lunedì 17 agosto 2009

Macduffo e Malcolmo

- O Macduffo, tua vita perdono! dice Macbeth, dopo che le streghe lo hanno rassicurato: nessuno che sia nato di donna potrà ucciderlo, e quindi cosa potrà fargli questo Macduff?
Si tratta, ovviamente, della versione del Macbeth messa in musica da Giuseppe Verdi, nel 1847, su libretto di Francesco Maria Piave: il dramma di Shakespeare è reso con estrema attenzione, e la musica di Verdi è emozionante. Ma qua e là ci sono delle grosse goffaggini nel libretto, e questo è solo uno dei tanti esempi possibili. Per esempio, Macbeth viene acclamato "sire di Caodore" (che sarebbe Cawdor); e con il nome di "Caodore!" Lady Macbeth accoglie il marito di ritorno dal campo di battaglia, nel primo atto.
Oltre a Macduffo, ci sono anche Macbetto e Duncano; e da qualche parte ci dovrebbe essere anche Malcolmo, che non è il famoso bicchiere mezzo vuoto (o mezzo pieno) bensì lo scozzesissimo Malcolm. Ascoltando il Macbeth di Verdi (lo conosco a memoria, ma è sempre un gran bell'ascolto) mi torna alla mente un'intervista, di una decina d'anni fa, al professor Oli, uno dei curatori del famoso dizionario.
Oli faceva una bella osservazione, sulle due parole "bistecca" e "computer". Si tratta di due parole di origine inglese: bistecca viene da "beefsteak", e si è affermata nell'800; computer invece è del '900 ed è rimasta immutata. La conclusione che ne traeva Oli era questa: che nell'Ottocento l'italiano coincideva in gran parte con il fiorentino, come da tradizione; e che invece nel Novecento il punto di riferimento della lingua italiana è diventata Milano. Infatti, "computer" potrebbe essere una parola del dialetto milanese; in fiorentino sarebbe diventata, con ogni probabilità, "elaboratore" o "calcolatore". Ma intanto il Macbeth di Piero Cappuccilli, diretto da Claudio Abbado, continua il suo dialogo con le streghe, delle quali sa già però che non dovrebbe fidarsi troppo, visto che siamo già nel terzo atto e la fine incombe:
- Lieto augurio! Per magica possa / selva alcuna giammai non fu mossa.
Or mi dite: salire al mio soglio / La progenie di Banco dovrà?
- Non cercarlo!
- Lo voglio, lo voglio: o su voi la mia spada cadrà. (...)

(Giuliano 30.10.2004)

Un pensiero in cinese

O simìle di Solima ai fati / traggi un suono di crudo lamento
O t'ispiri il Signore un concento / che ne infonda al patire virtù...

Chissà se il ministro Castelli, o Calderoli, o Maroni che sia, è in grado di riconoscere questi versi: si tratta di un poeta ferrarese, e quindi padano autentico: molto più degno del nome di padano rispetto a uno di Busto Arsizio. E' un poeta molto famoso, e ne cito altri due versi:
Arpa d'or dei fatidici vati / perché muta dal salice pendi?
Sì, è un po' datato: Verdi lo musicò nel 1842, e divenne subito importante per il '48, i moti carbonari e l'Unità d'Italia. Ma forse conviene partire dall'inizio: Va' pensiero, sull'ali dorate / va' ti posa sui clivi, sui colli... Adesso sì? Ci siamo? Così va bene? L'insigne poeta è Temistocle Solera, nientemeno. Di solito i leghisti sanno solo le prime due parole (ma i più bravi arrivano a cinque), e le cantano a squarciagola: il che è un vero orrore, al quale non mi abituerò mai. Il coro dal terzo atto del Nabucco va cantato piano, a mezza voce; la melodia è lenta e dolce, e non va cadenzata a passo di marcia come se fosse un inno nazionale o una marcetta qualsiasi.
Nel giorno in cui, al Senato, davanti al Presidente Pera, una banda di cinesi suona il nostro inno nazionale (quello vero: Fratelli d'Italia), ma poi anche la sinfonia dal Nabucco di Giuseppe Verdi, i nostri patriottici onorevoli leghisti scendono in piazza contro l'ingresso della Turchia nella UE. E' il 19 dicembre 2004, una fredda mattinata d'inverno poco prima di Natale. "Giorno di lutto", decreta l'illustre Calderoli: che però fa parte di un Governo con qualcosa di più di un sospetto di corruzione e anche di associazione mafiosa in molti dei suoi componenti e collaboratori più o meno vicini al Premier, ma si guarda bene non dico dal dimettersi per questo ma anche dal semplice accennarvi. Lascio volentieri ai politici europei la decisione sull'ingresso dei turchi nell'Unione Europea: io non saprei cosa dire, è un argomento complesso e delicato. Penso solo che in Turchia ci sono molti posti cari alle nostre radici cristiane, e che basta dire Bisanzio, oppure Costantinopoli, per evocare immagini e suoni della Chiesa d'Oriente.
Però quella che suona il Nabucco, oggi in Senato, non è una banda di cinesi: è un'orchestra vera, si chiama Orchestra Filarmonica Cinese (China Philharmonic Orchestra) ed è diretta da un quarantenne che si chiama Long Yu. Ci sono anche due nostri grandi cantanti, il baritono Leo Nucci e Barbara Frittoli, soprano. Non suonano male, questi giovani cinesi. Nel programma c'è anche Puccini, oltre a Rossini e a Verdi; e l'Inno di Mameli, suonato in apertura, è in un ottimo arrangiamento e sembra molto più bello del solito. Lo si ascolta addirittura con piacere, e non capita spesso.
Beh, Buon Natale a tutti!
(24.12.2004)

Rossini viaggia in treno

Rossini a 37 anni era già in pensione, beato lui. Dopo il successo del "Guglielmo Tell" (1829) decise di non scrivere più opere per il teatro, prese dimora fissa a Parigi e non si mosse più, scrivendo solo quello che gli pareva. Non mancano i capolavori, nel suo lungo periodo "da pensionato": ma dalle fatiche del teatro si tenne ben lontano, dopo quel 1829.
Tra le sue cose più simpatiche e curiose, i brevi pezzi per pianoforte riuniti sotto il titolo "Peccati di vecchiaia" (scritto in francese, però); e di questo repertorio fa parte un brano tra i più divertenti, che si chiama "Un petit train de plaisir", "Il trenino del piacere".
L'antefatto è questo: Rossini, già anziano, viene invitato a fare un viaggio in treno. Siamo a metà ottocento, e dunque non si trattava dell'Eurostar... Per lui è la prima volta: ne esce sconvolto e anche un po' spaventato, anche se il viaggio è breve; e poi affida le sue impressioni al pianoforte.
Si tratta di un brano di circa venti minuti, diviso in brevi episodi.
Il primo è un allegretto, intitolato "cloche d'appel": il pianoforte imita la campana che chiama i viaggiatori in vettura. Poi il trenino parte: Rossini si diverte a imitarne la marcia, e noi ci rilassiamo con lui lungo il primo tratto del percorso. Segue però un sifflet satanique: brusco risveglio dovuto al fischio del treno, seguito dalla dolce melodia dei freni, che anticipa l'arrivo alla stazione, dove les lions parisiens offrant la main aux biches pour descendre de wagon. Poi il trenino riparte, ed è un bel viaggiare, proprio come all'inizio. Ma il trenino di questo spaventato viaggiatore non può che finire male, e così succede: terrible deraillement du convoi!. Rossini è davvero tragico e ci mostra il primo passeggero ferito, e anche il secondo; dopodiché le vittime: premier mort en Paradis (motivo ascendente) , second mort en enfer (motivo discendente...), con tanto di chant funèbre e di amen. A questo punto Rossini fa un'annotazione a fondo pagina: on ne m'y attrapera pas, non mi beccate più....
Il finale è di pura marca rossiniana: un valzer, "allegro vivace", che rappresenta il douleur aigue des heritiers, il terribile dolore degli eredi che si fregano le mani contenti pensando all'eredità. Lo spartito si chiude con un altro motto rossiniano: Tout ceci est plus que naif c'est vrai. Un viaggio in treno tutto da ascoltare, puro divertimento in musica.
(31.12.2003)

Mahatma Brahms

Ascolto per l'ennesima volta il "Requiem tedesco", e rimango incantato. Questa toccante rivisitazione in musica di brani della Bibbia (in tedesco) che parlano dell'aldilà è opera di Johannes Brahms, che la compose negli anni intorno al 1860. La mia edizione di riferimento è una registrazione grandissima e obsoleta (1948!) di Herbert von Karajan, con solisti una giovanissima Elisabeth Schwarzkopf e il grande Hans Hotter. Si sente, qua e là, il fruscio dei vecchi 78 giri: ma che importa? Difficile trovare un "Denn alles Fleisch, es ist wie Grass" (...poiché tutti i mortali sono come l'erba; prima lettera di Pietro: 1,24) così giusto, non un inno solenne ma meditazione e preghiera; e toccante come poche altre volte lo "Herr, lehre doch mich" (Signore, insegnami dunque...: salmo 38) intonato da Hotter; e inarrivabile e commovente, nel finale, il "Morte, dov'è la tua vittoria?" che viene dalla prima lettera ai Corinzi. Mi hanno insegnato, ragionando di Gandhi, che "Mahatma" significa Grande Anima. Chi può essere la Grande Anima, il Mahatma della musica, se non Johannes Brahms?
(28.12.2003)

Il Trovatore ( II )

E' opinione comune che nel "Trovatore" il Conte di Luna sia il cattivo, e che il tenore Manrico sia il buono, come nel teatro dei pupi. Però non c'è nulla nel libretto che conforti questa impressione, e quello che sappiamo di sicuro è soltanto che Leonora tra i due fratelli ha scelto Manrico. Ma il Conte è un baritono, e si sa che Verdi amava molto i suoi baritoni, che hanno sempre un grande spessore umano (perfino Macbeth non è del tutto una figura negativa...).
Il Conte di Luna, insomma, è un innamorato deluso; e, in più, c'è una guerra in corso e lui sta cercando di vendicare la presunta morte del fratello, rapito da piccolo nella culla. E, soprattutto, al Conte Giuseppe Verdi regala una delle sue arie più belle e commoventi, un'aria da innamorato vero che comincia così: Il balen del suo sorriso d'una stella vince il raggio...

