mercoledì 30 maggio 2012

Asfalto, bitume, catrame

L’asfalto e il catrame sono dei nascondigli perfetti, quando si vuole occultare qualcosa: cioè qualcosa da smaltire, perché nell’industria non si butta via niente e tutto si ricicla. Ci sono materiali che si riciclano senza problemi, e in questo caso l’operazione è ideale; in altri casi invece, come è successo di recente in Regione Lombardia con lo scandalo (subito occultato anch’esso) dei rifiuti pericolosi messi sotto manti stradali e nelle fondamenta di edifici pubblici, ci sarebbero un bel po' di cose da dire ma per oggi mi astengo e rimango nel tema che mi sono prefisso.
L’asfalto e il catrame sono ormai tra i materiali più comuni nella nostra vita, da molte generazioni sempre più legata all’automobile. Nel linguaggio comune si usano come sinonimi, perché l’uso che se ne fa li rende alternativi l’uno all’altro; in realtà non è così, e dato che è sempre una buona cosa interrogarsi sul vero significato delle parole, vado a prendere dalla Garzantina della Chimica le definizioni esatte di asfalto, bitume, catrame, pece, resina, colofonia. Posso anticipare, in breve, che asfalto e bitume sono prodotti che si trovano in natura; il catrame è invece il residuo della distillazione del petrolio. Resina è invece un termine generico dietro al quale si possono nascondere molte cose diverse, dalla resina dei pini fino alle resine sintetiche e alle resine per addolcire le acque. Qui sotto metto una foto che viene da Trinidad e Tobago, dove c'è un giacimento di asfalto ("Pitch Lake") molto importante.
Nel dettaglio:
Asfalto: miscela naturale di idrocarburi solidi e semifluidi, in prevalenza bitume. Per lo più solido e di color scuro. si trova come impregnante delle rocce calcaree. Dall'asfalto si estrae il bitume che, misto a ghiaietto, viene usato per la pavimentazione di strade.
Bitume: miscela di più composti organici di alto peso molecolare. Si forma per polimerizzazione naturale ossidante di residui del petrolio: è nero e fragile, ammollisce a ca 50 °C e quindi liquefa. È contenuto nell'asfatto, da cui può essere estratto; allo stato puro si trova in abbondanza solo nei giacimenti del Mar Morto. Si dà il nome di bitume anche alle frazioni più pesanti della distillazione del petrolio, polimerizzate all'aria e utilizzate per vernici nere e nelle pavimentazioni stradali.
Catrame: sottoprodotto della distillazione secca dei combustibili solidi. Si presenta come un liquido di colore variabile dal bruno al nero, molto viscoso, con peso specifico poco superiore a 1; è una miscela ricca di idrocarburi aromatici e fenoli. che, una volta separati, rivestono notevole interesse industriale sia come prodotti finiti sia come intermedi. (...)
Colofonia o pece greca: resina naturale, solida, trasparente di colore giallastro che si ottiene dal residuo della distillazione della trementina: il suo costituente principale è l'acido abietico: viene usata nell'industria della carta, delle vernici e dei saponi.
Pece: termine con cui si indicano vari prodotti commerciali ottenuti come residui della distillazione di catrami o fluidi densi di varia origine, specificati dal nome dei materiali di provenienza. Il più importante è la pece comune, ottenuta per distillazione del catrame di carbon fossile, come residuo che rappresenta oltre il 50% del prodotto di partenza. Si presenta come una massa nera (...), fonde tra 50 e 120°C ed è parzialmente solubile in alcuni solventi organici.
Resine: polimeri naturali o sintetici. Le resine naturali sono prodotti chimicamente assai complessi, che si trovano nei materiali di secrezione di molte piante e di alcuni animali. Le piante che forniscono le resine sono essenzialmente le conifere, le terebintacee, le leguminose, le ombrellifere ecc. Le resine trasudano spontaneamente dal fusto o dai rami di queste piante oppure sono fatte sgorgare mediante incisioni nelle parti resinifere. La costituzione chimica delle resine è assai variabile. Possono contenere essenze, acidi aromatici (benzoico. salicilico, cinnamico, cumarico), acidi non aromatici liberi, alcoli. esteri degli acidi aromatici con questi alcoli. (...) Le resine artificiali ottenute mediante processi di polimerizzazione sono così numerose (e il loro numero è in costante aumento) da renderne difficile la classificazione. Questa difficoltà è dovuta alla mancanza di un criterio distintivo tra resine artificiali, vale a dire polimeri di base, e materie plastiche, ovvero prodotti che si ottengono dalla lavorazione delle resine mediante aggiunta di plastificanti, riempitivi (cariche), lubrificanti, inibitori e ausiliari svariati atti a migliorare le qualità del prodotto finito. Per una descrizione delle caratteristiche e degli impieghi delle resine artificiali si rimanda alle voci relative ai singoli gruppi di resine (....) e alla voce materie plastiche.
Un mio ricordo personale in proposito è legato a un chimico che ho conosciuto, il Vecchio Proprietario che aveva venduto a una multinazionale la fabbrica dove poi anch’io ho lavorato, e che una volta ricevette un ordine per un legante da usare con il catrame. Dato che la Ditta faceva molti prodotti un po’ per tutte le industrie, e che questa commessa dava la possibilità di smaltire un po’ di prodotti di altro tipo venuti male, il Vecchio Proprietario ci si mise d’impegno e riuscì a fare un legante ottimo. Purtroppo, dopo il primo lotto ben riuscito non riuscì più a ripetere la formula e dovette abbandonare l’ordinazione: come accadde anche al Dottor Jekyll, quella materia prima particolare era impossibile da rifare tale e quale, e inserire nella ricetta un prodotto buono, da comperare, avrebbe alzato troppo il prezzo. La storia è vera e mi è stata raccontata da una persona di fiducia, e del resto è più che plausibile; la porto qui non tanto per divertimento ma perchè rende bene l’idea di cosa si possa fare con il catrame che si mette sulle strade. Nel catrame si possono mettere molte cose, e chissà se qualcuno ha mai fatto un’indagine in proposito: per esempio, se si mescolano al catrame sostanze solubili in acqua alla prima pioggia il manto stradale si ridurrà in condizioni pietose. Ogni volta che vedo una buca nell’asfalto, mi torna alla mente quell’esperimento del Vecchio Proprietario: ma in chimica di “prodotti spazzatura” ce ne sono molti, alcuni dei quali onesti e perfettamente legali (per esempio, un detergente non più adatto alla nostra pelle può diventare un ottimo lavapavimenti).
In conclusione, discorsi preoccupanti a parte, asfalto, bitume, catrame, pece, resina, sono termini molto generici che indicano cose diverse ma unite dall’uso che noi ne facciamo. E a questo punto mi piacerebbe sapere cosa usavano come pece i costruttori di navi dell’antichità, ma mi tengo la curiosità per un altro momento e passo parola a uno molto più bravo di me.
Primo Levi, dal volume “L’altrui mestiere” (Einaudi 1985)
(...) I marciapiedi della mia città (e, non ne dubito, quelli di qualsiasi altra città) sono pieni di sorprese. I piú recenti sono di asfalto, e questa è una follia: piú ci si inoltra sulla via dell'austerità, più appare stupido usare composti organici per camminarci sopra. Forse non è lontano il tempo in cui l'asfalto urbano verrà riesumato con le cautele che si adottano per staccare gli affreschi; verrà raccolto, classificato, idrogenato, ridistillato, per ricavarne le frazioni nobili che esso potenzialmente contiene. O forse i marciapiedi di asfalto saranno sepolti sotto nuovi strati di chissà quale altro materiale, sperabilmente meno prodigo, ed allora i futuri archeologi vi troveranno incastrati, come gli insetti del pliocene nell'ambra, i tappi corona della Coca Cola e gli anellini a strappo della birra in lattine, ricavandone dati sulla qualità e quantità delle nostre scelte alimentari. Si ripeterà cosí il fenomeno che ai nostri occhi ha reso interessanti, e quindi nobili, i Kökkenmöddingen, quelle collinette fatte esclusivamente di gusci di molluschi, lische di pesce ed ossa di gabbiano che gli archeologi d'oggi scavano sulle coste della Danimarca; erano mucchi di rifiuti che crebbero lentamente, a partire da circa settemila anni fa, intorno a miseri villaggi di pescatori, ed ora sono fossili illustri. I marciapiedi piú vecchi e piú tipici sono invece fatti di lastroni di pietra dura, pazientemente sgrossata e scalpellata a mano. Il grado del loro logorio ne consente una grossolana datazione: le lastre piú antiche sono lisce e lucide, lavorate dai passi di generazioni di pedoni, ed hanno assunto l'aspetto e la patina calda delle rocce alpine levigate dal mostruoso attrito dei ghiacciai. Dove la roccia schistosa era percorsa da una vena di quarzo, che è molto piú duro della sua matrice, essa è venuta a sporgere, talvolta in misura fastidiosa per i passanti dai piedi teneri. Dove invece l'attrito è stato minore o nullo, si distingue ancora la ruvidezza originaria della pietra, e spesso i singoli colpi di scalpello: questo si vede bene lungo i muri, per una distanza di un palmo, e particolarmente bene sul lastricato che sta davanti al Palazzo Carignano (...) È stato assai piú intenso il logorio del marmo, che è un materiale meno resistente: molte soglie di vecchie botteghe sono di marmo, e nel giro di pochi decenni soltanto si sono infossate profondamente. (...)
Primo Levi, dal volume “L’altrui mestiere”, il racconto “Segni sulla pietra” (ed. Einaudi 1985)
Le immagini: il primo fumetto è Cattivik, di Silver e Bonvi (molto divertente, risale al 1965 e spero che sia ancora in circolazione); il secondo fumetto è di Jack Teagle; gli arnesi per calafatare le imbarcazioni vengono da un catalogo on line (il nome si può leggere ingrandendo l'immagine); la foto di Pitch Lake a Trinidad viene da un sito on line dedicato allo stato caraibico.

