme a tutte le altre parole. Possiamo guardarci in giro, trovare un particolare da studiare con cura, poi chiudere gli occhi, poi girarci a cercarne un altro. E così via, finché ci lasciano stare lì dentro, dentro questa scatola di meraviglie vecchie di 700 anni.
Dopo una mezz'ora, abbiamo rubato abbastanza magia per provare ad avere una visione d'insieme. Eccola dunque, la scatola di scarpe meravigliosa: alle nostre spalle, sopra la porta d'ingresso, il Giudizio Universale: in basso diavoli e dannati torturati, in alto la schiera delle anime beate e in mezzo Gesù come giudice. Di fronte a noi, all'altra estremità, la cappella vera e propria. Ai lati, a destra e sinistra, sulle pareti, c'è tutta la storia di Gesù: si parte da sant'Anna e san Gioacchino fino alla fuga in Egitto, e così via. In basso, vizi e virtù - ma come ombre, non più a colori.
Un incanto. Verrebbe da sedersi per terra, e star lì a godersi lo spettacolo. O magari, addirittura, sdraiarsi con la schiena sul pavimento e perdersi nel cielo stellato - ma i custodi non me lo lascerebbero fare, e poi, via, ho già una certa età, non sono un bambino, sono un signore alto e distinto con un cappotto nero e col cappello, mica posso più permettermi certe cose.
(1995)

Bernardino Luini


Sono molto affezionato a Bernardino Luini: il suo nome è quello della via dove abito, e quindi lo conosco fin da quand'ero piccolo. In seguito, ho scoperto che era stato un grande pittore, e che i suoi dipinti, nei tempi passati, erano stati spesso scambiati per opere di Leonardo. Luini, nelle sue opere migliori, dipinge proprio come Leonardo: e come lui fanno i grandi pittori lombardi tra Quattrocento e Cinquecento. Leonardo segna davvero un prima e un dopo, nella Storia dell'Arte: e vedendo i dipinti di Luini, di Marco da Oggiono, di Gaudenzio Ferrari e del più grande di tutti loro, Giovanni Bellini, non si può non notarlo. Devo questa osservazione, io misero incompetente, ad una bella mostra di qualche anno fa a Milano: che si apriva con un Leonardo e continuava con tutti questi grandi pittori e tanti altri ancora. Ovviamente, c'era una bella sala dedicata a Luini e mi ci sono fermato per un bel po'. Ma poi, in libreria, non ho trovato quasi niente dedicato a Bernardino Luini, e mi è sembrato strano. Niente nei Classici dell'Arte, e pochissimo anche tra i libri costosi per specialisti. Solo grazie a Internet sono riuscito a farmi di lui un'idea precisa , anche se purtroppo sempre incompleta; e, per fortuna, le sue opere importanti sono tutte qui vicino, tra Milano e Saronno. Intanto che penso a come fare per avere una monografia decente e a un prezzo accettabile su Luini (ma anche su Marco da Oggiono), accendo il pc e vado a dare un'occhiata a un po' di immagini "rubate" delle sue opere più belle.
(maggio 2003)