Il Trovatore ( I )

Ho impiegato almeno tre anni per capire che cosa succede veramente nel Trovatore, e ancora adesso non ne sono ben sicuro. Il libretto è dell'ottimo e solido Cammarano, ma all'origine c'è il romanzone di un oscuro autore spagnolo, che pare abbia avuto un buon successo di pubblico circa centocinquant'anni fa (il Trovatore di Verdi è del 1853).
Dietro c'è una cupa storia di fratelli che non sanno d'essere fratelli, e che si combattono per tutta l'opera; Verdi, come al solito, taglia brutalmente e raccorda con riassunti affidati al coro o infilati in mezzo ad arie lunghe e drammatiche. Le due spiegazioni più lunghe sono nelle mani di Ferrando (voce di basso), all'inizio dell'opera, e poi della zingara Azucena, nel secondo quadro. Questo sistema narrativo complica non poco la comprensione degli avvenimenti per lo spettatore-ascoltatore, e chi volesse capire bene cosa succede forse è meglio che vada a cercarsi un'antica incisione (anni '30) del grande Ezio Pinza, basso dalla dizione chiara come poche volte nella storia dell'opera.
Ma qui sta anche il fascino dell'opera. E' stato fatto notare che nel Trovatore succedono molte cose, e non mancano duelli e colpi di scena, ma noi sul palcoscenico non vediamo niente: tutto accade in un altro luogo, e noi ne ascoltiamo solo il racconto. In più, l'azione si svolge quasi sempre di notte, nell'oscurità. Tutto questo accentua l'aspetto onirico dell'opera, e anche l'idea che si tratti di una di quelle storie che si raccontavano i nostri vecchi, nelle lunghe sere d'inverno, prima che inventassero la luce elettrica e la televisione. Il Trovatore è forse l'Opera Lirica per eccellenza, e gran parte del suo fascino si trova in questo metodo narrativo, che sarebbe sconsigliato da qualsiasi addetto al marketing delle nostre case editrici o cinematografiche di oggi. Ma Giuseppe Verdi faceva di testa sua, e poteva ben permetterselo, visti i risultati.
(23.12.2003)

Giglio immacolato?

L'Ernani di Giuseppe Verdi è tratto da un dramma di Victor Hugo, come il Rigoletto. Ebbe la sua prima rappresentazione nel 1844, Teatro La Fenice di Venezia: due anni dopo il successo del Nabucco e nove prima della stagione dei grandi successi che diedero tranquillità economica a Verdi. E' un'opera che mi piace molto, e che ascolto sempre con grande piacere (soprattutto nell'edizione con Carlo Bergonzi, il più grande tenore verdiano del secolo scorso). E' anche un'opera un po' sconclusionata, ma la colpa non è tutta di Verdi e di Piave e bisogna darne il grave peso anche all'autore del soggetto originale, Victor Hugo.
C'è anche un curioso episodio di censura, o di autocensura, nel libretto d'opera. L'episodio non è confermato dagli studiosi, ma fa ormai parte dell'aneddotica: l'aria famosa del vecchio Silva, nella stesura originale, pare che iniziasse così:
- Infelice, e tu credevi sì bel giglio immacolato...
Il nobile e un po' attempato Silva aveva infatti messo gli occhi sulla giovane protetta Elvira, che invece sorprende "nel penetral più sacro di sua magione" in compagnia di ben due uomini, il bandito Ernani e il re Carlo Quinto in incognito. Si può ben capire cosa sia passato nella sua mente, ma per quei tempi la battuta era un po' troppo fuori dagli schemi, e il verso divenne così:
- Infelice, e tuo credevi sì bel giglio immacolato...
Non che le cose cambiassero molto, né per Silva né per noi; ma almeno la decenza era salva.
(16 novembre 2003)

domenica 16 agosto 2009

Nick Drake


“Pink Moon”, la rosea luna, l’ho incontrata quando avevo diciott’anni: subito dopo ho abbandonato il rock, ma non ho mai smesso di ascoltare la musica del suo autore Nick Drake, così come quella di Tim Buckley e di Robert Wyatt. A quei tempi mi era sembrata una musica molto bella ma triste; oggi la trovo dolce e delicata, appena un po’ malinconica.
Nick Drake è quasi l’incarnazione di un archetipo: il ragazzo con la chitarra, bello dolce e un po’ malinconico, di quelli che piacciono alle ragazze, forse Orfeo in persona. Si muove tra jazz e blues, quasi sempre da solo e ogni tanto con ottimi compagni di strada come la chitarra (elettrica) di Richard Thompson e il contrabbasso di Danny Thompson. Ha una bella voce di baritono, leggera ma precisa. E’ dolce e delicato quando canta i pensieri di Mary Jane (“Who can know / the thoughts of Mary Jane?”) oppure le passeggiate londinesi lungo Mayfair; ma ogni tanto viene afferrato da una potenza infera, forse lo spettro di Robert Johnson in persona, che lo trascina dentro il blues. Allora incontra un cane dagli occhi neri, un cane che conosce il suo nome e che lo chiama fuori dalla sua porta; e si chiede se ha fumato troppo, perché qualcosa non va e se ne rende conto.
Al di là delle mie immagini liriche, più o meno riuscite, la potenza infera si ricorderà davvero di questo ragazzo inglese, e non tarderà a manifestarsi nel modo più cupo: Nick Drake muore a 26 anni, nel 1974, in modo tragico, come tanti ragazzi della sue epoca. Quello che ci rimane di lui, comprese le registrazioni fatte in casa, occupa soltanto tre dischi. Anzi, a voler togliere i doppioni e le canzoni di Bryter Layter, sciaguratamente arrangiate con gli archi (nei 60 si usava, non c’entrano niente ma è colpa dei produttori), due cd bastano e avanzano.
Avrà ritrovato la sua Euridice, il delicato Orfeo inglese? Di sicuro, nel mondo dell’Ade non avrà trovato le Baccanti pronte a sbranarlo, e Cerbero gli si sarà accostato con simpatia; sarà stato piuttosto accolto da fanciulle gentili che ne avranno preso cura, come certo gli accadeva in vita. E Apollo e Dioniso, uniti insieme, certo gli si sono manifestati per portarlo su con loro, nell’Empireo – un luogo che, del resto, non avrebbe mai dovuto lasciare.

Arvo Pärt


Giuseppe Verdi, una volta raggiunto il successo e la tranquillità economica, riprese a studiare. Studiò di tutto, gli antichi e i suoi contemporanei, tenendosi informatissimo su tutte le novità; e riprese in mano Pierluigi da Palestrina, che aveva sempre ammirato. E’ a questo punto che se ne esce con una frase storica, di quelle che si citano sempre: che alle volte per fare qualcosa di nuovo bisogna tornare all’antico.
Un percorso simile lo ha seguito l’estone Arvo Part, con la differenza che Verdi rimase sempre se stesso, soltanto affinandosi nello stile; mentre per Part si tratta di due vere carriere, forse di due vite, differenti. Part (si può scrivere e leggere in due modi: alla tedesca, Pärt, o come l’ho scritto fin qui) nasce come compositore “sovietico” (gran brutta definizione, ma rende l’idea) e scrive sinfonie nello stile novecentesco. E’ un buon compositore, ma non particolarmente interessante né originale. Dagli anni 60, qualcosa cambia nella mente e nella vita di Part: riscopre il gregoriano, il canto russo ortodosso, le Passioni di Bach. E’ qui che nasce la grande novità di Part, che scrive composizioni bellissime, dense e rarefatte, strane e toccanti, come “Fratres”, “Tabula rasa”, “Annum per annum”, “Trivium”, “Pari intervallo”... Io l’ho conosciuto tramite il “Cantus in memory of Benjamin Britten”, scritto in memoria del grande compositore inglese, che è molto utilizzato come sottofondo di documentari, ed è stato copiato più volte (vedi i film di Ozpetek!) e quindi magari lo conoscete senza saperlo. Si tratta di una composizione breve, di cinque minuti, dove gli archi suonano come sospesi nell’aria, e si alternano al suono delle campane. Il brano finisce con una nota tenuta degli archi che sembra non finire mai, e che fa tenere sospeso anche il respiro; e, alla fine, risuona lontana una campana, che va suonata in modo che sia appena percettibile, come se venisse davvero da lontano, così lontano che invita allo stupore, e al raccoglimento.

Carl Orff

Io lo chiamo “effetto Figaro”: come la cavatina (cioè l’aria d’ingresso) del “Barbiere di Siviglia”, ci sono brani di musica così ascoltati e abusati da essere diventati inascoltabili. Penso alla Cavalcata delle Valchirie, all’estate di Vivaldi, alle primissime battute della Quinta di Beethoven, alla Carmen di Bizet quasi per intero (Toreador compreso)... Un effetto simile lo fa “Fortuna imperatrix mundi”, cioè l’inizio dei Carmina Burana di Carl Orff: se potessi farvene ascoltare anche solo un pezzetto, capireste al volo che il nome di questo compositore non vi è poi così estraneo, anzi.
Orff fu il teorico del ritorno alle melodie semplici, elementari, probabilmente in reazione alla dodecafonia di Schoenberg: ed è un buon musicista, i Carmina Burana sono davvero piacevoli da ascoltare (per intero, intendo: un paio d’ore di musica, mica solo quel brano lì). Orff rinnegò tutte le sue composizioni precedenti al 1935, considerandole troppo astruse e complicate: aveva una scuola di musica, insegnava ai bambini e scrisse per loro anche un metodo per imparare a suonare, e quindi aveva delle ottime ragioni per questa sua presa di posizione.
Purtroppo per lui, Orff ha un difetto di fondo, qualcosa che non convince e che ho capito solo quando ho scoperto un particolare della sua vita: negli anni 30 fu uno dei pochi musicisti (forse l’unico, tra i compositori importanti) ad approvare apertamente il nazismo. Questo lo rende ben poco attraente, e spiega anche il successo che “O Fortuna!” ha presso certi movimenti politici ben precisi e non presso altri. Che dietro le sue teorie in apparenza innocue e condivisibili si nasconda un “diabolus in musica” ben diverso da quello che ispirava le dissonanze?
Comunque, a me Orff non dispiace. Soprattutto, trovo simpatica la sua opera “Der Mond” cioè La Luna (in tedesco Luna è maschile e Sole è femminile), ispirata ad una favola dei fratelli Grimm. Mi piace soprattutto nell’interpretazione di Gottlob Frick, un grande basso degli anni 50-60, una delle mie voci preferite in assoluto. A dire il vero, non ho ancora capito bene cosa pensare di Orff. Per intanto, lo tengo in un angolo e lo frequento poco, tiro fuori solo ogni tanto la vecchia storia dei due fratelli che catturano la Luna, ascolto con piacere il magnifico timbro della voce di Frick ed evito di pormi altri problemi.