lunedì 28 maggio 2012

Usignolo

Quest’anno l’usignolo è tornato a fare il nido vicino alle mie finestre, e questa è una bella notizia. La brutta notizia è che quest’albero presto sarà abbattuto, c’è già chi lavora da tempo per abbatterlo; ma per oggi non voglio pensarci, sono contento della compagnia dell’usignolo e mi diverto molto ad ascoltarlo.
Ho impiegato molti anni per arrivare a capire davvero che cos’è il canto di un usignolo: c’è molta differenza da come te lo insegnano a scuola e sui libri, e anche il luogo comune “canta come un usignolo” non aiuta a capire e riconoscere. Il canto dell’usignolo è infatti molto variato e divertente, non è una canzone melodica ben ordinata come per esempio capita con il canarino, ma qualcosa di molto più diverso e fantasioso. La canzone del canarino è infatti molto bella e ben costruita, ma è sempre quella; all’usignolo invece capita di essere melodico e di costruire frasi simili a quelle delle nostre canzoni, ma il più delle volte mette insieme qualcosa di molto diverso e molto personale. Insomma, si può registrare un canarino dire “questo è il canto del canarino”, sempre riconoscibile; non si può fare invece la stessa cosa con gli usignoli, perché quella registrazione sarà solo la voce di uno dei tanti usignoli possibili.
Ne approfitto per mettere in fila le nozioni che ho imparato sul canto degli uccelli, da non esperto quale sono (e chiedo scusa fin d’ora per eventuali imprecisioni):
1) il canto degli uccelli non è quasi mai un passatempo o un divertimento come lo intendiamo noi umani, ma è piuttosto un vero linguaggio, una forma di comunicazione vera e propria. C’è chi lo ha studiato e ne ha preso nota, riconoscendo per ogni specie vere e proprie frasi ricorrenti, parole, segnali, conversazioni e richiami di coppia; chi volesse saperne qualcosa di più può cominciare a leggere (o rileggere) il famoso libro dell’etologo Konrad Lorenz, “L’anello di re Salomone”.
2) per la maggior parte degli uccelli, il canto significa “qui ci sono io” e sottintende, o dice apertamente, “qui ci sono io e voi state lontani”. Insomma, è un po’ come se l’uccello desse le sue generalità, nome cognome, paternità e maternità, e codice fiscale; e poi, dopo aver tracciato il confine della sua proprietà, invitasse gli estranei, compresi quelli della sua stessa specie, a non venire a disturbare mentre lui fa il nido. A noi questo canto può sembrare piacevole, una cosa innocua, ma così non è; anche gli uccellini più piccoli, come le cince, sanno diventare molto aggressivi contro chi non capisce il loro segnale.
3) alcune specie di uccelli nascono già con il canto in memoria, altri devono imparare dai genitori. Se l’uccello che deve imparare dai genitori viene separato alla nascita, non imparerà la canzone ma può finire con l’imparare qualcosa d’altro, per esempio un brano che fischiettate voi. C’è poi il caso degli “imitatori” di professione, gazze e pappagalli e merli indiani; ma qui il discorso si allargherebbe di molto e direi che è il caso di lasciarlo agli specialisti.
L’usignolo ha dei genitori molto attenti e partecipi, sia il padre che la madre; però impara da solo la sua canzone, e la costruisce da sè nel corso degli anni, per imitazione o per sua invenzione particolare. Ne consegue che un usignolo adulto avrà una canzone molto più lunga e variata rispetto ad un usignolo giovane. Il Brehm aggiungeva che il canto costa molta fatica all’usignolo, che vi spende molte energie: quindi una cosa tutt’altro che facile.
Mettendo insieme tutte queste informazioni, che ho preso e riassunto velocemente da varie fonti, si comprenderà che non è facile riconoscere la voce di un usignolo solamente da una descrizione o anche da registrazioni “sul campo”: ogni usignolo ha la sua voce, e per ogni individuo la canzone si accresce nel corso delle settimane risultando alla fine molto diversa da come era all’inizio. A tutto questo bisogna ancora aggiungere che ci sono molte specie di usignoli, anche con nomi scientifici molto differenti (il nome scientifico è una cosa seria, se il nome è simile le specie sono simili e viceversa). Per esempio, l’usignolo maggiore è Luscinia luscinia, l’usignolo europeo comune è Erithacus megarhyncos (ma anche Luscinia megarhyncos); l’usignolo africano è Cercotrichas galactotes. Qui intorno vi sono poi anche due parenti stretti dell’usignolo, il pettirosso e il codirosso; il pettirosso si chiama Erithacus rubecula, di codirosso esistono molte varietà riconoscibili dal fatto che ad essere colorata è la parte del dorso vicina alla coda, che gli ornitologi chiamano “groppone”.
Quest’anno, data la vicinanza, sono riuscito anche a vedere gli usignoli: è un animale molto bello, il piumaggio non è appariscente ma ha una linea molto bella ed elegante. Somiglia un po’ al merlo (che già è bello di suo), ma è più snello ed elegante. La somiglianza non è casuale, sono infatti entrambi classificati fra i Turdidi (Turdidae). L'usignolo è un insettivoro, è bene ricordarlo: se vi danno fastidio mosche e zanzare, tenete presente che gli uccelli insettivori sono dalla nostra parte.
Per concludere, un po’ di nomi di usignoli in varie lingue: ruiseñor in spagnolo, nightingale in inglese, nachtigall in tedesco, e in francese rossignol, che riprende il nome rosignolo o rossignolo presente nei madrigali di Monteverdi (vale a dire: Tasso, Guarini, Ariosto, l’italiano del ‘500).
Le foto del codirosso sul balcone sono mie e risalgono al 2008; le immagini degli usignoli vengono da “Il mondo degli animali”, ed. Rizzoli 1968, e da “Guida agli uccelli d’Europa”, ed. Muzzio 1983. (il pettirosso è facilmente riconoscibile e lo dò per scontato). (nel frattempo, ci tengo a dirlo, la ringhiera l'ho riverniciata io con le mie mani ed è venuta molto bene).
AGGIORNAMENTO al 17 settembre 2012: riunione di condominio, il mio vicino dice "abbiamo deciso di abbattere l'albero", e poi "vogliamo abbattere l'albero" (lo ha deciso lui, se lo ha deciso lui parli per lui, io sono cresciuto con tre alberi davanti alla finestra, adesso mi è rimasto solo questo, amen)(ma è lui quello che ha in casa i bambini di tre anni...)

sabato 26 maggio 2012

Metamorfosi

«In natura, un sistema, quando non riesce più a risolvere i propri problemi vitali, se non vuole perire, è costretto alla metamorfosi. Il bruco è capace di autodistruggersi e autoricostruirsi per diventare una farfalla. L'idea della metamorfosi non è una follia, è una realtà che si è già realizzata altre volte nella storia del Pianeta, nella preistoria ma anche nel Medioevo (...)»
(Edgar Morin, dal Venerdì di Repubblica del 16 marzo 2012 )
In quest’intervista, che riporto qui sotto in un estratto più ampio, Edgar Morin parla di economia ma fa un discorso da naturalista, cioè da vero osservatore, mai superficiale e privo di pregiudizi. E’ solo osservando con attenzione quello che succede che si possono prevedere gli sviluppi successivi: ma per riuscirci bisogna saper abbandonare tutto quello che ti hanno insegnato, anche solo per pochi istanti, senza pregiudizi. Togliersi i paraocchi, insomma: un modo di dire che oggi può risultare oscuro, e che quindi è meglio spiegare. I paraocchi si mettevano ai cavalli da tiro, per evitare che si distraessero e magari si spaventassero; con i paraocchi si vede solo ciò che gli altri vogliono farci vedere. Nel caso del cavallo da tiro, con i paraocchi il cavallo vedrà solo quello che vuole il padrone.