Il cagnolino del Barocci

Del Barocci, l'enciclopedia narra che era di Urbino, dove nacque in un anno imprecisato tra il 1528 e il 1535; e che il suo vero nome era Francesco Fiori. Dice anche che si ispirò a Raffaello e a Correggio, e che "avviò un manierismo prebarocco".
Non m'intendo di queste cose, e la storia dell'Arte non è il mio forte (ammesso che io ne abbia uno). Però mi piace girare per le mostre, e in una di queste, anni fa, mi sono imbattuto nel Barocci, o meglio in un suo dipinto di dimensioni molto grandi. In un angolino, in basso, c'era un cagnolino; ho dimenticato tutto il resto e mi sono fermato a guardarlo. In seguito ho scoperto che il Barocci lo ha fatto spesso, di mettere dei cagnolini negli angoli nascosti delle sue opere, sotto ponderosi ritratti e allegorie sacre o mitologiche. Era una prassi normale, lo facevano anche tanti altri pittori importanti: Rubens ha dipinto dei cagnolini ancora più belli di quelli del Barocci. Dietro agli animali c'era quasi sempre un significato simbolico, ho scoperto in seguito: il cane significa fedeltà, per esempio. Sono cose belle da sapere, ma a me piace pensare che i grandi pittori si volessero proprio divertire, come quando dipingevano i leoni di San Gerolamo o mettevano le giraffe e i cammelli nelle Adorazioni dei Magi. Non è un approccio da storico dell'Arte: lo so, me ne rendo ben conto e me ne scuso; ma, da quella mostra, ogni volta che vedo un quadro del Barocci vado subito in un angolo a cercare il cagnolino; e se non lo trovo rimango molto deluso.

domenica 19 luglio 2009

Un mostro abominevole, anzi no

Un mostro abominevole vive nel mio giardino: anzi, ce ne sono tanti, tutti uguali al primo...Cos’è successo? Sembrano le figure disegnate da Escher, o magari un incubo degno di Lovecraft. Meno male che sono piccolini, sembrano ferocissimi: chissà che bestia è.
Sembrerà incredibile, ma la soluzione è semplice e aggraziata: sono larve di coccinella, uno degli animali più graziosi al mondo, di certo il più simpatico tra gli insetti. Anche la coccinella, come le farfalle, ha infatti una larva che fa la metamorfosi: non è un bruco ma è questa cosa qui, diversissima dall’adulto. A un certo punto della sua crescita, la larva si ferma, si arrotola su se stessa (proprio come le misteriose creature di Escher) e da qui in avanti inizia la sua metamorfosi.
La larva e l’adulto della coccinella hanno in comune una cosa: sono voracissime, e carnivore. Di tigri così spaventose il mondo degli insetti ne ha poche altre, e una di esse (escludendo la mantide, ormai proverbiale) è un altro insetto aggraziato che evoca metafore leggere: la libellula.
Anche la larva della libellula è fatta più o meno così, ma vive in acqua. A casa mia di acqua stagnate non ce n’è, invece qualche coccinella nei mesi scorsi ha messo qui le sue uova, e adesso le uova si sono schiuse ed ecco qui il mio giardino pieno di piccoli mostri misteriosi ed inquietanti.
Detto per inciso, en passant, la voracità delle coccinelle (che è rivolta in modo particolare agli afidi verdi delle piante) viene usata in agricoltura: è per questo motivo che la coccinella è diventata uno dei simboli delle coltivazioni senza pesticidi e la si trova effigiata sugli adesivi che si appiccicano alle mele. Ma io, mentre ne guardo una che fa strage di afidi su questo ramo, sono ben contento di essere molto più grande di lei. Almeno su questo, noi umani dobbiamo essere grati alla Creazione: pensa che vita cupa, se mantidi libellule e coccinelle fossero grandi come noi...