Un grande critico musicale


Rimpiango molto il mio vecchio caro gatto siamese, insieme abbiamo passato dei gran bei momenti, ascoltando musica e leggendo. Cioè, io leggevo e scrivevo; lui non so bene cosa facesse mentre ascoltava così intento e assorto Beethoven e Brahms, forse pensava, forse sognava di sue vite passate, chissà (forse perché era nato a Parma?). Aveva precisi e raffinatissimi gusti musicali. Non ha mai amato il rock, e il suo interesse per il mio stereo era stato fin lì limitato al moscone che i Pink Floyd avevano messo su Ummagumma, ma solo da piccolo e solo per il tempo di capire che non era un moscone vero. Ma poi le cose erano cambiate, io avevo cominciato proprio in quegli anni ad ascoltare musica sinfonica e operistica, e quando la puntina scese per la prima volta su quel coro del Nabucco (il primo, “Gli arredi festivi”) il gatto stava facendo con grande piacere quello che quasi tutti i gatti di casa fanno: rincorreva senza sosta una cartina di caramella accartocciata. Durante il gioco, il gatto finì sul mio letto proprio mentre partiva il coro di Verdi: e il micio si fermò di colpo, rimanendo assolutamente immobile per tutta la durata del disco. Ricordo ancora mio padre incuriosito dal comportamento del gatto: avevamo provato a spostarlo con delicatezza, a toccarlo, a far scricchiolare la cartina, ma non c’era niente da fare; ed è da quel giorno che ho avuto il gatto siamese come compagno fedele d’ascolto. Quando trovava la porta della mia stanza chiusa, si metteva seduto con un’espressione così desolata che mia madre apriva e mi chiedeva se non avevo cuore a lasciarlo fuori così; e quando provavo a rimettere il rock il gatto se ne andava a dormire, ma in un’altra stanza, non prima di avermi lanciato un’occhiata di rimprovero e forse anche di disprezzo, perché per lui quella non era musica. Non amava neanche lo Stravinskij di “La sacre du Printemps” che per lui era un’accozzaglia di suoni senza senso; ma gli piaceva "Petruska" e sicuramente avrebbe amato molto le sinfonie di Bruckner, ma a quell’epoca non lo avevo ancora scoperto (con gli lp da girare ogni venti minuti, ascoltare il fluviale Bruckner non era facile).
Ho detto che andava a dormire, perché da me non dormiva. Un gatto che dorme, si sa, è un gatto stravaccato o appallottolato; invece il mio amico in ascolto era sempre composto, si metteva comodo con le zampine sotto il corpo, in posa quasi da sfinge, immobile e con gli occhi chiusi, ma con le orecchie ben tese e attente, sistemate nella posizione migliore per percepire nel modo migliore il suono che usciva dalle casse dello stereo. E, quando il disco finiva, usciva dal suo samadhi; apriva gli occhi, consentiva ad essere spostato e mi permetteva (mi spingeva?) di alzarmi per cambiare il disco, operazione che oggi con i CD sarebbe evitabile. Dopodiché, tornava nella sua posizione preferita (addosso a me, naturalmente: chi conosce i gatti sa cosa intendo) e riprendeva l’ascolto. Non per questo cessò di inseguire le carte di caramella, o di arrampicarsi sugli alberi quando poteva scendere in giardino: in fin dei conti, era pur sempre un gatto e, si sa, gatti si nasce e non si diventa.

Jean Philippe Rameau e le emozioni in musica

In uno dei post precedenti ho chiamato in causa il mio vecchio e caro gatto, oltre al piacere del ricordo, perché ogni tanto leggo sui giornali articoli più o meno scientifici che parlano del rapporto tra musica e cervello, l’incremento delle capacità intellettuali attraverso la musica, eccetera. Di solito sono articoli molto superficiali, che danno informazioni parziali e distorte: purtroppo capita quasi sempre così con l’informazione scientifica, ed è un peccato. A volte sembra che i neuroni migliorino grazie a Mozart, altre volte il titolista spara che è l’heavy metal a rendere più intelligenti, e che l’effetto Mozart non esiste ed è stato sconfessato completamente quello studio del’93; e così non ci si capisce più niente.
Non sono un neurologo e nemmeno un musicista, però so per certo che per capire la grande musica, Mozart e Beethoven ma soprattutto i contrappuntisti, occorre sapere cosa stanno facendo. Se non si ha nozione di quello che accade in Bach, o in Couperin o in Scarlatti, la loro musica sembrerà assurda e noiosa; ma avendone qualche nozione, o essendo predisposti in partenza alla musica e alla matematica, certamente il nostro cervello ne trarrà vantaggio. Del resto, è un ragionamento così semplice che in altri campi ci arriviamo subito tutti: mettere in mano Dante ad un analfabeta, o a una persona che non ha nessuna voglia di leggere, è del tutto inutile; così come un trattato di fisica o di chimica risulterà illeggibile se non c’è qualcuno a spiegare almeno i primi rudimenti.
Un’altra certezza è che il nostro primo suono musicale è il tamburo: è il battito del cuore di nostra madre, prima ancora di nascere. Un suono semplice, ritmato, forte: anche qui non si scopre nulla di nuovo, è il grande fascino dei ritmi tribali, dell’heavy metal, ma è anche l’inizio della Prima Sinfonia di Brahms.
Fu Jean Philippe Rameau, grandissimo musicista e di grande successo in vita (cosa che capita a pochi) a cercare di mettere anche gli affetti e le emozioni nella teoria musicale: lo fece nel 1722, pubblicando il suo “Trattato dell’armonia ridotta ai suoi principi naturali”: la musica non è solo un rapporto matematico, sembrerebbe dire Rameau. I suoi critici dicono che è un discorso confuso, solamente teorico, poco utile nella pratica, ed è per questo che il suo sistema è stato messo da parte. Oggi il trattato di Rameau lo leggono solo gli eruditi, e io non so nemmeno suonare tre battute messe in fila senza interrompermi; ma posso garantirvi che il la minore è davvero triste e malinconico, che l’accordo di do maggiore è chiaro e luminoso e quello di do minore è inquietante, che il si minore è la tonalità del ricordo. E tante altre cose, come per esempio che, ascoltando distrattamente un cd, di solito sobbalzo e mi fermo davanti ad una tonalità ben precisa, senza nemmeno sapere cosa sto ascoltando: ed è il mi bemolle maggiore, bello e strano come i nostri sogni migliori.

Messiaen

Sono stato convertito a Messiaen dal suo “San Francesco”. Sembra una battuta, ma Olivier Messiaen non è mica facile da ascoltare. Non era solo un musicista, ma anche un ornitologo: gran parte delle sue composizioni partono proprio dal canto degli uccelli, quelli di casa e quelli esotici. Messiaen annotava tutto, e trasportava il canto degli uccelli nella sua musica. Non sono abbastanza competente né in musica né in etologia per capire veramente che cosa ha fatto Messiaen; posso però dire con assoluta sicurezza che si tratta di qualcosa di sconcertante, nel contempo un ascolto piacevole e spiazzante, non astruso ma di estrema difficoltà.
Forse la vera difficoltà dell’operazione, quella che la rende pressoché impossibile, è che quello che noi chiamiamo “canto” degli uccelli in realtà non è affatto un divertimento, così come capita a noi umani, ma un vero e proprio sistema di comunicazione del tutto estraneo al concetto di musica così come noi lo intendiamo normalmente. E’ un equivoco costante: per quanto sia piacevole il canto del canarino, o dell’usignolo, si tratta di una forma di comunicazione e non di musica. Penso proprio che Messiaen ne fosse cosciente, e che quindi cercasse di fare qualcosa che a noi (a me in particolare) sfugge. Ma nell’unica sua opera, dedicata non a caso a San Francesco d’Assisi, avviene il fatto sorprendente: musica e canto degli uccelli si fondono davvero, la voce umana si piega agli intervalli del canto degli uccelli; e quando frate Leone davanti al Mistero dice “J’ai peur”, “ho paura”, sulle due note di un richiamo familiare che pare uscito dal bosco, tutto si fa più chiaro...

Ferneyhough

La Garzantina dice che Brian Ferneyhough è un compositore inglese, nato a Coventry nel 1943. Attivo in Olanda, Svizzera e Germania, si distacca dalla scuola inglese per avvicinarsi a Boulez e a Stockhausen; c’è anche un accenno alla sua passione per la filosofia, e l’elenco delle sue principali composizioni.
Ferneyhough l’ho incontrato nelle mie prime esperienze alla Scala, il 21 giugno 1980 durante uno di quei bellissimi concerti che metteva in piedi Claudio Abbado (lo fa ancora, che il Signore gliene renda merito!), e che sono una meraviglia anche solo a leggerne le locandine, perché dal semplice accostamento dei nomi si imparano un sacco di cose sulla storia e sui significati della Musica.
Quella sera però Abbado commise un errore, alternando Ferneyhough con Beethoven e Nono con Verdi (lo Stabat Mater, una delle ultimissime opere di Verdi). Andò così: si inizia con il brano del compositore inglese, una prima esecuzione per l’Italia. Era un brano breve, per piccolo organico, ben fatto e molto gradito dal pubblico in sala, dal titolo “Funérailles”. Finita l’esecuzione, gli strumentisti si alzano in piedi e salutano; il pubblico risponde con un applauso non formale, anzi abbastanza convinto; e applaudo anch’io perché mi è proprio piaciuto. C’è una breve pausa, entra l’orchestra (L’Orchestra!), entra il pianista Alfred Brendel, uno dei maggiori in attività, ed entra anche Claudio Abbado che dà il via al secondo brano.
Il secondo brano era il Concerto n. 4 in sol maggiore per pianoforte e orchestra, di Ludwig van Beethoven. Chi lo conosce sa già che effetto può aver fatto: un’enorme folata di vento ha spazzato via definitivamente il piccolo brano di Ferneyhough, e io non ne ricordo più nemmeno una nota, nemmeno un momento, mi è rimasta solo l’immagine degli strumentisti che si alzano per ringraziare. Questo è l’effetto che mi ha provocato Beethoven dopo Ferneyhough, e non poteva essere diversamente. Da allora mi è rimasto molto rispetto per il compositore inglese, ma ogni volta che ne sento il nome mi scatta inesorabile questo ricordo, e non so proprio che cosa farci.

Ravel

E’ quasi un riflesso condizionato, una molla pronta a scattare come quella delle trappole per i topi: si nomina Ravel e salta subito fuori il Bolero. In realtà, Ravel non aveva molta stima di quel suo piccolo lavoro: “qualsiasi studente del Conservatorio avrebbe potuto scriverlo”, fu la sua dichiarazione in proposito, quando gli fecero i complimenti per il successo che riscuoteva in tutto il mondo. Detto che tutti gli studenti di tutti i Conservatori di tutto il mondo sarebbero strafelici di averlo composto, ed a ragione, è però vero che il Bolero non rende se non in minima parte l’idea della grandezza di Maurice Ravel. Chi vuol conoscere Ravel deve entrare davvero nel suo mondo, che è quella di un compositore raffinatissimo, grande orchestratore, sempre piacevole all’ascolto ma solo apparentemente semplice.
Forse Ravel è davvero il Novecento in musica. Nessun altro come lui è riuscito a fondere in maniera così perfetta l’alto e il basso, il jazz e il classico, la canzone e il canto lirico, l’orchestrazione raffinata e la semplicità assoluta nel porgerla. Le interviste ai musicisti, a partire dai mostri sacri come Benedetti Michelangeli, sono piene di ammirazione per Ravel; dicono sempre che anche i passaggi all’apparenza più semplici rivelano poi difficoltà inaspettate. Sia per chi esegue che per chi ascolta, possiamo aggiungere. Potrei fare un esempio perfino ridicolo: l’imitazione del verso del gatto innamorato, un bel gattone dalla voce baritonale, nell’operina “L’enfant e les sortileges”. Non si sa se ridere o se restare ammirati, e forse è proprio questo l’effetto che voleva Ravel: divertire o commuovere, ma senza scendere a compromessi o perdere di valore.
L’elenco dei capolavori di Ravel è lunghissimo, da “La valse” (che un po’ riprende la formula del “Bolero”, ma con il valzer), ai “Valzer nobili e sentimentali”, alla “Pavane pour une infante défunte”, al “Concerto per la mano sinistra” dedicato all’amico pianista rimasto mutilato nella Grande Guerra; ma se devo scegliere una composizione, e soltanto una, allora prendo le tre “Canzoni di Don Chisciotte”, cioè “Don Quichotte à Dulcinée” su testo di Paul Morand; possibilmente nell’esecuzione di uno dei grandi baritoni francofoni, Josè van Dam o Gérard Souzay.