Qui sotto riporto altri estratti da quest’intervista, molto bella, ricordando che i libri di Edgar Morin sono regolarmente pubblicati in Italia, che Edgar Morin è francese ma parla molto bene l’italiano, e infine che il nostro attuale ministro per lo sviluppo, il signor Corrado Passera, ha annunciato pochi giorni fa l’avvio di innumerevoli altre “grandi opere”. Dunque ancora una volta, come negli anni ’50, l’edilizia come traino dell’economia: ma per costruire dove? Ancora strade, ancora cemento, ancora cavalcavia?
Intervista a Edgar Morin
di Fabio Gambaro, Il Venerdì di Repubblica, 16 marzo 2012
- Nel libro lei critica l'idea di sviluppo. Perché?
«La mondializzazione porta in sé l'occidentalizzazione e il mito dello sviluppo fondato sull'idea di una crescita infinita. È un mito che ci porta dritti contro un muro. Non possiamo continuare a riempire il Pianeta di automobili, di centrali e di megalopoli. Questo modello di sviluppo - figlio di un liberalismo economico senza regole, tutto teso a produrre e a consumare sempre di più - comporta conseguenze disastrose per la biosfera e le risorse naturali. Oggi, si parla molto di sviluppo sostenibile, che però mi sembra solo una mezza misura. In realtà, occorre affrontare e spaccare il nocciolo duro, tecno-economico, del concetto tradizionale di sviluppo, per salvarne solo alcuni elementi da mettere al servizio di un altro modello di sviluppo umano. È un problema urgente che riguarda tutti».
- È per questa ragione che parla di Terra-patria?
«L'aspetto positivo della mondializzazione è che ormai c'è una comunità di destino di tutti gli esseri umani, ovunque essi si trovino. Siamo tutti di fronte agli stessi problemi fondamentali e alle stesse minacce mortali, sul piano ecologico, climatico, sociale, nucleare, ecc. Una patria è una comunità di destini, quindi la Terra è la patria comune che dobbiamo cercare di salvare in una situazione dove sembra non esserci più futuro e quindi prevalgono l'incertezza, la paura e le logiche regressive. In passato si pensava che la storia fosse guidata dalla legge del progresso. Le crisi del XX secolo hanno spazzato questa illusione».
- Che cosa fare allora?
«Al sistema terrestre minacciato da tutte le parti resta solo la via della metamorfosi. In natura, un sistema, quando non riesce più a risolvere i propri problemi vitali, se non vuole perire, è costretto alla metamorfosi. Il bruco è capace di autodistruggersi e autoricostruirsi per diventare una farfalla. L'idea della metamorfosi non è una follia, è una realtà che si è già realizzata altre volte nella storia del Pianeta, nella preistoria ma anche nel Medioevo».
- La metamorfosi è però un'operazione complessa e delicata...
«Per salvarsi occorre avere un approccio dialettico, nel tentativo di tenere insieme idee che sulla carta si oppongono. Non credo alla rivoluzione che fa tabula rasa del passato, producendo spesso realtà peggiori di quelle che ha voluto trasformare. Al contrario, abbiamo bisogno di tutte le riforme culturali della storia dell'umanità per trasformare e trasformarci. Per questo è necessario conservare tutti gli aspetti positivi della mondializzazione, che per me contiene il meglio e il peggio. Insomma, occorre al contempo mondializzare e de-mondializzare a seconda degli ambiti, favorire la crescita ma talvolta la decrescita, tenere conto dello sviluppo ma anche dell'inviluppo, della trasformazione come della conservazione. Questa strategia complessa ci consente di conservare la speranza, che naturalmente non è una certezza. Anzi, visto il contesto, la speranza è perfino improbabile. La storia però ci insegna che a volte l'improbabile è riuscito a prendere il sopravvento». (...)
(intervista a Edgar Morin, di fabio gambaro, www.repubblica.it  16 marzo 2012 )

Il vecchio muore e il nuovo non può nascere, e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. (Antonio Gramsci, citato da Joseph Losey per il Don Giovanni di Mozart)

martedì 22 maggio 2012

Parma e Catania: responsabilità e federalismo

Seicento milioni di euro di debiti, in una città come Parma: eppure l’ex sindaco, uno dei responsabili del disastro, era tra i candidati alle elezioni. In teoria, avrebbe potuto essere rieletto; e non sono stati pochi i parmigiani che l’hanno votato. Per fortuna, la maggioranza dei cittadini ha tagliato corto, Ubaldi e il suo successore Vignali sono rimasti fuori, il ballottaggio si è svolto tra due candidati nuovi, cioè fra due persone che non hanno responsabilità di questo dissesto. Auguri al nuovo sindaco, dunque; ma l’interrogativo rimane, ed è di quelli pesanti.
Come è possibile che si possa mandare al dissesto una città senza prendersene la minima responsabilità? Questa era la prima misura da prendere, la responsabilità civile e penale quanto meno del sindaco e dell’assessore al bilancio. Di federalismo si è parlato e straparlato per vent’anni, ma senza mai toccare questo punto: e mi stupisco ancora che nessuno se ne sia accorto, si è parlato solo di “soldi che devono restare qui”, ed evidentemente c’era qualcuno che aveva le idee ben chiare su quel “qui”. Invece no, la prima cosa a cui pensare era che qualcuno si deve prendere la responsabilità di quei soldi, soprattutto in caso di federalismo fiscale: se mandi in dissesto il Comune, galera o risarcimento.

Sia ben chiaro, non voglio mandare in galera nessuno: basterebbe, prima, dare le dimissioni. Un sindaco e un assessore si rendono conto che qualcosa non funziona? Ne danno pubblico annuncio, e si dimettono prima che la situazione diventi irreparabile. Tutto sarebbe chiaro, i cittadini prenderebbero atto di come è stata amministrato il Comune, si aprirebbe una discussione seria, eccetera.
Un circolo virtuoso che non avremo mai, viene da dire: non certo con chi ha portato al Parlamento persone come l’ex sindaco di Catania, Scapagnini (stessa situazione di Parma: è ancora oggi al suo scranno, lauto stipendio e lauta pensione garantita, più tutti i benefit). Ce ne sono altri in questa situazione, ma di queste persone non si parla mai. Si dice sempre che sono tutti uguali, ma non è che sia proprio vero: a Parma il PD ha perso le elezioni, ma negli ultimi anni non ha mai governato Parma. E Parma è stata una città modello, molto ben governata, finché c’è stato il PCI, cioè per mezzo secolo. Il PCI non esiste più, e quanto al PD suo erede, noi elettori di sinistra sappiamo benissimo perché non convince e glielo stiamo dicendo da tempo, speriamo che prima o poi se ne rendano conto.

PS: ieri, però, la cosa che più mi ha fatto impressione in tv è stata vedere le facce di persone come La Russa e Gelmini, o come Maroni e Romani, e ascoltare i loro commenti. Siamo ancora tutti spaventati dal terremoto e dall’attentato di Brindisi, e questi qua, seduti in Parlamento accanto a Scapagnini, eccetera, e dopo vent'anni di governo che ci hanno ridotti in queste condizioni, si mettono a disquisire e a spiegarci cosa si deve fare... Spero che le elezioni arrivino presto.
PPS: intanto che scrivo, passa qui sopra un elicottero rumorosissimo e inquinante. Vuoi vedere che è proprio lui, Silvio Berlusconi? Si è appena comperato una magnifica villa sul Lago di Como, per andarci da Monza o da Milano si può passare da qui, e chissà se ha fatto fare il bollino per le emissioni dei gas di scarico, come mi tocca fare a me. Ma forse, chissà, gli elicotteri e i jet privati non inquinano.
(aggiornamento al 29 maggio 2012: vedo a Ballarò, in tv, l'onorevole Crosetto di Forza Italia ripetere questi concetti tali e quali, e con molta grinta e convinzione - peccato che l'on.Crosetto sia al governo con l'ex sindaco di Catania, probabilmente lo vede tutti i giorni, il partito è lo stesso. E' molto probabile che alle prossime elezioni con Crosetto ci siano anche gli ex sindaci di Parma, quelli che hanno fatto il buco da seicento milioni in pochissimi anni: che ci siano o non ci siano, però, dipende da chi va a votare.)