giovedì 16 luglio 2009

Il Libro dei Primati

Giuliano 23 novembre 2006
Non solo non c’è dubbio che gli umani discendano dalle scimmie, ma è altresì vero, verissimo e dimostrabile, che non tutti discendiamo dalle stessa specie di scimmie. Per esempio, e tenendo ben aperto il libro dei Primati per i confronti, è del tutto evidente che io e molte altre persone che conosco siamo discendenti di antichi oranghi: grosse dimensioni, volto ovale, ampia fronte, una certa tendenza all’essere corpulenti, aria assorta e forse inutilmente pensosa. Non per niente, in malese “orang” significa uomo, e orang utan è l’uomo delle foreste.
Giuliano Ferrara è un gorilla: basti guardarne il fisico massiccio, la postura, il collo breve, la testa villosa con gli occhi infossati, piccoli e scrutanti. Silvio Berlusconi è senza alcun dubbio uno scimpanzé: piccolo, aggressivo, vivace, gesticolante, vociante e dotato di una rispettabile intelligenza. Naomi Campbell, elegante nelle movenze, gambe e braccia lunghe su un corpo sottile ed armonico, è un gibbone: se non ve ne siete mai accorti è solo perché Naomi è sprovvista di pelliccia. Il senatore Cossiga somiglia molto ad una nasica, e Gad Lerner è un macaco, o una bertuccia: simile a una delle scimmie che s’aggirano per Gibilterra o nei templi dell’India, intelligenti e curiose ma anche vagamente spernacchianti e irrispettose.
E fin qui mi sono limitato alle scimmie catarrine, le più simili all’uomo, che sono di tutti i tipi e di tutte le misure, e purtroppo molte di loro hanno la coda, il che lascia un po’ perplessi riguardo alla dimostrabilità della mia teoria. Però guardo le fotografie sul mio libro, e penso che sarebbe bello starsene seduti su un ramo in alto e far penzolare la coda, e che forse perdendo la coda il Signore ci ha tolto davvero qualcosa, chissà.
Ma le scimmie sono tante, ci sono ancora le platirrine dell’America e poi tutto l’universo delle proscimmie, come i lemuri del Madagascar (ma questo è un altro discorso), passarle tutte in rassegna richiederebbe molto tempo e molto spazio, perciò per il resto lascio fare a voi e alla vostra immaginazione. Personalmente, sono molto attratto dall’ipotesi espressa da H.G.Wells in “L’isola del dottor Moreau”, e cioè che noi tutti si discenda non solo dalle scimmie ma un po’ da tutti gli animali, tramite misteriosi innesti di pericolosi scienziati. Ma, anche qui, preferisco fermarmi e lasciar fare alla vostra fantasia: chissà quanti gatti, rettili, passerotti e ippopotami conoscete, e non vorrei togliervi né lo spazio né il divertimento.

Franco e Ciccio contro i creazionisti

Franco Franchi riusciva a muovere le orecchie. Io da bambino lo guardavo e mi veniva una gran rabbia, perché a me non riusciva e a lui sì: ma come faceva? Al massimo dello sforzo, potevo muovere fronte e sopracciglia: di più non mi era concesso. E intanto lui muoveva anche il cappello che si metteva in testa, senza sforzo e senza trucchi, come se fosse la cosa più normale del mondo... Il “trucco” lo avrei capito solo una dozzina d'anni dopo, leggendo finalmente “L'origine dell'uomo” : tutti gli animali hanno muscoli per muovere le orecchie, così da poterle indirizzare verso l'origine del suono e capire da dove viene il pericolo. Un gadget utilissimo, che noi abbiamo perso nel corso della nostra evoluzione, e che ritorna di tanto in tanto in alcuni individui.
Si trattava dunque di un atavismo, per usare il termine scelto da Charles Darwin per definire questo genere di cose: qualcosa di atavico, che deriva da remoti antenati, come recita il dizionario. Atavismo è dunque “la ricomparsa in un individuo di caratteri anatomici e funzionali e esistenti in lontanissimi antenati”. Gli studenti di medicina, dopo essersi ben studiati l'anatomia umana, sanno che di atavismi ce ne portiamo dietro anche altri: uno che abbiamo tutti, e non solo il comico siciliano, è per esempio l'appendice, una parte dell'intestino ben sviluppata nei mammiferi vegetariani e in noi del tutto inutile, un moncone residuo che serve solo ormai per procurarci l'appendicite, cosa della quale faremmo volentieri a meno (preferirei avere le orecchie mobili, a dirla sinceramente: riuscire a far ridere i bambini è una gran bel dono).
Un altro gadget che avrei voluto avere, ed è per questo che guardo con invidia e gran rispetto ad ippopotami e ornitorinchi, è la possibilità di avere le palpebre anche nelle orecchie, così da poterle chiudere a piacimento. A loro serve per andare sott'acqua, a me servirebbe per non dover ascoltare certi discorsi, tra i quali quelli dei creazionisti (ma non solo loro, purtroppo). Come per esempio quando mi tocca sentire che il darwinismo è una religione, oltre che una teoria bizzarra da estirpare. Innanzitutto, il darwinismo non esiste: esistono le teorie di Charles Darwin, basate sull'osservazione attenta della natura: chiunque abbia dato anche solo un'occhiata distratta ai suoi libri non può non saperlo. E poi la scienza non ha niente a che vedere con la religione, non ci sono dogmi e atti di fede, le teorie scientifiche si possono confutare ed è già successo molte volte, basta avere degli argomenti validi e magari qualche dimostrazione matematica – ma poi di che cosa sto parlando? Qui su Stile Libero queste cose noi le sappiamo già e possiamo solo sospirare quando le sentiamo per l'ennesima volta, come è appena successo a me. Agli eventuali creazionisti che mi stanno leggendo, per oggi, posso solo consigliare l'opera omnia di Francesco Benenato, in arte Franco Franchi, che nella sua vita è stato ben coadiuvato dall'esimio professor Francesco Ingrassia, detto Ciccio. (Non credo che cambieranno idea, ma almeno me li ritroverò davanti più rilassati e di miglior umore, la prossima volta.)
(Giuliano 3 novembre 2005) (l'immagine qui sotto viene dal Corriere dei Piccoli, anno 1970) (abbiamo tutti voluto un gran bene a Franco e Ciccio...)