Stockhausen


A Stockhausen è legato uno dei miei ricordi più piacevoli, alla Scala nel 1981. Seduto comodamente in loggione, appoggiato sul parapetto, col naso in giù, a guardare i tecnici del Teatro smontare completamente il palcoscenico e la fossa dell’orchestra, per costruire la scenografia. Un’ora di lavoro, uno spettacolo nello spettacolo, perché le maestranze della Scala, falegnami e attrezzisti, sono quanto di meglio si può trovare al mondo, e vederli all’opera è cosa rara.
Ero seduto comodo perché gli spettatori erano pochissimi: capita sempre così con la musica contemporanea. Chi c’era era già d’accordo in partenza con l’autore, non c’era nemmeno il pericolo di fischi, come capitò a Rossini ma anche ad Alban Berg.
Dopo aver aborrito l’opera lirica per decenni, Stockhausen aveva cambiato parere: ne aveva sette già pronte, tutte dentro la sua testa. Sette come i giorni della settimana, perchè si trattava di un’allegoria della Creazione, chiamata “Licht”, Luce; e dal Giovedì, “Donnerstag”, si cominciava. Un’opera lunghissima, di dimensioni wagneriane; pensare che era solo un settimo del totale dava sgomento. Fu funestata da uno sciopero dei coristi, che dicevano, partitura alla mano, di avere parti da solista: l’Autore stesso li aveva esortati a considerarsi tali, salvo poi fare retromarcia dopo avere avuto le orecchie tirate dall’Amministrazione del Teatro, perché un solista viene pagato più di un corista, come è ovvio.
Capita raramente che un’opera contemporanea (se ne scrivono ancora) abbia un seguito, delle repliche oltre la prima. Al di là del loro valore, spesso elevato e comunque meritevole di ammirazione, viene il dubbio che si tratti delle classiche cose che interessano solo a parenti e fidanzate, e forse nemmeno a quelle; però si fanno, perché non si può non farle, non si sa mai. Stockhausen era un compositore di prestigio, e si meritò uno spettacolo magnifico e colossale, affidato a Luca Ronconi e Gae Aulenti.
Karl Heinz Stockhausen avrebbe l’età di mio padre, essendo del 1926. Non avevo mai ascoltato niente di suo. Pensavo a chissà quali astruserie, evocate dal nome stesso: Stockhausen, un nome da filosofo o da alchimista medievale, il Nume supremo dell’avanguardia musicale; e invece no, era musica molto piacevole, divertente. Anche Stockhausen, nelle foto e nelle interviste, ha un aspetto piacevole: un signore elegante, fine, di bell’aspetto. Ha un figlio e una figlia, musicisti. Il figlio Markus suonava la tromba, con un bell’effetto; la figlia Majella suonava il corno di bassetto, uno strumento che è già musica nel suo nome stesso, uno dei nomi più simpatici che siano mai stati dati a uno strumento musicale: “corno di bassetto”. (In realtà, è un parente del clarinetto: il Concerto per clarinetto di Mozart fu scritto per questo strumento).
Di cosa parlava “Licht”? D’una immensa cosmogonia, la creazione del mondo alla quale prende parte attiva anche Lucifero, come in Faust e nel Libro di Giobbe. Lucifero visto come forza positiva, alla Carducci, “parte di quella forza che vuole sempre il male ed opera sempre il bene”. Ho conservato il programma di sala, pieno di disegni e di appunti opera del Maestro: le fantasie d’un bambino, verrebbe da dire, ed è un peccato che Stockhausen non abbia seguito l’esempio di Tolkien, nel mettere per iscritto queste sue fantasie.
Il ciclo di Licht è stato completato, Stockhausen ha avuto questa fortuna; però non alla Scala, dove sono andati in scena solo i primi due capitoli. Oltre al Giovedì, ci fu un “Montag”, Lunedì, nel 1988 senza più Ronconi ma con una Eva alta cinque piani, seduta a gambe aperte per partorire minuscoli omini e donnine: tutt’altro che scandalosa, piacevole e quasi innocente. Poi ci sono state delle incomprensioni, il compositore tedesco ha dovuto portare altrove, in giro per l’Europa, il suo Lucifero a compiere l’opera,
Ecco, “piacevole” è la parola che mi ricorre più spesso pensando a Stockhausen e a quel pomeriggio del 1981: musica piacevole, spettacolo piacevole, pomeriggio piacevole, compagnia piacevole. Tutte cose che non hanno avuto un seguito, comprese le mie piacevoli compagnie. Tutto abbastanza piacevole, e tutto abbastanza inutile: come gran parte della musica colta del Novecento, almeno nella sua seconda metà.

Desiderio di essere un indiano

Nel secondo atto della "Fanciulla del West" di Puccini ci sono due indiani, marito e moglie o quasi. La signora si chiama Wowkle, il marito Billy Jackrabbit. Tra di loro nasce questo magnifico dialogo (versi di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, da un dramma dell'americano David Belasco, 1910):
Billy (entrando, come saluto): Ugh...
Wowkle (gli risponde): Ugh...
Billy vede sulla tavola i biscotti e la crema. ha uno sguardo cupido, fa per assaggiare.
Wowkle (indicando la tavola): Crema... biscotti... Padrona... non toccare.


Eccetera. Non una cosa di cui menar vanto, anche se a Wowkle tocca una breve melodia, in apertura d'atto. Insomma, dopo questo capolavoro mi sono sentito in dovere di andare a cercare qualcosa di meglio, e l'ho trovato.

1."(...) Ah, Settimio, ragazzo mio, non cedere mai alla tentazione, non acconsentire ad essere un mago, anche se l'Uomo Nero ti persuadesse con tutte le sue forze. (...) Non lo fare, Settimio. Certo, se tu potessi essere un indiano, quella sì che sarebbe vita, altro che questa, così addomesticata, che meniamo noi...(...)
(la zia Keziah, di origine indiana, si rivolge al nipote; da "Settimio Felton" di Nathaniel Hawthorne, 1860) (pag.137 ed. Garzanti, traduzione di Elemire Zolla)


2. Ah, se fossi un indiano, ecco qua, pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nel vento, scosso da brevi sussulti sul suolo sussultante, fino a gettare gli sproni, che non ci sono, fino a buttare le redini, che non ci sono, fino a intravedere appena la prateria rasata che mi fugge davanti, senza più collo né testa di cavallo.
(Desiderio di essere un indiano, dai Racconti di Franz Kafka, 1913)(trad. G.Zampa., ed. Feltrinelli)
(15 maggio 2004)

Giulini

La nostra società ha dimenticato il valore del silenzio. Viviamo circondati dal rumore, che non ci permette più di assaporare la totale assenza di suoni. Lo dico spesso ai giovani che vogliono avvicinarsi alla musica: per apprezzarla dovete assolutamente fermare il ritmo frenetico della vostra vita, e ascoltare le sue pause. Che poi sono quelle dettate dal cuore.
(Carlo Maria Giulini, intervistato dal mensile " ClassicVoice" di maggio 2004, per i suoi novant'anni)
(Giuliano, 6 giugno 2004)
(la foto di Giulini viene dal disco con il Don Giovanni di Mozart)

Mirella Freni

Quasi tutti, anche chi non sa niente di lirica e magari la schiva come la peste, sanno chi è Katia Ricciarelli. Pochissimi, tra i non appassionati, conoscono il nome di Mirella Freni: che è un po' come, per un appassionato di calcio, sapere tutto su Gattuso e Pancaro ma ignorare Pelè, Platini, Del Piero e Roberto Baggio
Si potrebbe continuare, magari con Bob Dylan e Tim Buckley: pazienza che si ignori l'esistenza di Buckley, anche se è stato grandissimo, ma per i più Dylan è, nella migliore delle ipotesi, il nome di un personaggio dei fumetti o del protagonista di una soap-opera. E tanti altri esempi ancora, fate voi: la realtà è che chi passa in tv è famoso, e gli altri no. Non importa se sei un idiota, l'importante è che la gente veda la tua faccia in tv, o che si parli di te. Non apparire in tv è quasi come non esistere, e per un cantante non è certo una bella cosa. Ma guai a dirlo, che subito gli addetti ai lavori storcono il naso, buttano via un po' schifati il vostro parere o, nella migliore delle ipotesi, vi prendono un po' in giro. Intanto, Mirella Freni ha l'età di Pavarotti (sono cresciuti insieme, da bambini, a Modena) ma siccome è stata più brava di lui continua a cantare benissimo e ad essere richiesta dai teatri di tutto il mondo e ad essere molto amata dagli appassionati competenti; e, già che ci sono e sto parlando di grandi nomi, cito Bernadette Manca di Nissa, una signora che canta da contralto, dalla voce bellissima e dal nome che pare inventato. Invece esiste per davvero, ha cantato con tutti i più grandi direttori d'orchestra e in tutti i maggiori teatri del mondo (in questi giorni è alla Scala con Muti) ma se cercate un disco per riascoltare il suo Orfeo (di Gluck) rimarrete delusi. Se qualcuno vuole fondare un suo fan club, io ci sto, anche se la signora Manca di Nissa non va mai da Costanzo né tantomeno da Vespa, e anche se ha un nome così difficile da ricordare.
(nella foto, Mirella Freni con Nicolai Ghiaurov)
(3 giugno 2004)

Le scene dipinte

Nel 1996 la direzione del Teatro alla Scala decise di rappresentare in forma di concerto l'opera di Wagner "L'Oro del Reno", che invece era prevista in forma scenica. Motivo: la scenografia prevista era troppo pesante, e il palcoscenico non avrebbe retto. Il Corriere della Sera del 18 aprile 1996 ne dava notizia così: " (...) Troppo precario il palcoscenico della Scala, spiegano in teatro. Talmente fragile da non reggere le lotte dei giganti e dei Nibelunghi, affaticato perfino dalle leggerezze del Flauto Magico mozartiano." Un mese dopo, il 29 maggio 1996, il Corriere riportava queste frasi: " (...) L'Oro del Reno, in programma da domani alla Scala, diretto da Muti (6 repliche fino al 13 giugno), sarà, com'è noto, in forma di concerto. Una decisione annunciata dal teatro un mese e mezzo fa, una scelta inattesa e controversa dettata, secondo la sovrintendenza da gravi problemi del palcoscenico. (...) " E l'allora direttore artistico Roman Vlad spiegava: " (...) il progetto di Engel e di Rieti stavolta era veramente bello: per l'uscita dei Nibelunghi dalle caverne la crosta terrestre si sarebbe dovuta sollevare e spaccare in modo spettacolare". Ed ecco il grosso problema strutturale: "Quella scena era troppo pesante per i nostri ponti, che risalgono al '36-'38 e che oggi possono essere utilizzati solo al 50-60%." E Vlad rivela: "L'anno scorso uno è crollato durante una prova del Mefistofele: solo per un miracolo non ci sono stati né morti né feriti."
Eccetera. Vado un po' a controllare le date: L'Oro del Reno è un'opera di Wagner (1813-1883), che ebbe la sua prima rappresentazione nel 1854. Il Mefistofele (1875) è di Arrigo Boito (1842-1918). Tenuto conto che la Scala era la casa di Giuseppe Verdi (1813-1901) e di Giacomo Puccini (1858-1924), viene da chiedersi come abbia fatto il teatro d'opera più famoso del mondo a rimanere aperto dal 1778 fino al 2001, anno nel quale sono iniziati i lavori che hanno portato alla distruzione e ricostruzione di tutti gli edifici che stavano dietro il palcoscenico. Il risultato, prima e dopo, lo potete vedere nelle foto che allego (una è presa da un giornale; l'altra è mia, del 9 novembre 2004), e il commento lo lascio a voi. Da parte mia, penso che di solito si definisce come data iniziale della storia dell'opera il 1607 (l'Orfeo di Monteverdi) e la sua fine al 1926 (la Turandot di Puccini), e anche se prima e dopo queste opere ci sono stati grandi capolavori, le due date sono molto significative. Sono più di 50 anni che un'opera moderna non rimane stabilmente in repertorio, e ormai anche i grandi cantanti si contano sulle dita di una mano. Non so, a me è sembrato un grande spreco, a prescindere dai risultati estetici e tecnici, spendere tutti questi soldi soltanto per poter allestire scene pesanti e macchinose come quelle richieste dal regista Engel e dallo scenografo Rieti. Forse (ma io non sono un esperto) sarebbe bastato cambiare quei martinetti che risalgono agli anni '30, e magari tornare alle vecchie scene dipinte sui teli, come si faceva ai tempi di Bellini e di Verdi, che - a quanto mi risulta - non se ne lamentavano più di tanto, non chiedevano foreste vere per la Norma (1831) e vere montagne per l'Ernani (1844), badavano più che altro ai musicisti e ai cantanti, e quando c'era da allestire una loro opera non chiedevano l'opera degli ingegneri né tantomeno che il Mar Rosso si aprisse veramente davanti a Mosè (Rossini, Mosè e il Faraone, 1827).
(nella foto, la Scala com'era prima dell'autosilo e della scatola di scarpe)
(Giuliano 19.11.2004)