venerdì 18 maggio 2012

Svevo profeta

«L'avvenire del mondo era di divenire tutto un'unica, una sola città. Addio campagne, addio boschi, addio prati. Come avrebbero mangiato tutti costoro? Chimicamente? Oh! disgraziati». L'idea colossale gli era venuta dalla vista di tre case coloniche con altre tre piú in là e due prima e infine altre quattro. Invadevano i campi! Egli vedeva come fra tutte queste case se ne sarebbero messe delle altre e tutte in fila. Ma però, quando il mondo sarebbe stato tutta una città, lui, sua moglie e persino suo figlio avrebbero domandato poco posto. Era giusto di tranquillizzarsi con tanto egoismo? Non sarebbe stato meglio di soffrire per i posteri? Il signor Aghios sorrise. Il mondo era costruito tanto bene che certi dolori sono impossibili. In seguito ad un altro richiamo dell'ispettore il signor Aghios arrivò a sentire ancora: «In conclusione io pretendo che il cittadino si scelga un Governo, eppoi non s'ingerisca di altro. Questa è la vera libertà ».
(Italo Svevo, da “Corto viaggio sentimentale”, pagina 79 dell’edizione Dall’Oglio del 1980)

L’esattezza della visione, che fotografa in maniera perfetta il nostro mondo del 2012, mi ha fatto subito pensare che questo brano è stato scritto quasi cent’anni fa: Italo Svevo è morto nel 1928, il racconto è stato pubblicato postumo. Nel libro, il cui titolo è una dedica a Laurence Sterne, Svevo racconta di un viaggio in treno nella Pianura Padana, da Milano fino a Trieste. Questo è il terzo capitolo, siamo nei dintorni di Padova; ma se guardate su Google Map o su qualche servizio simile, vi accorgerete – anche senza viaggiare – che il mondo, da queste parti, è ormai per davvero “tutto un'unica, una sola città”.
Ma la profezia più famosa di Svevo è sicuramente quella che chiude “La coscienza di Zeno”, proprio le ultime righe dell’ultima pagina. Le riporto qui sotto, perché anch’io ogni tanto me ne dimentico; e sulle cause di questa dimenticanza non è il caso di stare a indagare, è la più classica delle rimozioni (“La coscienza di Zeno” fu pubblicato nel 1923, quando Hiroshima e Nagasaki erano ancora soltanto i nomi di due città lontane).

....legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del piú forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe : sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
(Italo Svevo, La coscienza di Zeno, l’ultima pagina)

domenica 13 maggio 2012

Tarocchi

Il bagatto, un uomo con una bancarella, forse un calzolaio, è la prima carta degli arcani nel mazzo dei tarocchi. Gli arcani dei tarocchi sono 23, come le lettere dell’alfabeto ebraico; le altre carte del mazzo sono quelle solite, quattro segni numerati da uno a dieci e poi le tre figure consuete.

... una piccola scatoletta bianca o qualcosa di simile si aprí sotto il mio piede sparpagliandosi in una serie di foglietti macchiettati. La urtai lievemente col piede: uno di quei foglietti finí nella zona chiara. Un'immagine? Mi chinai: un bagatto! Quel che m'era sembrato una scatola bianca, in realtà era un mazzo di tarocchi. Lo raccolsi da terra. Ci poteva essere qualcosa di piú ridicolo: un mazzo di carte lí, in quel luogo spettrale! Cosí strano, che dovetti costringermi a sorridere.
Ma un lieve senso d'orrore mi afferrò d'improvviso. Cercai di spiegarmi in termini banali come quelle carte fossero arrivate sin lí, e macchinalmente mi misi a contarle. C'erano tutte: settantotto. Ma già mentre le contavo m'ero accorto di qualcosa di singolare: le carte erano come di ghiaccio. Un gelo paralizzante proveniva da esse, e come ebbi il mazzo chiuso nella mano, quasi non mi riusciva piú di staccarnelo via, tanto intirizzite erano le mie dita.
Di nuovo cercai di darmi una spiegazione sensata. Il mio vestito leggero, tutto quel tempo trascorso senza cappotto e senza cappello in quei budelli sotterranei, la terribile notte invernale, quelle pareti di pietra, il gelo feroce che col chiaro di luna entrava dalla finestra: era insomma abbastanza strano che mi sentissi gelare soltanto ora. L'eccitazione in cui ero stato per tutto quel tempo doveva avermi impedito di accorgermene prima. (...)
Gustav Meyrink, Il Golem pag.96 edizione Bompiani 1977, traduzione di Carlo Mainoldi.
«Eppure ci dovrebbe essere un libro contenente tutte le chiavi degli enigmi dell'aldilà, e non soltanto alcune », mi venne fatto di pensare, e intanto la mia mano giocava macchinalmente con il Bagatto che ancora avevo in tasca. Ma prima che potessi tradurre in parole la domanda, Zwakh l'aveva già formulata.
Hillel sorrise di nuovo al modo di una sfinge. «Ogni domanda che un uomo possa fare ha già la sua risposta nell'istante medesimo in cui l'abbia posta al suo spirito.»
«Capisce lei quel che vuol dire?» disse Zwakh rivolto a me.
Non risposi, trattenevo il fiato per non perdere parola del discorso di Hillel. Schemajah proseguí: «L'intera vita altro non è che una serie di domande divenute forme, che hanno in sé il germe della risposta, e di risposte gravide di domande. Chi vi vede qualcosa d'altro non è che un pazzo.»
Zwakh batté il pugno sul tavolo: «Come no: domande che ogni volta hanno un suono diverso, e risposte che ognuno intende a suo modo.»
«Tutto dipende da questo», disse Hillel in tono amichevole. «Guarire tutti gli uomini con un unico metodo è privilegio della medicina soltanto. Colui che domanda riceve la risposta di cui ha bisogno: se cosí non fosse, le creature non prenderebbero la via dei loro desideri. Probabilmente lei crede che le nostre scritture ebraiche siano scritte con le sole consonanti unicamente per arbitrio. Ciascuno ha invece il dovere di trovarsi da solo le vocali segrete che gli dischiudono il senso a lui e solo a lui destinato - se la parola vivente non deve irrigidirsi a dogma senza vita.»
Il burattinaio replicò con violenza: «Queste son parole, rabbino, parole! Che mi possa chiamare Bagatto ultimo se ci capisco qualcosa.» Bagatto! La parola mi colpí come un fulmine. Dallo spavento poco mancò che cadessi dalla sedia.
Hillel evitò il mio sguardo. «Bagatto ultimo? Chissà che lei non si chiami davvero cosí!» esclamò Hillel, e le sue parole mi giunsero come da un'enorme distanza. «Non si dev'essere mai troppo sicuri del fatto proprio. Del resto, poi che stiamo parlando di carte, signor Zwakh, lei sa giocare ai tarocchi?»
«Ai tarocchi? Naturalmente. Fin da bambino.»
«Mi meraviglio allora che mi chieda di un libro in cui ci sia tutta la Cabala, quando l'ha avuta in mano migliaia di volte.»
«Io, avuto in mano? io?» Zwakh si prese la testa fra le mani.
«Ma certo, lei! Non le è mai venuto in mente che il gioco dei tarocchi ha ventidue trionfi, esattamente quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico? Le nostre carte boeme non hanno per di piú delle figure che sono palesemente dei simboli: il matto, la morte, il diavolo, il giudizio finale: come vuole, caro amico, che la vita gliele gridi, le risposte?... Quel che per altro non le rimprovero di non sapere è che “tarocco” o “tarot” ha lo stesso significato dell'ebraico “tora” che vuol dire Legge, o dell'antico egiziano “tarut” che significa “l'interrogata”, o, nell'antico zendo, della parola “tarisk”, che vale “io esigo la risposta”. Particolari che i dotti dovrebbero conoscere, prima di affermare come fanno che i tarocchi non risalgono che all'epoca di Carlo VI. E come il Bagatto è la prima carta del gioco, cosí l'uomo è la prima figura nel suo proprio libro di immagini, il suo doppio:... la lettera ebraica aleph che, costruita secondo le forme dell'uomo, con una mano indica verso il cielo e con l'altra in basso; ciò significa dunque : Cosí come è sopra è anche sotto, cosí come è sotto è anche sopra. Per questo prima le dicevo: chissà se davvero lei si chiama Zwakh e non Bagatto - non dovrebbe nominarlo.»
Hillel in tutto questo discorso aveva continuato a fissarmi, e sotto le sue parole io presagivo lo spalancarsi di un abisso di nuovi significati. «Non lo nomini, signor Zwakh, perché si può cadere in anditi senza luce, dai quali nessuno è mai tornato indietro che non avesse su di sé un talismano. Racconta la tradizione che una volta tre uomini eran discesi nel regno delle tenebre: il primo era folle, il secondo cieco, solo al terzo, al rabbino ben Akiba, riuscí di tornare sano e salvo, e disse di aver incontrato se stesso. Lei dirà che a più d'uno è capitato d'incontrarsi, a Goethe, per esempio, di solito avveniva su un ponte, o altre volte lungo un sentiero che portava da una riva all'altra di un fiume - e il poeta si guardò negli occhi, senza impazzire. Ma in quel caso non si trattava che di una proiezione della sua coscienza e non del vero doppio: non di ciò che vien chiamato “soffio delle ossa”, “Habal Garmin”, del quale si dice che come discese incorruttibile nella tomba, cosí risorgerà il giorno del giudizio universale.»
Lo sguardo di Hillel penetrava sempre più profondamente nelle mie pupille. «Le nostre nonne dicono di lui: abita molto in alto al di sopra del suolo in una stanza senza porte, che s'apre solo con una finestra, dalla quale non è possibile intendersi con gli altri uomini. Chi è capace di evocarlo e di purificarlo diverrà buon amico di se stesso... Per quanto concerne infine i tarocchi, lei lo sa bene quanto me: a ogni giocatore capitano carte diverse, ma chi manovra come si conviene gli atout, vince la partita... Venga adesso, signor Zwakh! Andiamo, se no si beve tutto il vino di mastro Pernath, e per lui non ne resta piú.»
Gustav Meyrink, Il Golem, pag.109-110 edizione Bompiani 1977, traduzione di Carlo Mainoldi.
...cercai il Bagatto. Non c'era. Dove poteva esser andato a finire? Riguardai ancora una volta le carte a una a una e mi perdetti in riflessioni sul loro senso occulto. In particolare, l'appeso: che mai poteva significare? Un uomo è sospeso a una corda tra cielo e terra, la testa in giú, le braccia legate dietro la schiena, la gamba destra incrociata sulla coscia sinistra, sí da configurare una croce su un triangolo capovolto. Incomprensibile simbolo!
Ecco, finalmente! Charousek arrivava. O forse no?
Piacevole sorpresa, era Miriam. (...)
Gustav Meyrink, Il Golem, pag.160 edizione Bompiani 1977, traduzione di Carlo Mainoldi.
Dalla lettura dei libri di Gustav Meyrink si esce con un leggero senso di vertigine, è l’incontro con qualcosa di inaspettato, non si è sicuri di aver ben capito bene tutto, anzi sappiamo di esserne molto lontani, ma è una lettura che non si può interrompere, per quanto sia sconcertante quello che leggiamo. Come andrà a finire, la storia dell’uomo che è entrato nella misteriosa stanza del Golem?
Il libro di Meyrink è del 1915, il mito del Golem è molto più antico ed è l’antecedente illustre di molte storie ormai famose, primo fra tutti la creatura del dottor Frankenstein (ma c’è chi dice: attenzione, anche Pinocchio è un Golem).
La vertigine che proviamo leggendo Meyrink è la stessa che prova il protagonista del suo racconto, ed è – in definitiva – lo stato in cui passiamo la nostra vita. Come si fa a sapere se quello che stiamo facendo è la cosa giusta, se le persone a cui ci stiamo legando o affidando sono quelle giuste? E, in definitiva, c’è una qualche logica in quello che ci succede nelle nostre vite?