Relativismo

Innanzitutto, relativismo è una parola seria, scientifica e rispettabile: si riferisce ad Einstein, e dietro ci sono formule matematiche testate e comprovate da un secolo d'esperimenti e applicazioni pratiche. Però vedo che ha preso piede un altro significato di questa parola, e mi vedo costretto ad usarla anch'io in questo senso. “Relativismo”, secondo fonti importanti e anche per come la usa il Papa, è una parola che sta a significare che tutte le opinioni sono uguali, anche in materia di religione; e che perciò è da condannare, perché invece le priorità esistono e sono importanti. Mi sento di essere d'accordo: di certo tra il Vangelo e Scientology c'è una bella differenza di valore, e anche un ateo se ne può accorgere subito. Non si può mettere tutto sullo stesso piano, e certo per un credente la scala di valori è chiara e ben definita. Però poi si esce per strada, si fanno incontri, si vedono cose, persone, situazioni: e le nostre certezze hanno bisogno di una continua verifica. Non c'è niente di strano: anche Gesù, nel Vangelo, si comporta così. Apparentemente, viola anche dei precetti sacri: e glielo rimproverano spesso, nel Vangelo. “Relativismo” anche qui? Non direi: la scala dei valori è chiarissima, e Gesù mette sempre al primo posto il Comandamento che riassume tutti gli altri, “ama il tuo prossimo”, davanti al quale anche norme e precetti devono cedere il passo.
Uscendo dai discorsi troppo impegnativi, nella nostra vita quotidiana ne vediamo tanti, di esempi di questo “relativismo” che non piace a papa Benedetto. Per esempio, vedo persone importanti (politici, ministri, giornalisti, opinionisti, attori e registi) esaltare come valori razzismo e fascismo, e condannare gravemente il dialogo e la tolleranza. E se uno prova a dire una parola contraria si offendono, e ribattono severi e molto piccati: si sono fatti la loro morale su misura, hanno il controllo dei mezzi di comunicazione, si lamentano come vittime per non aver potuto esprimere le loro opinioni (fasciste e razziste) negli anni passati. Ecco, è su questo relativismo qui che vorrei sentire una parola chiara e definitiva; ma forse sono cose che non interessano più, nemmeno ai preti ed ai cardinali.
Giuliano 2 ottobre 2005