Leonard Cohen


(2004)
In questi giorni, Bob Dylan è in Italia e si torna a parlare di lui. Ha segnato un'epoca, e fa davvero parte della Storia, anche se come cantante è ormai poco più di un'ombra. Ha sempre molti estimatori per la sua poesia, tanto è vero che la voce su una sua candidatura al Nobel torna ogni anno, a settembre. Su quest'ultima cosa sono molto perplesso: è vero, Dylan ha scritto molte belle liriche ma molto spesso (quasi sempre) è oscuro e incomprensibile, e secondo me i poeti non dovrebbero essere così - non sempre, quantomeno. Un caso simile è Leonard Cohen, canadese di New York che nasce poeta (negli anni '50) e poi diventa cantante di successo, ed è uno stato uno dei maestri del nostro De André. A differenza di Dylan, Cohen ha una bella voce imponente, tra il profeta biblico e il cantante confidenziale; da come canta, conoscendo poco l'inglese, si ha l'impressione che stia davvero dicendo delle cose importanti. Ma poi mi sono letto tutti i suoi testi, anche i più belli, e l'impressione è la stessa di Dylan. Dovendo guardare ai testi, alla loro stranezza e bellezza ma anche al loro grado di comprensibilità, io non sto né con Dylan né con Cohen ma con Tim Buckley; ma il mio parere vero è che si può far poesia anche senza scrivere versi, e magari anche senza usare le parole; e secondo me i tre più grandi Poeti del Novecento, meritevolissimi del Nobel, sono stati (in quest'ordine) Arthur Stanley Jefferson, Charles Spencer Chaplin e Charles Monroe Schulz.
(10 luglio 2004)

Europa riconosciuta

( 9 dicembre 2004 )
Non vado più alla Scala dal 1997, ma la sera del 7 dicembre scorso mi sono messo diligentemente in ascolto alla radio (per una volta, e finché dura, benemerito servizio pubblico: Radiotre Rai), e quindi posso raccontarvi come è andata.
Comincio dalle cose belle: la musica, e Riccardo Muti. Muti è una sicurezza, soprattutto in questo repertorio, e cioè il Settecento, secolo al quale sembra perfino appartenere fisicamente. Se volete ascoltare Gluck e Haydn, ma anche Jommelli, Cimarosa, Pergolesi e tutta la grande scuola napoletana, Muti è il direttore ideale. Dirige bene anche il resto, ma in questo repertorio è straordinario. E, dunque, ha diretto magnificamente anche Salieri.
"Europa riconosciuta" è proprio un'opera del Settecento, anzi: neoclassica. Nasce da Gluck ma si intuisce già Rossini (nascerà nel 1792, 14 anni dopo quest'opera), e perfino Verdi (la scena della morte di Egisto, nel secondo atto). Non avevo mai ascoltato niente di Salieri, ed ero curioso: adesso vorrei saperne di più, ma per oggi sono contento. Detto che i cantanti erano ottimi, con menzione speciale per Desirée Rancatore, passo alle dolenti note.
Ho letto e ascoltato, con raccapriccio, del peso delle scenografie: tonnellate, si è vantato qualcuno. Possibile? Leggo il libretto, riascolto l'opera: non c'è quasi azione scenica, si potrebbe perfino dare in forma di concerto. Per dirla tutta, io avrei affidato le scenografie a Emanuele Luzzati, con i suoi bei teatrini colorati di cartone; e i personaggi, dai nomi mitologici, sono poco più che pupazzi. Sono sicuro che Ronconi e Pizzi hanno fatto un gran lavoro, ma ne valeva la pena? Sorvolo sulle spese per questi gran lavori, perché ne ho già parlato. Anzi, vorrei sorvolare ma non posso: giornali e telegiornali parlano solo di questo. Mi fa piacere sentire Carla Fracci, al Tg3: dice che non è stato giusto demolire completamente gli edifici dietro al palcoscenico, la Scala era un teatro d'epoca e adesso invece è un'altra cosa...
Altra nota dolente, anzi dolentissima: come tutti gli anni, e quest'anno di più, mi tocca di sorbirmi tutta la parata dei vip ai quali l'opera non interessa affatto, ma ci vanno lo stesso e ne rovinano l'immagine con commenti idioti, che i giornalisti riportano con devozione. Per esempio, se fosse vero che Berlusconi ha detto "è un'opera deliziosa", sarebbe da incorniciare. Si possono dire tante cose di un'opera lirica seria del '700, ma "deliziosa" è il parere di uno che avrebbe voluto stare altrove e che non ha capito niente (secondo me lo ha detto davvero). Di fuori, al freddo, confinati in uno steccato, gli operai dell'Alfa Romeo provano a far parlare almeno per un secondo di cose serie, e del futuro dell'Italia. Vedo in tv il sindaco Albertini raggiante, e ne ha tutte le ragioni, in questo caso. Ma se io fossi lì vicino gli chiederei come va il depuratore di Milano, e di certo sarei un pessimo giornalista, se questo fosse il mio mestiere.
(Nota per chi ha visto il film: il Requiem di Mozart fu commissionato dal conte Walsegg e trascritto dall'allievo Süssmayr; e se Antonio Salieri fosse ancora vivo potrebbe querelare Milos Forman e portarsi a casa una montagna di soldi.) (Però il film è molto bello ed è da vedere, o da rivedere)

Frequenze

(30 aprile 2003 )
Eravamo sul lavoro, e volevamo sapere i risultati delle partite di calcio. Così abbiamo preso una radio, e l'abbiamo accesa cercando invano i canali della Rai; alla fine abbiamo dovuto ripiegare su un'emittente qualsiasi - una delle tante che ingombrano l'etere pubblico. L'alternativa era andare sulle onde medie e sorbirsi un ascolto difficoltoso tra una buona dose di sibili e disturbi.
Ma ormai anche questa non è più una novità: sono più di vent'anni che i canali Rai sulla modulazione di frequenza non si captano facilmente, o non si prendono del tutto. Le ragioni sono note a tutti quelli che hanno almeno 40 anni, o dovrebbero esserlo. Negli anni '70 si parlava di radio libere, e la conquista dell'etere con la fine del monopolio Rai sembrava una conquista di civiltà, ma non è stato così. Anzi, presto si è cominciato a parlare di "radio commerciali" (e non più libere...), e poi il fenomeno si è esteso anche alla televisione.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti; decine e centinaia di emittenti tv e radio, per trasmettere il nulla. E il servizio pubblico ormai quasi inesistente, e anzi sbeffeggiato. Una volta c'erano le ideologie, oggi si ragiona solo in base ai soldi: il servizio pubblico (cioè, in sintesi: usare i media per dare informazioni e cultura) non fa audience, e quindi non porta pubblicità. La pubblicità porta i soldi, ed è quindi l'unica cosa che conta davvero. Pazienza se poi diventa difficile anche riuscire a sapere cosa ha fatto il Milan, come voleva il mio collega.
Ma provate a fare questi discorsi in pubblico, o magari in tv (c'è chi ci prova, ogni tanto), e verrete aggrediti con una montagna di contestazioni e anche con irrisione. E' proprio vero: ormai l'unica ideologia del nostro tempo è fare soldi, e far tacere chi non è d'accordo.
La prossima tappa è fare lo stesso lavoro con internet: e siamo già a buon punto.

Manierismo


(9 maggio 2003)
E finalmente sono andato a Parma, alla bella mostra sul Parmigianino. Per dire le cose come stanno, la mostra si chiama così: Parmigianino e il manierismo europeo. La mia amica di Reggio mi fa delle domande, pensando che io sappia; ma si sbaglia, perché la mia cultura è sempre un po' incerta, davo un po' troppe cose per scontate e non mi sono preparato. Perciò arrivo a casa e prendo il dizionario:
Manierismo: corrente artistica del tardo Rinascimento, tendente all'imitazione esasperata di Michelangelo e di Raffaello. Per estensione: ogni orientamento che, in arte o in letteratura, si basa sull'imitazione di un modello ricercando l'originalità nella variazione stilistica e nella complicazione formale (manierismo alessandrino) . Eccetera. Alla voce manierista c'è anche scritto: artista, scrittore privo di originalità. Pian piano comincio a rimettere insieme i pezzi. Sì, mi ricordavo il giudizio negativo sul manierismo: in pratica, è come dire con belle parole che si copia. Ma poi penso al Pontormo, e al Parmigianino stesso, e magari ai preraffaelliti inglesi dell'800: sono dipinti straordinari, e il conto non mi torna. E' proprio vero che queste sono definizioni molto scolastiche, e valgono solo come metodo per studiare e poi ricordare; e che ogni artista ha la sua personalità, che poi sta stretta nelle definizioni. E continuando a ragionare mi ricordo di un'altra definizione che ho trovato sul Manierismo, ma questa volta più positiva: il manierismo è anche una maniera di fermarsi a riflettere e a ripensare, dopo anni di avvenimenti importanti.
Fermarsi e fare un po' d'ordine nei nostri pensieri, insomma: come facciamo noi dopo aver fatto un bel viaggio, per esempio, o dopo aver conosciuto delle belle persone. E nel Novecento è successo davvero di tutto: forse è il caso di fermarsi, ripensare e riflettere, e darsi almeno per un po' ad un sano Manierismo, almeno nell'arte...