venerdì 11 maggio 2012

Il ladro di biscotti

Stavolta non è scappato. Mi ha visto, mi ha guardato, ma non è scappato via e soprattutto ha fatto tutto con calma: che se ne stia accorgendo?
Beh, calma si fa per dire: a casa delle cince si fa tutto di corsa, di fretta, chi ha mai visto un uccellino fare le cose con calma? Gli uccellini piccoli sono sempre un po’ frenetici, è la loro natura, e le cince non fanno eccezione.
Questa qui è una cincia gigante – nel senso che è grande quasi come il mio dito mignolo: esistono anche delle cincette ancora più piccole, anche loro vengono sul mio balcone. Non ne sono rimaste molte, qui intorno di piante ne hanno tagliate tante, quasi tutte, dalla prima volta in cui mia mamma (molti anni fa) ha cominciato a mettere le briciole sul balcone. Per avere come vicini di casa le cince, e i pettirossi, servono alberi alti e con molte foglie, cioè proprio quel tipo di albero che i vicini di casa umani (e magari anche il Comune) estirpano con cura e con metodo: fanno ombra, le radici impediscono il parcheggio, e (orrore!) poi cadono le foglie sulla macchina; e infine, novità di questi ultimi anni, se vuoi mettere il fotovoltaico ed essere davvero ecologico, allora devi abbattere le piante.
Per intanto però la cincia è qui, deve avere il nido e tanti piccoli, perché si mangia un biscotto al giorno ed è impossibile che un uccellino così piccolo riesca a mangiare da solo l’equivalente del suo peso (cioè un biscottino secco di quelli da mangiare col caffelatte). La cincia è convinta di essere un ladro; pian piano si sta rendendo conto che non è così, ma io penso che se non si convince è meglio, ed anzi è giusto spaventarla un po’. Non tutti gli umani si divertono ad avere gli uccellini sul balcone, non tutti gli umani amano le cince, e anzi sono molti a pensare che queste sono tutte scemenze, cose da bambini, meglio spianare tutto e fare un bel parcheggio per la moto.
Ancora meglio del biscotto è la carta che sta sotto al panettone: ci rimangono attaccate tante di quelle cose da nutrire un reggimento di cince, bisogna però avere l’accortezza di mangiarsi di persona le uvette e i canditi, che sono troppo grossi per loro (cosa che eseguo regolarmente in prima persona, uvette e canditi sono buonissimi). Se li lasciate, uvette e canditi, magari va a finire che arriva qualche uccellino un po’ più grosso, magari un merlo, e pulire il balcone diventerà un po’ più impegnativo; ma con le cince non c’è problema, sono dei ladri velocissimi. Ladri di biscotti, s’intende.
Stamattina, mia mamma ha messo in ordine i vasi di fiori sul balcone, rovinati dalla grandine di sabato scorso: un lavoro complesso, che ha richiesto il suo tempo. Il ladro di biscotti, impazientissimo, si aggirava intorno al balcone: è uno scandalo, sembrava voler dire, è due ore che aspetto, il pranzo è servito ma io non posso accedervi, cosa diranno i miei piccolini?
Abbiamo fatto anche un esperimento: due mucchietti di briciole, uno col pane e l’altro col biscotto. La cincia, chi l’avrebbe mai detto, ha lasciato lì il pane e si è portata via il biscotto. Ripetuto l’esperimento, e mettendo un po’ di zucchero sul pane bagnato, anche il pane diventava interessantissimo, e la cosa non finisce di stupirci. Del resto, si sa, in America e in Inghilterra già da tempo immemorabile hanno osservato degli uccellini – proprio le cince, come quelle nella foto – che avevano imparato a bucare col becco il tappo delle bottiglie del latte, per rubare la panna (in questo caso penso che si tratti davvero di furto, per la precisione: furto con scasso).
Per togliermi la curiosità, ieri ho cercato informazioni tra i miei libri e ho risolto il mistero: si tratta di un mio errore, le cince sono insettivore e non granivore. Oltre agli insetti, cioè moschini e zanzare, le cince mangiano anche altre cose, ma non i semini. Se ci fate caso, gli uccellini che mangiano i semi (i passeri e i canarini, per esempio) hanno il becco corto e robusto; gli uccellini insettivori invece hanno il becco lungo e sottile in punta, più adatto per le loro prede. Un mio errore, dunque: ma le cince sono così piccole e così frenetiche, chi glielo ha mai guardato, il becco?
Ma tra poco sarà tutto finito, la prossima nidiata sarà col caldo, la cincia avrà cibo a sufficienza anche senza venire sul mio balcone, ed è anzi strano che sia ancora qui, a maggio inoltrato: ma fino a ieri faceva freddo, è stata una primavera poco generosa, biscotti e carte di panettoni sono venuti a proposito. Anzi, adesso che ci faccio caso, più che le cince sul mio biscotto stanno arrivando le formiche: sarà meglio sbaraccare tutto.
Un po’ d’ordine sulle cince: ce ne sono di molte specie, quella più grande (14 centimetri coda compresa) è la cinciallegra, quella più piccola è la cinciarella. Qui a fianco ho messo una tavola con tutte le cince (genere Parus e affini) presa da un bel libro, che temo fuori catalogo: “Guida agli uccelli d’Europa” di Peterson-Mountfort-Hollom, ed. Muzzio 1983. La cinciallegra sul balcone è una mia foto: non è il ladro di biscotti di cui ho parlato, ma un suo antenato, forse un trisavolo (la foto è del 2004). Il fatto che l’uccellino abbia le penne in disordine significa che sono stato fortunato (e anche bravo, se me lo si concede) nel fotografarlo: stava già volando via, siamo quasi in assetto di volo.
La foto delle cince sulle bottiglie di latte è antica, non mi ricordo se viene da un libro o da un giornale, la conservo da molti anni e non so più dove l’ho presa.
Un altro ricordo:
Le cince sono molto curiose. Nella ditta dove lavoravo ce ne era una che tentava sempre di entrare in portineria, dal mio amico Apo: che in realtà non amava le cince, ma si divertiva comunque a vederla ogni giorno davanti alla vetrata del suo ufficio. Qualche giorno dopo, l'avevo rivista danzare davanti al retrovisore di un camion; ne concludo che molto probabilmente la cincia ama gli specchi; e danza con la sua immagine riflessa nei vetri. (la realtà, molto più banale, è che le cince non amano vedere altri uccellini intorno). (26 febbraio 1999)

giovedì 10 maggio 2012

I salottini delle banche

La fuga dalle responsabilità, un vero fuggi fuggi generale, sembra essere il tratto distintivo di quest’epoca dirigenziale. In ogni campo: quante firme vi hanno fatto fare, l’ultima volta che avete dovuto stipulare un contratto? Nella mia banca, la banca dove ho i miei soldi da trent’anni, l’ultima volta me ne hanno fatte fare dodici, o forse quattordici: ci ho messo cinque minuti, ho provato a contarle ma a un certo punto è inevitabile perdere il conto. «E’ per la privacy» dicono; ma no, non è per la mia privacy, è per scaricare su di me ogni responsabilità. Basta leggere quello che c’è scritto: c’è scritto che io autorizzo, che io prendo visione, che ho letto tutto anche in ogni minima riga, compresi i rimandi al codice civile e penale. E dunque, se qualcosa va storto, la colpa è mia e soltanto mia.
Non so se questa cosa funzionerebbe in tribunale, ma comunque ha preso piede: nelle banche, è stato il grande spavento del dopo Tanzi, gli investimenti legati alla Parmalat, ai bonds argentini. C’è stato il rischio concreto che qualche alto dirigente bancario finisse in galera, e da allora si sono presi i provvedimenti: deve fare tutto il cliente. E’ così che è andata, ed è così che è andata in molti altri settori della nostra vita: si promulgano leggi magari buone e ben fatte, per responsabilizzare, per aiutare i cittadini, e subito comincia lo scaricabarile, la fuga dalle responsabilità. Per fare un solo esempio, in un campo diverso da quello dell’economia, a metà anni ’90 io ho seguito il percorso della legge 626, quella della sicurezza sul lavoro: il senso della legge, molto ben scritta, era quello di spingere tutti a una maggiore responsabilità, il risultato finale fu una serie di vere e proprie vessazioni e carte da firmare per i lavoratori, che il più delle volte le firmavano senza pensarci troppo: ma con quelle carte firmate la responsabilità non era più dei loro capi e dei dirigenti, era tutta dell’operaio; inutile dire che farlo notare può significare la perdita del posto di lavoro. Poi succedeva questo: che in impianto passava il direttore di produzione, diceva “alza di un punto la portata” e l’operaio rispondeva: “Per cortesia, me lo può scrivere sul foglio di lavorazione?”. Mi fermo qui perché penso che sia chiaro cosa può succedere in casi come questi, se salta l’impianto e non c’è niente di scritto, la responsabilità sarò tutta dell’operaio scemo e irresponsabile, mai del dirigente.

Tornando a noi, e alle nostre banche, qualche anno fa (pochi) è stata introdotta ovunque la novità dei “salottini”: non più tetri e noiosi sportelli dove stare in piedi, ma salottini accoglienti dove sei trattato come un ospite. E io, che ormai sono fatto così, mi sono chiesto subito dov’era la fregatura. La fregatura è questa, ormai visibile a tutti: che la banca fa fare il lavoro a te, al cliente. “Comodamente da casa tua, a costo zero”: con questa formuletta magica, la banca licenzia e chiude le sedi, l’impiegato diventi tu, la responsabilità è tutta tua, se sbagli a digitare t’arrangi, se non hai i soldi per comperare computer, stampante e collegamento internet sei uno sfigato (si finisce sempre qui, allo sfigato). In tutto questo, a colpirmi di più è l’atteggiamento delle gente, dei clienti: “ma esistono i conti a costo zero!” ti dicono, imbambolati dalla pubblicità. Ebbene, i conti a costo zero ce li avevo anche nel 1981, e ti dirò di più: a fine anno mi pagavano anche gli interessi sul conto corrente, anche delle belle cifre. E tutto questo con gli impiegati e le impiegate, magari un po’ imbronciati o imbronciate, ma il lavoro lo facevano loro, mica io: io alla banca avevo già portato i miei soldi, cos’altro volevano da me?
A Milano, nei bei tempi lontani, in casi come questi i nostri vecchi dicevano: “desédas, fioeu, che l’è ura”. E cioè: “svegliati, bambinetto, che è ora di svegliarsi”.

PS: in questo momento storico, la ripresa dell’Italia è affidata proprio all’inventore dei salottini, prima alle Poste e poi in Banca Intesa: il ministro Corrado Passera. E’ a lui, e al suo staff, che devo anche l’orribile musichetta e i comunicati commerciali che imperversano ogni volta che uso il bancomat: a casa mia, o in automobile, se arriva un ospite io spengo la tv, spengo la radio, chiedo se disturba. Una regola elementare di buona educazione, ma forse in banca sono diventato un cliente sgradito.

martedì 8 maggio 2012

Privilegi e bamboccioni

Alla manifestazione del Primo Maggio, in tv, hanno intervistato un ragazzo molto giovane che ha detto: “I vecchi hanno sperperato con i loro privilegi, adesso tocca a noi pagare il conto”. Nessuno ha ritenuto opportuno commentare questa frase, che sento ripetere sempre più spesso. E’ per questo motivo che io a quel ragazzo chiederei: “Ma tu hai fatto il servizio militare?” Lo so, a questo punto partono i “macchecentra” indispettiti, seccati.
Macchecentra, tutto attaccato, a denti stretti, come i “mavalàmavalà” dell’avvocato Ghedini, come le vecchie zitelle dei tempi passati.
E allora spiego.

I ventenni non fanno più il servizio militare, e questo è un privilegio. Penso che gli ultimi ad aver fatto la visita di leva siano ormai tutti prossimi ai trent’anni, oggi il militare lo fanno soltanto i volontari, chi vuole veramente farlo, e non tutti: ma non è stato un regalo, è stata una conquista.
Una conquista molto dura, pagata con il carcere: centinaia di obiettori di coscienza si sono fatti la galera al posto del servizio di leva, dal 1945 in qua, per decenni. E si intenda: due anni di galera invece di due anni di leva, quindici mesi di galera invece di quindici mesi di servizio militare, eccetera. Prima, prima del 1945, andava ancora peggio: l’obiezione di coscienza era diserzione, e per la diserzione si poteva essere fucilati o impiccati. E’andata così per secoli, forse per millenni: negli anni più vicini a noi lo raccontano le cronache e le testimonianze dirette, dagli anni più lontani ci sono arrivate molte ballate popolari che raccontano le storie dei disertori, in realtà persone che avevano solo il desiderio di buttare il fucile, smettere di ammazzare o di farsi ammazzare, e tornare al loro lavoro e alle loro famiglie.
Ci avrà pensato, quel ragazzo di vent’anni che parlava di privilegi? La pensione a cinquant’anni è stata una conquista, io ho visto operai e muratori anziani far fatica a lavorare, mi spaventa molto pensare a persone di sessanta o sessantacinque anni salire su un ponteggio o fare lavori pesanti, capisco che per uno di vent’anni tutta questa possa sembrare retorica, ma mio padre è morto a poco più di cinquant’anni, io ne avevo ventitrè e da allora ho smesso di dire scemenze, almeno in questo campo. Lo Statuto dei Lavoratori, del 1970, è stato una conquista preceduta da scioperi che hanno messo in pericolo l'incolumità di chi vi aderiva e decurtato, di molto, i salari e gli stipendi di chi si batteva per quelle conquiste; l’autunno caldo del 1969, del quale ancora oggi si parla, è stato solo uno dei tanti momenti in cui i cittadini hanno fatto sentire la loro voce, magari anche a rischio della propria vita. In pochi anni, meno di quindici, tutto questo è stato spazzato via: ma non sono state le pensioni degli operai a far saltare il bilancio dello Stato, sono state le ruberie e gli intrallazzi di poche e ben determinate persone. Di quelle persone abbiamo le firme, firme su leggi, regolamenti, bilanci, manovre: che se la prendano con quelle persone, e non con le date di nascita.
Siamo tutti sulla stessa barca, vecchi e giovani, donne e uomini, indigeni e immigrati. E’ dura da digerire, ma è così; e comunque buona fortuna a tutti quelli che passano di qua e mi leggono, ne abbiamo tutti un gran bisogno.