Chihuahua

Un ragazzo nero con la chitarra, in metropolitana , inizia a suonare quello che potrebbe essere un blues bellissimo. Un altro ragazzo, bianco, lo guarda e gli offre un sorso di cocacola. Il ragazzo con la chitarra beve, manda giù la coca e sorride; dopodiché inizia a suonare: Chihuahua!
Il blues è una musica bellissima e profonda, una delle espressioni più nobili del Novecento; Chihuahua è una città messicana ed è anche il titolo di un motivetto di per sè innocuo che abbiamo ascoltato un po' dappertutto quest'estate.
Lo spot potrebbe essere una bella metafora di quello che succede oggi nel mondo: ti viene da pensare? Pensare dà il mal di testa, beviti una coca che ti passa...
(Giuliano, 9 settembre 2003)

domenica 9 agosto 2009

Il povero musicante

« (...) ciò che sonava sembrava una sequela inconsistente di suoni senza ritmo e senza melodia, però era tutto immerso nella sua opera: le labbra gli tremavano e i suoi occhi erano fissi sul foglio di musica che aveva davanti... sì, veramente un foglio di note! Mentre infatti tutti gli altri che sonavano meglio di lui si affidavano alla memoria, il vecchio anche in quel trambusto aveva collocato davanti a sé un piccolo leggio portatile, con certe note sudice e gualcite che probabilmente contenevano nel massimo ordine, ciò che egli faceva sentire in modo così sconnesso. L'insolita montatura che aveva appunto richiamato la mia attenzione, destava, d'altro canto, l'ilarità della folla ondeggiante che lo derideva e lasciava vuoto il cappello, mentre invece il resto dell'orchestra intascava miniere di rame. (...) Arrivato nei pressi della porticina che dall'Augarten dà sulla Taborstrasse, udii improvvisamente il noto suono vecchio violino. Accelerai i passi ed ecco, l'oggetto della curiosità stava sonando a tutto andare in mezzo a una cerchia di ragazzi che impazientiti gli chiedevano un valzer. " Suona un valzer!" dicevano. "Un valzer, non capisci?"
Il vecchio continuava a sonare e pareva non badasse a loro finché il piccolo uditorio lo piantò lì con parole di scherno e di beffa e si raccolse intorno a un altro musicante che a poca distanza di lì girava la manovella di un organino. " Non vogliono ballare " disse il vecchio quasi rattristato, raccogliendo i suoi arnesi. Io mi ero avvicinato. "I ragazzi non conoscono altre danze che il valzer" dissi. " Ma io sonavo un valzer " replicò lui indicando con l'archetto un punto del foglio. "Bisogna adattarsi anche a questo, per via della gente. Ma i ragazzi non hanno orecchio" osservò scotendo il capo malinconicamente. »


Questo brano viene da "Il povero musicante", un racconto del 1838, opera dell'austriaco Franz Grillparzer. Nel racconto il narratore procede per le vie di Vienna in una sera di festa, e tra i tanti musicisti che si esibiscono sulla via nota questo anziano signore, molto distinto. Non può non notarlo: di quello che suona non si capisce niente, eppure ha la musica davanti, e la legge con attenzione. La storia prosegue con il racconto della vita del povero musicante, e con la sua morte, in uno stile tipicamente romantico.

«(...)Non avevo potuto parlare con lui un'ultima volta; né domandargli perdono per tutti i crucci che gli avevo procurato, né ringraziarlo dei favori immeritati... sì, favori! Poiché le sue intenzioni erano buone e io spero di ritrovarlo un giorno dove saremo giudicati secondo le nostre intenzioni e non secondo le nostre opere. (...) »

E' un personaggio che mi è rimasto dentro, al di là della bellezza del racconto: perché anche noi siamo come il povero musicante, crediamo di suonare una musica meravigliosa ma non ne siamo capaci, e non lo sappiamo. Gli altri ci ascoltano, non capiscono, ci deridono o ci omaggiano per equivoco o per ignoranza; abbiamo davanti lo spartito, le regole del gioco da qualche parte ci sono, ma raramente la nostra esecuzione è impeccabile. E, anche quando è impeccabile, non è detto che sia conforme a quello che ci è stato richiesto per le nostre vite.
Giuliano 27 dicembre 2006

Improvviso, n.3

«(...) Nella fiaba e nella pittura (poi verrà Chagall) il musico ambulante è sempre sospettato di essere in contatto col mondo infero: pregiudizio che contrassegna l'angelico. Ma nessuna orchestra in nessun teatro o sala di conservatorio esprime l'essenza della solidarietà e della compassione umana come la musica di strada... A lei sola appartengono i sonidos negros che attirano il Duende, a lei sola è dato di far gorgogliare l'onda del trascendente nei quartieri appestati e nei crateri di desolazione. (...) » (Guido Ceronetti, dal "Corriere della Sera" del 24.12.2001)

Una volta ho fatto ridere un bambino piccolissimo, semplicemente togliendomi di testa il cappello. La mamma era rimasta sorpresa: un bambino così piccolo, non lo aveva mai visto ridere così bene. Ripeto il gesto, il bimbo ride ancora; sembra chiedere un altro bis, ed eseguo.
Il fatto mi torna in mente quando, di fianco al Duomo di Milano, vengo fermato da un giovane africano che vuole vendermi qualcosa, uno dei libri che conosco già a memoria. Ma non è tempo, non ne ho voglia, una volta mi piaceva essere gentile e perdere tempo in chiacchiere ma poi ho trovato chi mi ha fatto passare la voglia, ed anche questa è una brutta novità degli ultimi anni. Ma poi cedo, sbuffo ma per toglierlo di torno gli prendo qualcosa: e intanto gli chiedo quanti anni ha, perché è alto e forte ma sembra un ragazzino. E infatti ha vent'anni: mi tolgo un attimo il berretto e lui si mette a ridere, non si aspettava la mia testa pelata, credeva che fossi anch'io giovane come lui. E' una risata franca, da bambino, e io mi accodo - ne sentivo il bisogno, magari capitasse più spesso...

Invece il 2 settembre ho dato un euro al suonatore di fisarmonica che stazionava davanti alla libreria in via Dante, ma solo perché da venti minuti stava suonando l'Internazionale, e anche piuttosto bene. E' anziano, malandato, ha la pelle scura ma di un colore strano, più simile a un indiano che a un nero vero e proprio (che sia cubano?). A me fa sempre piacere riascoltare l'Internazionale, non so a voi. E' il testo che mi commuove, e anche se so che a molte persone suona male io conosco la Storia, e so da dove viene. Non sarà certo uno Stalin a far tramontare il pensiero di un'umanità che si vuol bene e marcia insieme verso un obiettivo un po' più alto del denaro.
Per ora chiudo, e ne approfitto per fare gli auguri di Natale: è un Natale molto laico, lo ammetto, ma quest'anno va così; e sono sicuro che Chi di dovere capirà cosa intendo dire, e magari mi darà l'assoluzione.
Giuliano 26 dicembre 2006

Improvviso, n.2

«(...) I suoni di strada, anche i più allegri nel motivo, sono sempre suoni tristi, e non è la povertà o la mutilazione o l'età dei musicanti a renderli tali. Nel trattatello impazzito di luce di García Lorca sul duende, l'oscura presenza animatrice dei cantante, dell'attore, del saltimbanco, del musico (il termine castigliano è intraducibile) è detto che "tutto ciò che ha suoni tristi ha il duende". Per contro, il duende non anima che i suoni tristi o meglio, la sua presenza di elemento e partecipazione divina li trasforma in tristi, per incantamento. E la musica di strada è sempre, poiché enduendada, "simile al grido lontano dell'umano dolore" (è Baudelaire che lo dice). Chi non ne riceve trafittura ha corazza sul cuore. » (Guido Ceronetti, dal "Corriere della Sera" del 24.12.2001)

Improvvisare è bello, però bisogna essere almeno in due. Alle volte, è necessario anche il pubblico: basta una persona, un terzo che osserva e approva, oppure non approva ma, in qualche modo, partecipa: anche solo con un cenno o con un sorriso. Per esempio, l'anno scorso ai primi di dicembre passavo per Milano, ed ero uno dei pochi ad avere l'ombrello: non che sia un merito, anzi. Però quando si mise a piovere io ero al semaforo che dalla piazza, venendo dalla Galleria, porta in via Filodrammatici; lì mi raggiunge una bella signora in bicicletta, che deve fermarsi per il semaforo rosso, e così io posso offrirle riparo sotto l'ombrello. Solo un attimo, ma la piccola recita è venuta bene: a voi non è mai successo? Più tardi, nel pomeriggio, mi fermo alla libreria Feltrinelli e mi diverto a passare il tempo guardando i libri. Un'altra bella signora elegante mi chiede se le posso prendere quel libro là in alto, quello della Mazzantini. Io che sono alto e ci arrivo, sarei così gentile? Certo che lo sono: anche per il piacere di improvvisare.

Il mondo è un palcoscenico, si sa: ognuno ha le sue entrate e le sue uscite, come si conviene. E' difficile essere all'altezza di cotanto palcoscenico, ed è molto più facile fare brutte figure o pessime piazzate. Non essendo io un attore da piazzate, anche perché me ne mancherebbe la voce, (e poi ho un fisico imponente, e come diceva Orson Welles a me spetterebbero solo le parti da re e da persona importante: come si fa? Mica si improvvisano, parti come queste, e il fisico non me lo posso mica cambiare), preferisco scegliere gli angoli del palco, fare la comparsa però con eleganza - beh, fin dove arrivo.

Non è che si debba essere sempre protagonisti. Per esempio, sempre a dicembre e sotto le feste, ero a Como e sotto Porta Torre c'era un fisarmonicista, forse zingaro e certamente slavo o balcanico. Era bravissimo, e suonava un repertorio antico e profondo: ma era lacero, malvestito, e la fisarmonica era vecchia e senza dubbio gloriosa, ma non si capiva come faceva a suonarla così bene, visto che rischiava di cadere in pezzi da tanto che era stata usata. Gli passo davanti, colpevolmente, senza dargli niente. Per punizione, pochi metri più in là, appena passato il liceo, ecco un sax amplificato e rumoroso, con tanto di basso insistente ed elettronico nello scatolone dell'amplificatore. E, per di più, suona jingle bells in stile swing: la cosa peggiore, credetemi. Torno indietro, vado dal mio omino d'altri tempi, che per timidezza sta nascosto proprio nell'ombra dietro Porta Torre, dal lato dell'edicola (chi mai vuoi che passi, lì dietro? pessima posizione per un mendicante), e gli dò due monete da due, di quelle con Dante sul recto. E mi ringrazia, perfino.
(Giuliano 22 dicembre 2006)

Improvviso, n.1

«Il cappello per la moneta è un trucco degli angeli per dissimularsi e muoversi indisturbati, con statuto-lasciapassare di mendicanti. La gente crede che aspettino monete, invece sono loro a riempirci le tasche d'oro.» (Guido Ceronetti, dal "Corriere della Sera" del 24.12.2001)

" ... I dreamt I dwelt in marbles hall..." E' una melodia dolce e famosa quella che mi coglie, del tutto impreparato, in un pomeriggio d'inverno a Como, mentre passeggio in pieno centro. Sono una ragazza e un ragazzo, presumibilmente inglesi: lei canta e lui l'accompagna. E' un'aria famosa, soprattutto nei paesi anglosassoni: viene dall'operetta di Balfe "The bohemian girl", e la ragazza è perfetta nel canto e nell'espressione.
Forse la conoscete anche voi: non tanto perché ne parla Joyce, ma forse grazie a Stan Laurel e Oliver Hardy, due vecchi e cari angeli del tempo passato. Il film segue alla perfezione la trama dell'operetta: una giovane zingara racconta un suo sogno, nel quale si trovava in un meraviglioso palazzo ricco di marmi. Lei non lo sa ancora, ma si tratta di un ricordo, e non di un semplice sogno: e presto arriveranno i ricchi signori a recuperare la figlia che credevano perduta. Gli zingari non sono cattivi e non hanno rapito la bambina (questo in un'operetta non succede mai): e, soprattutto, i due zingari che hanno fatto da padri alla bambina, per tutti questi anni, sono proprio Stanlio e Ollio. Due padri amorevoli: mentre la bambina racconta il sogno meraviglioso, Ollio ascolta estasiato, e Stanlio (estasiato anche lui) si mangia tutta la colazione; si giustificherà poi dicendo di averlo fatto "perché aveva paura che si freddasse".