PS: sul tema del disertore, una delle registrazioni più belle è quella di “The deserter” dall’album “Liege and lief” dei Fairport Convention: è una ballata del ‘700, se non ricordo male. Ne riporto qui il testo. (il finale è molto consolatorio, ma non credo proprio che rispecchi la realtà).
As I was a-walking down Radcliffe highway
A recruiting party came a-beating my way
They enlisted me and treated me till I did not know
And to the Queen's barracks they forced me to go
When first I deserted, I thought myself free
Until my cruel comrade informed against me
I was quickly followed after and brought back with speed
I was handcuffed and guarded, heavy irons put on me
Court martial, court martial, they help upon me
And the sentence passed upon me, three hundred and three
May the Lord have mercy on them for their sad cruelty
For now the Queen's duty lies heavy on me
When next I deserted, I thought myself free
Until my cruel sweetheart informed against me
I was quickly followed after and brought back with speed
I was handcuffed and guarded, heavy irons put on me
Court martial, court martial, then quickly was got
And the sentence passed upon me, that I was to be shot
May the Lord have mercy on them for their sad cruelty
For now the Queen's duty lies heavy on me
Then up rode Prince Albert in his carriage and sticks
Saying "Where is that young man whose coffin is fixed?
Set him free from his irons and let him go free
For he'll make a good soldier for his Queen and country"
Recorded by Fairport Convention on Liege and Lief and by the
Young Tradition as "Ratcliff Highway"

lunedì 7 maggio 2012

Pista ciclabile

Mi sono guardato con attenzione le immagini tv della manifestazione “Salviamo i ciclisti”, svoltasi nelle principali città italiane. C’era molta gente, grande successo: ma quasi tutti erano ciclisti super accessoriati, con biciclette speciali e costose, mountain bike, casco, scarpine, tute griffate. Pochissimi, invece, o comunque in netta minoranza i ciclisti normali, vestiti normali, con biciclette normali: qui c’è qualcosa che non va, mi sono detto.
Si sa, andare in bicicletta è da sfigati.
Enzo Jannacci ci aveva scritto sopra una bella canzone, negli anni ’60: “prendeva il treno per non essere da meno...”. E’ la storia di uno che andava a lavorare in bicicletta, ma si vergognava a dirlo; quando si era innamorato la ragazza che gli piaceva gli aveva detto “ah sì, lei è il ciclista”, e lui allora – non avendo i soldi per comperarsi la macchina – aveva fatto l’abbonamento al treno.
Uno sfigato, appunto: ma se invece vai in bici tutto griffato, con la muntànbài, col cambio che da solo vale dieci volte il prezzo della mia biciclettona nera (quello che uso da vent’anni), eh, allora cambia tutto. Allora, vai in bici ma non sei più uno sfigato: vuoi mettere?

L’uso vero della bicicletta, quello normale, quello che giustifica manifestazioni come “Salva i ciclisti” (lo scrivo a parole staccate, perché io sono per l’appunto uno sfigato che non segue le mode, e ci tengo a dirlo) è quello più semplice, con le biciclette più semplici, vestiti come si è in casa, le mollette sui pantaloni, il cestino della spesa, il giornale nel portapacchi.
Dite che non è possibile, che è pericoloso? Infatti, il problema è proprio qui: che andare in bicicletta è diventato pericoloso, lo hanno fatto diventare pericoloso, siete riusciti a farlo diventare pericoloso. Fino a pochi anni fa, qui andavano tutti in bicicletta; ma adesso sono rimasti in pochi, quasi tutti vecchi, i più giovani hanno cinquant’anni. Non so nelle altre città, ma qui nel comasco, nel varesotto, nel milanese, andare in bicicletta è diventato pericoloso: io andavo a scuola in bicicletta, pensa un po’, e facevo la prima media. Mio padre aveva sistemato per noi delle biciclette vecchie, se poi le rubavano pazienza, ma se sono vecchie è difficile che te le rubino, e per fare un paio di chilometri vanno benissimo.

Quand’è che diventa indispensabile avere il casco? Il casco è indispensabile per chi va a settanta all’ora, per l’agonismo, per le mountain bike; ma se andate a fare la spesa, se andate al bar o a comperare il giornale (e chi va in bici lo sa), se cadi ti speli le ginocchia, ti fai male alle mani, ma ora che arrivi a picchiare la testa, se vai piano, ce ne vuole di tempo (e di sfortuna).
Ma, si sa, andare in bici vestiti normale, su una bici normale, magari con le mollette del bucato sui pantaloni, o con i pantaloni rimboccati, è da sfigati. Se non posso usare la mia superbike, se non posso mettere il completino griffato e il casco fosforescente, allora tanto vale andare in macchina, ho giusto il suv pronto in garage, se non hai il suv sei uno sfigato, se non hai la moto idem.

PS: E le piste ciclabili? Le piste ciclabili andavano fatte a Milano, e non le hanno fatte. Ci sono, ma sono a pezzettini: due chilometri di pista ciclabile, e poi attraversi un rondò con le macchine che arrivano a novanta all’ora. Le piste ciclabili me le hanno fatte invece qui vicino a casa, cioè nelle strade dove sono sempre andato in bicicletta perché non c’erano grossi pericoli, a parte le buche e le pozzanghere. Prima avevo cento chilometri di pista ciclabile, e anche di più: nel senso che andavo dove mi pare, tutte le strade erano buone, soprattutto la domenica. Adesso ho le piste ciclabili, che però durano meno di due chilometri e poi c’è un rondò pericolosissimo da attraversare; e ogni volte che ne trovo una, di pista ciclabile, mi sembra che mi stiano dicendo “quello lì è il tuo posto, ciclista rompicoglioni, e la prossima volta stai a casa tua che è meglio”. L’ultima volta che ho fatto caso ad una pista ciclabile, la usavano per sorpassare a destra quelli che erano fermi per voltare a sinistra: dico le macchine, le automobili, mica i ciclisti. Quelli lì, i ciclisti, se anche si fossero trovati a passare sulla pista ciclabile in momenti come quello, nessun casco li avrebbe mai salvati, griffato o non griffato.

venerdì 4 maggio 2012

Aboliamo i Comuni

Ieri sera ho assistito in tv, al tg regionale, ad un servizio dove si parlava della messa in opera di un grande cavalcavia, a Busto Arsizio: è per la nuovissima Pedemontana, che attraverserà la Lombardia da Est e Ovest. In particolare, questo cavalcavia servirà per i collegamenti con la Malpensa.
Abito proprio dentro a uno dei paesi attraversati dalla nuova Pedemontana, e posso raccontare cosa succede: i paesi non esistono più, esistono solo le autostrade e le superstrade. Non c’è stata solo la Pedemontana, qui in zona: c’è stato anche l’allargamento della Milano Laghi, una corsia in più per entrambi i sensi di marcia. E’ il progresso, mi dicono: può darsi, ma il risultato è che i Comuni non esistono più, il paese dove io abito da quando sono nato non c’è più, non esistono più nemmeno i Comuni vicini, cancellati dalle nuove autostrade e superstrade e dalla speculazione edilizia degli ultimi 10-15 anni. Il mio paese, e i paesi vicini, non sono più posti dove vivere: sono solo delle noiosissime interpolazioni fra un’uscita della Pedemontana e la successiva, fra una bretella stradale per raggiungere l’uscita della Milano Laghi, fra un rondò e un centro commerciale, impossibile pensare ad altro. Dato che la situazione è simile ormai in tutta la Pianura Padana, non rimane altro da fare che prenderne atto: aboliamo i Comuni, che ormai non hanno più senso.
Nel recente dibattito sull’abolizione delle Province non ho mai sentito discutere di questo dato di fatto: qui da noi i Comuni non esistono più, dovremmo avere il coraggio di dire “io abito all’uscita n.35 della Pedemontana” e non “io sono di”. Felicemente contrassegnati da numeri, ridotti a quello che sono, cioè ad aree speculative delimitate col righello dai geometri, potremmo affidare il controllo di questi lotti speculativi, che anticamente furono paesi, alle Province, che riavrebbero finalmente un senso. Il risparmio sarebbe notevole: nove o dieci Province invece di un migliaio di Comuni, hai presente quanti politici manderemmo a casa? Suvvia, un po’ di coraggio, i Comuni non ci sono già più, aboliamo anche i parchi regionali, tassiamo ferocemente gli antiquati orti e giardini, costruiamo al loro posto tanti parcheggi per le nostre nuove auto ibride, chi non ha l'ibrida è uno sfigato, questo è il futuro e chi si oppone è un povero pirla da guardare con commiserazione.

Sono contrario ai terremoti

Ieri sera è terminato, per fortuna senza vittime, l’ennesimo fatto di cronaca nera: un uomo che si è asserragliato negli uffici di Equitalia a Romano di Lombardia, nel bergamasco. Come tutti noi, mi sono trovato ad ascoltare un po’ di pareri per radio e ai tg (la radio era Radio Popolare di Milano, un eccellente servizio nel “microfono aperto” dalle 20 alle 21). Erano pareri di politici e di gente comune, di politologi e di psicologi; molti di questi pareri erano sensati, altri un po’ meno, ma quello che mi ha colpito è stato che c’è un sacco di gente che si dichiara contraria.
Che significato ha dichiararsi contrari? Ogni giorno, e da molti mesi, ne succede almeno uno, di questi fatti: suicidi, omicidi in famiglia, tentate rapine fatte da disperati, gente che sale su torri e terrazze, come si fa a dichiararsi favorevoli o contrari? Un fatto che mi ha colpito molto è stato quello del farmacista avvelenato col cianuro da un conoscente che doveva rendergli un prestito: una cosa senza senso da qualsiasi parte la si guardi, ma è successa.
Il discorso sarebbe lungo, e mi fermo qui per non dire tutto quello che penso; aggiungo solo che posso capire che la gente comune si esprima in modo inadeguato, ma i politici che dicono “sono contrario” o “sono favorevole” anche di fronte alle catastrofi (personali o di tutti) mi fanno spavento, si stanno dimostrando del tutto inadeguati e dovrebbero farsi da parte. Un discorso ancora più duro lo vorrei fare su quei politici che ci hanno amministrato e governato fino a sei mesi fa, che erano ministri, assessori, e che lo sono stati per molti anni, e che adesso continuano a imperversare , magari col ditino alzato, mentre fino a sei mesi fa negavano addirittura che ci fosse una crisi economica (e intendo: leghisti, berlusconiani, ex missini. Non è vero che sono tutti uguali, non tutti hanno governato e non tutti hanno negato la crisi).
Ascoltando molti di questi pareri, ieri sera (non tutti, grazie al Cielo), mi è tornato in mente anche il dibattito (ormai dimenticato, a quel che vedo) sulle radici cristiane, che fino a pochi mesi fa volevamo mettere nella Costituzione, eccetera. Come si fa a dirsi cristiani e nel contempo dire “se l’è cercata” davanti a una tragedia? Eppure è possibile, anche questo è possibile, ed è una cosa che fa spavento, soprattutto in prospettiva futura.

martedì 1 maggio 2012

Colori e scrittori

Primo Levi da “L’altrui mestiere” (Einaudi 1985)
Il rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese; è altrettanto complesso, spesso ambivalente, ed in generale viene compreso appieno solo quando si spezza: con l'esilio o l'emigrazione nel caso del paese d'origine, con il pensionamento nel caso del mestiere. Ho abbandonato il mestiere chimico ormai da qualche anno, ma solo adesso mi sento in possesso del distacco necessario per vederlo nella sua interezza, e per comprendere quanto mi è compenetrato e quanto gli debbo. Non intendo alludere al fatto che, durante la mia prigionia ad Auschwitz, mi ha salvato la vita, né al ragionevole guadagno che ne ho ricavato per trent'anni, né alla pensione a cui mi ha dato diritto. Vorrei invece descrivere altri benefici che mi pare di averne tratto, e che tutti si riferiscono al nuovo mestiere a cui sono passato, cioè al mestiere di scrivere.
Si impone subito una precisazione: scrivere non è propriamente un mestiere, o almeno a mio parere, non lo dovrebbe essere: è un'attività creativa, e perciò sopporta male gli orari e le scadenze, gli impegni con i clienti e i superiori. Tuttavia, scrivere è un «produrre», anzi un trasformare: chi scrive trasforma le proprie esperienze in una forma tale da essere accessibile e gradita al «cliente» che leggerà.
Le esperienze (nel senso vasto: le esperienze di vita) sono dunque una materia prima: lo scrittore che ne manca lavora a vuoto, crede di scrivere ma scrive pagine vuote. Ora, le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare, e non solo di fatti: anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia (che è un giudice imparziale, impassibile ma durissimo: se sbagli ti punisce senza pietà), il vincere, il rimanere sconfitti. Quest'ultima è un'esperienza dolorosa ma salutare, senza la quale non si diventa adulti e responsabili.
Credo che ogni mio collega chimico lo potrà confermare: si impara piú dai propri errori che dai propri successi. Ad esempio: formulare un'ipotesi esplicativa, crederci, affezionarcisi, controllarla (oh, la tentazione di falsare i dati, di dar loro un piccolo colpo di pollice!) ed infine trovarla errata, è un ciclo che nel mestiere del chimico si incontra anche troppo spesso «allo stato puro», ma che è facile riconoscere in infiniti altri itinerari umani. Chi lo percorre con onestà ne esce maturato.
Ci sono altri benefici, altri doni che il chimico porge allo scrittore. L'abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà ed il comportamento, conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose.
La chimica è l'arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. C'è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente. Anche il profano sa che cosa vuol dire filtrare, cristallizzare, distillare, ma lo sa di seconda mano: non ne conosce la «passione impressa», ignora le emozioni che a questi gesti sono legate, non ne ha percepita l'ombra simbolica. Anche solo sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di una insospettata ricchezza: «nero come...»; «amaro come...»; vischioso, tenace, greve, fetido, fluido, volatile, inerte, infiammabile: sono tutte qualità che il chimico conosce bene, e per ognuna di esse sa scegliere una sostanza che la possiede in misura preminente ed esemplare.
Io ex chimico, ormai atrofico e sprovveduto se dovessi rientrare in un laboratorio, provo quasi vergogna quando nel mio scrivere traggo profitto di questo repertorio: mi pare di fruire di un vantaggio illecito nei confronti dei miei neo-colleghi scrittori che non hanno alle spalle una militanza come la mia. Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo.
(Primo Levi dal volume “L’altrui mestiere”, ed. Einaudi 1985) (il brano ha per titolo "Ex chimico")

Questo libro è uno dei meno letti e meno citati, fra quelli di Primo Levi, ma è anche uno dei più belli: vi si parla di Huxley, di Rabelais, di Queneau, delle traduzioni, di storia naturale, e anche di chimica. “L’altrui mestiere” è la scrittura: il mondo dei letterati è sempre stato piuttosto chiuso, si veniva cooptati, guai a chi “viene da fuori”. Che sia Jack London o Italo Svevo, Joseph Conrad o Primo Levi, ci sarà sempre qualcuno che vi pesa e vi giudica e vi bolla: “diarista”, “vernacolare”, “imperfezioni linguistiche”. Poi, critici pigri e lettori disattenti ripeteranno quei giudizi per decenni, magari anche per secoli. E invece no, basta mettersi a leggere, e levarsi le fette di salame dagli occhi per accorgersi che non solo Italo Svevo scrive benissimo, anche se con qualche inflessione triestino-veneziana o “crucca” tout court (e in fin dei conti, se uno si chiama Ettore Schmitz e vive a Trieste nei primi del ‘900, tutto questo mi sembra normale), ma Primo Levi non è affatto un diarista, e scrive in un italiano limpido ed esemplare, dote che è concessa a pochi. Levi parte dalle sue esperienze di vita e cerca di trarne qualcosa che possa servire anche agli altri: è diarismo? Se si definisce diarismo quello che ha scritto Primo Levi, vuol dire che di Primo Levi non si è capito niente, o che forse non lo si è proprio mai letto. Che un “non letterato” possa scrivere meglio di uno che ha studiato da letterato, dà fastidio: un classico dell’invidia, insomma, ma è meglio non trarne conclusioni generali, perché dai letterati Primo Levi è stato anche molto amato, e all’Einaudi per nostra fortuna c’era Italo Calvino che lo ha saputo leggere.
Non è da tutti saper leggere: è per questo motivo che ho portato qui per intero queste pagine di Primo Levi, sapendo già in partenza che molti di quelli che passano si fermeranno alle prime tre righe. Questo è uno scritto molto breve, si legge in meno di cinque minuti: chi arriva fino in fondo e ha saputo leggere ne sarà sicuramente molto contento.