Capita spesso, sotto le feste, di incontrare musicisti da strada. Di solito sono molto bravi, suonano bene e cantano anche meglio. A Milano gira un magnifico fisarmonicista ucraino, che suona il Temporale di Vivaldi e la Toccata e fuga di Bach senza sbagliare una nota; si mette lì col piattino ma non credo che ne abbia bisogno, forse lo fa solo perché gli piace. E poi tanti peruviani, quelli ci sono sempre; sono invece quasi scomparsi i nostri pastori, quelli che suonavano la piva, ed è un peccato. Un altro giorno, tre anni fa, quando pensavo di essere felice e forse lo ero, sempre a Milano, davanti alla Loggia dei Mercanti (il posto più antico della città), un altro gruppo di giovani (forse inglesi) eseguiva in maniera perfetta l'antica leggenda di Matty Groves, una ballata resa celebre dai Fairport Convention. Anche quel giorno, come a Como tanti anni fa, tutto era perfetto: l'aria fredda, la giornata grigia ma non troppo, le sciarpe di lana, l'ora vicina al crepuscolo. Ma il tempo passa, anche quel Natale è passato, chissà cosa canteranno i giovani inglesi fra vent'anni per riscaldarci i cuori e farci venire nostalgia...
(Giuliano 21 dicembre 2006)

mercoledì 5 agosto 2009

Celeste Aida


Giuliano, 19 dicembre 2006
E' tutto un gran ripetere, in questi giorni, "l'Aida di Zeffirelli". Mettiamo bene le cose in chiaro: l'Aida è di Giuseppe Verdi. In secondo piano, l'autore dei versi: il bravo poeta lecchese Antonio Ghislanzoni. Al terzo posto, l'egittologo francese Auguste Mariette, autore del soggetto. E, subito dopo, il maestro (pardon: Maestro) Riccardo Chailly, che dirige l'Aida in questi giorni alla Scala (ancora grazie, Maestro!). E poi i cantanti, e poi l'orchestra, il coro e il Maestro del Coro. A questo punto comincio a intravvedere Zeffirelli: sì, un po' di spazio c'è anche per lui.
Ma Zeffirelli di Aide ne ha fatte tante, non è più una novità. Mi ricordo volentieri, come grandi capolavori, i suoi allestimenti della Bohème di Puccini e dell'Otello di Verdi; un po' meno volentieri ricordo una Turandot piena all'inverosimile di gente e di cose, così piena da rassomigliare più ad una delle care vecchie tavole di Jacovitti che ad un allestimento operistico. E anche un Don Carlo, sempre di Verdi, pieno di chierichetti turibolanti e di improbabili cerimonie cattoliche, messe in ridicolo nei giorni seguenti dagli esperti scandalizzati (io, in verità, non mi ero accorto di niente).
Quello che contesto è l'equazione secondo la quale Zeffirelli è la tradizione dell'opera. Non è vero: al tempo di Verdi erano usatissimi i fondali dipinti, ai quali suggerirei di ritornare, ogni tanto.Gli allestimenti faraonici, alla fin dei conti, li paghiamo noi contribuenti: e già abbiamo dovuto accollarci il costosissimo e discutibile lifting della Scala, forse non è il caso di continuare su questa strada.
Per esempio, Giorgio Strehler faceva cose meravigliose con pochi effetti, l'uso sapiente delle luci e una scenografia ridotta al minimo: a lui piaceva fare teatro, lavorare sui personaggi e sulla recitazione, tutte quelle cose lì che si facevano una volta. Insomma, forse si può concludere dicendo che più che lavorare sulle scenografie faraoniche, a Strehler piaceva lavorare: altri tempi anche qui. Altri tempi, altra gente, altre teste...
(nell'immagine, bozzetto del 1904 di Attilio Comelli per Aida alla Scala)

Gloria all'Egitto


" Un esercito di Prodi, da me guidato... / E la vittoria, e il plauso di Menfi tutta!"
Beh, fino a tre quarti della frase sono d'accordo con Radames. E' Menfi che mi scompiglia le idee: cosa me ne faccio del plauso di Menfi tutta? A Menfi, oggi come oggi, ci sono solo rovine: rovine gloriose, ma pur sempre rovine. E chissà dove sono, oggi, i discendenti dei Menfiti.
Comunque l'Aida è sempre bella da riascoltare: non è un'opera facile per i cantanti (e alla Scala il 7 dicembre ce ne siamo accorti: meno male che c'era il maestro Chailly...), ma per chi ascolta scorre tutto liscio. E' un'opera di grande artigianato, Verdi era ormai ricco e famoso e poteva prendersi tutto il tempo necessario per scrivere come gli pareva più giusto, in maniera meditata e in bella copia; anche se, personalmente, davanti alla perfezione dell'Aida io continuo a preferire il Macbeth e l'Ernani.
Però il buon Ghislanzoni, in quel lontano 1871, "Prodi" lo aveva scritto minuscolo: questo va detto, anche se - a voler essere proprio precisi - è Verdi stesso a mettergli la maiuscola: e basta ascoltare l'inizio dell'opera (magari nelle registrazioni di Carlo Bergonzi) per accorgersene. L'Aida è un'opera intimista, da camera: tratta del dramma di tre innamorati, dei quali una - la figlia del Re - è destinata a rimanere delusa. Sembra strano dirlo, perché l'Aida è famosa per la scena del trionfo: ma si tratta, appunto, di una sola scena. Il resto è tutto dramma intimo, scene notturne con due o tre personaggi alla volta, qualcosa di piccolo e di grande nello stesso tempo.
La marcia trionfale dell'Aida sarebbe un perfetto inno nazionale per l'Italia, salvo per un dettaglio. Il dettaglio, tutt'altro che marginale, è che alla fine della marcia trionfale il coro intona un chiaro e visibile "Gloria all'Egitto". E' vero che si potrebbero cambiare le parole, ma sotto sotto si sentirebbe, il "Gloria all'Egitto". Una volta Claudio Abbado aveva detto, nel corso dei festeggiamenti per il centenario del Tricolore, che la composizione che riflette meglio il carattere degli italiani è di Rossini: l'ouverture dall'opera "La gazza ladra". Peccato per il titolo, aveva aggiunto; e anche qui mi sento d'accordo, compreso il leggero accenno d'ironia.
Del tutto fuori posto, come inno di qualsiasi tipo, sarebbe il "Va pensiero" dal Nabucco: per chi ancora non lo sapesse (e sì che è stato spiegato tante volte...) è musica bellissima, ma si tratta di un canto di sconfitta e di rassegnazione, tant'è vero che subito dopo arriva il Gran Sacerdote a rimproverarli, questi benedetti Ebrei: va bene il ricordo dei bei tempi, ma ora è il tempo di aver fede e di rimboccarsi le maniche, altro che far volare il pensiero sull'ali dorate! Ma forse sono proprio questi i tempi che corrono, forse davvero spettano all'Italia cori tristi e malinconici, forse davvero arriverà un Gran Sacerdote a sgridarci, o forse - chissà - è già arrivato e la sua sgridata l'ha già fatta. Più Padoa Schioppa che Prodi, direi, così a occhio (pardon, a orecchio). Magari mi sbaglio; comunque, nell'attesa di capirci qualcosa, mi unisco anch'io al Coro e canto "Gloria all'Egitto" e "Su, del Nilo al sacro lido". Non per altro, ma solo perché Verdi se lo merita: non ne abbiamo avuti mica tanti, di italiani come lui.
Giuliano 18 dicembre 2006

John Dowland


Giuliano, 1 novembre 2006
Ho un po' il dente avvelenato con Fabio Fazio, ma sabato sera mi ha fatto un gran bel regalo, facendo una di quelle cose che in tv sono diventate spaventosamente rare. E' vero che Fazio invita sempre personaggi che hanno qualcosa a cui far pubblicità, e che a tutti dice che sono dei grandissimi artisti (non grandi, ma grandissimi e straordinari tutti): ma stavolta, grazie a Sting, è successo un piccolo miracolo. Il miracolo è che si è parlato per mezz'ora, in tv e in prima serata, di John Dowland. Dowland è uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, ma - a parte l'Inghilterra - è anche uno dei meno conosciuti. Perciò ne approfitto subito, e - visto che è una notizia d'attualità - torno per un momento ai miei argomenti preferiti.
Dowland è contemporaneo di Shakespeare e di Cervantes. Nasce in Inghilterra nel 1562, ma poi gira tutta l'Europa (è sempre straordinario vedere come la gente si muovesse così tanto anche in quei secoli lontani, senza aerei né automobili ma a piedi e a cavallo...), ed è a contatto con tutti i più grandi musicisti del suo tempo. Dowland è nella storia delle musica per le sue "infinite variazioni sulla melancolia", ovvero le composizioni intitolate "Lachrymae", per complesso di viole; ma il suo strumento era il liuto, che è un antenato della chitarra, e molte sue composizioni sono per liuto e per voce. Non la voce dei cantanti d'opera come la pensiamo oggi, una vocalità che è ancora molto lontana nel tempo, ma una voce per cantare in piccoli ambienti, molto intima e simile a quella dei cantanti del 900 e di questo inizio secolo. E' per questo che Sting le può cantare, e da quel poco che ho ascoltato le canta benissimo, con grande stile e personalità.
L'unica cosa che mi è dispiaciuta, di quella chiacchierata tra Sting e Fazio, è che non si è mai fatto il nome di Claudio Monteverdi, che è ancora più importante di Dowland e che ha la sua stessa età (1567-1643): visto che Dowland è stato anche in Italia, è più che probabile che si siano incontrati e scambiati qualche parere. I testi delle canzoni di Dowland sono molto belli, ed è molto bello anche come Dowland li mette in musica; però sono tutti in inglese, l'inglese elisabettiano, e questo crea qualche problema. Perciò per oggi scelgo Monteverdi, in una delle sue "canzoni" più famose (e se volete ascoltare le meraviglie che ne ha tratto Monteverdi, vi consiglio il cd con l'edizione diretta da Rinaldo Alessandrini).
Hor che 'l ciel e la terra e 'l vento tace,
e le fere e gli augelli il sonno affrena,
notte il carro stellato in giro mena,
e nel suo letto il mar senz'onda giace.
Veglio, penso, ardo, piango; e chi mi sface,
sempre m'è innanzi per mia dolce pena:
guerra è il mio stato, d'ira e di duol piena;
e sol di lei pensando ho qualche pace.
Così sol d'una chiara fonte viva
move il dolce e l'amaro ond'io mi pasco:
una man sola mi risana e punge:
e perchè il mio martir non giunga a riva,
mille volte il dì moro, e mille nasco,
tanto della salute mia son lunge.
Francesco Petrarca, Rime - Claudio Monteverdi, Ottavo Libro dei Madrigali.

Povero Mozart

Non so se avete letto la cronaca dell'Idomeneo di Mozart sospeso a Bonn perché il regista aveva messo in scena la decapitazione di Maometto, e anche quella di Buddha e Cristo. Siccome so che gli appassionati d'opera sono rimasti in pochi, riassumo la vicenda (per chi non sa ne nulla) nella maniera più semplice possibile: con l'Idomeneo di Mozart, Buddha Cristo e Maometto non c'entrano una beata mazza. Chiedo scusa per la volgarità dell'esposizione, ma penso che così il concetto sia ben chiaro, e mi stupisce che perfino un grande musicista come Daniel Barenboim (in prima pagina su Repubblica) perda del tempo a difendere questa cosa : si tratta infatti dell'ennesima fetecchia inventata da pessimi registi e da sovrintendenti convinti che il teatro d'opera sia una cosa vecchia e vada ammodernata, che se no ci si annoia. Gli allestimenti trasgressivi sono la norma, anche se sembrerebbe una contraddizione: mai che si possa vedere una Traviata o un Don Giovanni così come sono stati pensati, che tristezza. L'anno scorso ho letto di una Traviata che diventava Lady Diana, e la scenografia era un immenso parabrezza d'automobile: sai che allegria...
Però mondo dell'islam è ben presente nell'Opera: ai tempi di Mozart, per esempio, i Turchi erano ancora ben potenti e ben presenti, e meno di cent'anni prima della sua nascita erano arrivati ad un passo dal prendersi anche Vienna. Mozart ne accenna nel "Ratto dal serraglio", una commedia (con musica meravigliosa, una delle cose più belle e solari di Mozart) dove un giovane va a salvare la sua innamorata dall'harem di un Sultano: ma il Sultano gliel'ha trattata bene, e anzi si dimostrerà magnanimo e illuminato. Poi c'è Rossini, che nel primo 800 dedicherà due opere ai Turchi: "L'Italiana in Algeri", un'allegra farsa che si sarebbe meritata la presenza di Totò dove il bey di Algeri è un gran somaro (grande parte per un basso comico), e "il Turco in Italia", una commedia brillante dove il Turco è un gran signore e il gran somaro è il marito (italiano) di una signora piuttosto allegra. Di Rossini c'è anche un Maometto II (L'assedio di Corinto), ma si tratta di un personaggio storico e non di un profeta.
Ci sono i luoghi comuni che tutti possiamo immaginare: la poligamia, il divieto di bere alcool, gli eunuchi e le impalazioni, le gag dei film di Totò per l'appunto. Non so se i "turchi" di oggi potrebbero offendersi: spero di no, perché in ogni caso le censure sul teatro e sui libri sono cose tristissime. Una cosa tristissima però è anche avere a che fare con certi allestimenti: una volta andavano di gran moda i nazisti, che spuntavano dappertutto, poi è stato il turno dei gangster (Rigoletto tra i gangsters, Lucia di Lammermoor nel terzo Reich...), e di recente ho letto di una Tosca che non vive più a Roma ma sul lago di Como, e di un Nabucco che era da vedere solo perché il protagonista arrivava in scena su un autentico cavallo: mah, portiamo pazienza. Chissà, forse Mozart si sarebbe divertito; e quanto a Rossini, "vengan danari, al resto son qua io".
Giuliano 13 ottobre 2006

Shostakovic

Si può coniugare il dramma con la buffoneria, la tragedia con il clownesco? E' quello che ha fatto, per tutta la sua vita, Dimitri Sciostakovic. E' per questo che, rovistando tra i pareri critici da trent'anni in qua, ne ho sempre trovati molti sconcertati o perplessi; ed è per questo che è fin troppo facile trovare appiccicati a Shostakovic una lunga sequela di luoghi comuni, come mai a nessun altro, a partire da quell'aggettivo: sovietico. Conosco Shostakovic da un tempo immemorabile, ma non per modo di dire: da prima del 1975, quando ascoltai qualcosa di suo per radio, e me ne innamorai all'istante. Ero andato a cercarlo sull'enciclopedia, cercando conferma per un nome così strano: forse con le trascrizioni moderne non l'avrei mai trovato, ma Sciostakovic, sulla mia vecchia enciclopedia, c'era; e scopersi che era ancora vivo, e nemmeno troppo vecchio, classe 1906. Da giovane, ha un viso da bambino, con gli occhiali rotondi e i lineamenti fini che, visti oggi, rimandano stranamente ai film di Harry Potter; andando avanti con l'età, lo troviamo chiuso e preoccupato, e per le ottime ragioni che possiamo ben immaginare. Perché la biografia di Shostakovic corre parallela, per più di 30 anni, a quella di Stalin; e Stalin faceva davvero paura, in quegli anni. Come per Bulgakov, la vicenda di Shostakovic (artistica e personale) è strettamente legata a quella di Stalin. Stalin era un diavolo grande e grosso, molto potente, di quelli che si possono trovare leggendo "Il Maestro e Margherita"; per lo scrittore e per il musicista aveva un rapporto quasi protettivo, ben confermato da lettere e testimonianze; li lasciava fare, ma ogni tanto si faceva sentire, quasi sempre un po' da lontano: "Come mai, caro compagno Dimitri, mi scrive di queste cose?" Ed erano brividi giù per la schiena dello scrittore, o del musicista. Zhdanov, cioè Stalin, bocciò molte opere di Shostakovic. Come sia possibile bocciare, per motivi politici, un quartetto d'archi o una sinfonia, è un mistero per me insondabile; trovo un paragone possibile solo con avvenimenti recenti, relativi alla programmazione delle tv e delle radio commerciali. Va bene solo ciò che si può vendere, oppure solo ciò che piace al popolo: in entrambe le posizioni, è severamente vietato essere originali e cercare strade nuove, è vietato essere troppo cupi, ed anche scherzare diventa pericoloso. Di Shostakovic, che quest'anno compirebbe cent'anni, sono famose le sinfonie n.5, le n.7 e n.8 (scritte in tempo di guerra, sotto l'assedio nazista), ed è diventato famosissimo, dopo l'ultimo film di Kubrick, uno dei suoi valzer dalle "Suites per orchestra jazz". Il catalogo delle opere di Sciostakovic è molto vasto, per fortuna, e non saprei cosa consigliare d'altro, a chi non lo conosce: sicuramente la bellezza e la profondità dei suoi Adagi, forse i due Concerti per pianoforte, soprattutto il secondo, tra Ravel e Gershwin, che è un'oasi di pace in mezzo a un periodo cupo e terribile. Perché Shostakovic, come Stravinskij e come Prokofiev, aveva una caratteristica che ai critici non piace, e spesso neanche al pubblico: è eclettico, non etichettabile, sa far di tutto e tutto bene, e sempre con grande originalità e personalità. E quello che io amo di più nella sua musica è ciò che più sconcerta al primo ascolto: il tragico fuso con il comico, il clown e l'Amleto, il Matto e il Re, come in Shakespeare, come in Beckett, e come nella nostra vita.
Giuliano 30 aprile 2006

Un annuncio dal futuro

A Milano, in Galleria, ha chiuso una delle mie librerie preferite, la Libreria Accademia: sulla vetrina c'è scritto "chiuso per ristrutturazione", ma dentro è tutto vuoto e il bar di fianco ha già messo i tavolini davanti a quello che ne fu l'ingresso. La Libreria Accademia era un grande negozio, su tre piani, dedicato ai Remainders: cioè ai fondi di magazzino, ai libri invenduti, a volte vecchi a volte molto recenti. C'era la possibilità di comperare a poco prezzo opere importanti (anche i Meridiani Mondadori, alle volte), ma anche di recuperare libri stampati anni addietro e ormai fuori catalogo, perciò introvabili nelle normali librerie.
E poi, siccome ero in vena di nostalgia, ho fatto altre visite in altri luoghi che un tempo frequentavo con assiduità, e anche con affetto. Il Discoclub Cordusio, nella stazione del metrò vicina al Duomo, per esempio: c'è ancora e ho trovato delle buone occasioni, ma l'atmosfera di smobilitazione è così evidente da fare malinconia. Dietro al bancone, c'è ancora il mio coetaneo che un tempo incontravo al loggione della Scala: non abbiamo mai legato molto, ma qui ho comperato molti dei miei dischi, fin dal tempo dei 33 giri. E' ancora lì, non è cambiato molto (io sì, da quel 1980 in cui avevo baffi, occhiali, capelli...), e gli compero il Lohengrin diretto da Kempe, il migliore di tutti i tempi, che sbadatamente non avevo ancora a casa tra i miei scaffali.
Poi, visto che è sabato, vado alla Fiera di Sinigaglia, o meglio a quel che ne resta. Per i romani, è l'equivalente milanese di Porta Portese: una volta ci si trovava di tutto, oggi siamo prossimi alla normalizzazione, molte delle vecchie bancarelle sono scomparse, tra poco diventerà un mercato come tanti altri. Mi ricordo dei bei tempi, a metà anni '70, dalle parti del Parco delle Basiliche (via Calatafimi e dintorni): partivo il sabato pomeriggio, e andavo a scambiare i miei lp con altri ragazzi come me. Comperare i dischi nuovi, allora come oggi, era quasi proibitivo per un ragazzo di 16-17 anni: con gli scambi, e con l'usato, si poteva invece accedere a conoscenze del tutto nuove spendendo molto poco. E' lì che, nel 1976, ho comperato per poche migliaia di lire tutti i dischi di Tim Buckley; è lì che ho comperato i miei primi dischi di musica classica, finalmente ad un prezzo accessibile. Era un gran guardare e controllare, i dischi in vinile potevano essere rigati, ma eravamo tutti alla pari e controllare era normale. C'era qualcuno che era già organizzato, già pronto per la pirateria che sarebbe venuta molti anni dopo, con un centinaio di lp esposti in scatole di cartone, quasi un negozio ma sul marciapiede; ma i più erano ragazzi normalissimi, in un clima post 68 ancora molto tangibile. E c'erano le bancarelle con i libri vecchi e le riviste vecchie, unico posto dove fosse possibile trovare i vecchi Linus e i vecchi Tex, e tante altre cose ancora. In seguito ho scoperto che i residenti (giustamente) non ne erano molto contenti, ed è per questo che la Fiera fu trasferita sui Navigli, alla Darsena; e, oggi, alla stazione di Porta Genova.
Lì vicino ci sono anche le sedi storiche del Libraccio, che è nato molto dopo che io avevo finito di andare a scuola, in un'epoca in cui avevo già i miei soldi in tasca. Ma la catena del Libraccio, anche se permette di trovare libri vecchi e fuori catalogo, è già un'altra cosa, una libreria vera, organizzata. Niente di male, anzi; ma queste vecchie fiere, questi vecchi negozi, le bancarelle rimaste uguali dall'anteguerra, queste cose non si ritroveranno più. I libri vecchi oggi vanno al macero, non valgono più niente; e la stessa cosa accade ai libri nuovi, passati sei mesi o poco più. E se un gruppo di ragazzi delle superiori provasse a mettere in piedi un mercatino spontaneo di libri e di dischi come quello che facevamo noi nel 1976, forse arriverebbe la polizia e la finanza e arresterebbero tutti come pericolosi pirati.
Intanto le librerie chiudono, e chiudono anche i negozi di dischi. E' triste, ma è così: e forse non è triste, è davvero il progresso. In futuro non saranno più necessarie le librerie, scaricheremo tutto da internet; e per i dischi ormai ci siamo, il futuro è già incominciato e presto anche i grandi negozi, come Ricordi a Milano, saranno solo un ricordo da vecchi signori d'altri tempi.
Giuliano 25 maggio 2006