domenica 29 dicembre 2019

Forza Ajax


L'unica maglietta di calcio che io abbia mai comperato è quella dell'Ajax di Amsterdam: ero in Olanda in vacanza, tanti anni fa, e ne ho approfittato. L'ho messa qualche volta e poi l'ho regalata, non mi è mai piaciuto portare simboli in evidenza (compresi quelli religiosi e politici) ma per l'Ajax avevo fatto un'eccezione. Ci ho ripensato quest'anno, in primavera, per le belle partite disputate dagli olandesi (finale di Champions mancata di poco) dopo anni di scarsa rilevanza. L'Ajax è una delle poche grandi squadre di calcio che si sono, di fatto, rifiutate di assimilarsi al pessimo circo che è diventato il football professionistico.
All'Ajax funziona così: se a un giovane calciatore arriva una forte offerta economica da parte di un'altra società, lo lasciano andare. Anche se si chiama Marco Van Basten, per intenderci. Con i giovani talenti che ha lasciato partire, l'Ajax avrebbe vinto una decina di Coppe dei Campioni: l'elenco è lungo, butto giù qualche nome a caso: oltre a Van Basten, Sneijder, Davids, Rijkaard, Suarez, Robben, Bergkamp, l'elenco è davvero lungo e parte da Cruijff e Neeskens, quasi quarant'anni fa, per terminare (ma è solo questione di tempo) con de Jong e de Ligt. Sento già i tifosi e i commentatori professionisti obiettare: ma così non si vince niente. Intanto, non è vero: negli anni in cui comperavo quella maglietta, l'Ajax aveva vinto la Champions League proprio contro il ricchissimo Milan di Berlusconi (gol di Edgar Davids). E poi, soprattutto: è così importante vincere le Coppe? Non è vero che vincere è l'unica cosa che conta, le società sportive possono e devono avere altri obiettivi. L'Ajax, per esempio, ha di sicuro aiutato moltissimi ragazzi a diventare adulti, tramite il calcio; e continua in quest'opera con attenzione. Un confronto con i nostri club può fare spavento: per esempio l'Inter di Moratti, campione di sprechi quanto l'Ajax lo è di attenta gestione economica e sportiva, ha seriamente rischiato di sparire (qualcuno si ricorda di Kondogbia, di Vampeta? l'elenco sarebbe interminabile, giocatori strapagati e poi mandati in tribuna dopo tre partite...). E le romane, Roma e Lazio, delle quali si dice che siano state salvate dalla scomparsa grazie a tifosi importanti. Della crisi interminabile del Milan si occupano le pagine di cronaca in questi giorni.

La Champions League è diventata un tavolo al quale le persone intelligenti non dovrebbero mai sedersi. E' come un tavolo tra amici dove si gioca a carte: si comincia per divertimento, poi qualcuno comincia a puntare qualcosa, un caffè, una pizza, si sta al gioco, magari ci si diverte anche. Ma, se qualcuno alza troppo la posta, la cosa migliore da farsi è alzarsi e salutare tutti. Qui la posta è stata alzata in maniera esponenziale, da trent'anni in qua è un continuo gioco al rialzo: da noi ha cominciato Silvio Berlusconi, negli anni '80, poi sono arrivato i russi (Abramovic al Chelsea), gli arabi (Paris St Germain, squadre inglesi), e sono cominciati i fallimenti, anche illustri. Fallimenti non nel senso di non vincere, ma proprio nel senso di portare i libri in tribunale: Fiorentina, Napoli, Sampdoria, Genoa, Torino... Un elenco infinito, che comprende anche la catastrofe delle serie minori. Impossibile competere con chi spende e spande, i possibili investitori fuggono e oggi è difficile trovare una squadra italiana in mano a un industriale italiano, forse solo il Sassuolo di Squinzi (de Laurentiis rilevò il Napoli al tribunale fallimentare). E non si può dimenticare che Real Madrid e Barcellona ebbero e continuano ad avere aiuti cospicui (un vero pozzo senza fondo) da banche compiacenti: c'è stata un'inchiesta, ma è finita subito sotto la sabbia: è possibile saperne di più? (possibile che questa notizia non interessi?). L'impressione è che se si muovesse decisa la Guardia di Finanza succederebbero sfracelli; non so quanti dirigenti sportivi rimarrebbero in libertà.

Ma questi sono solo alcuni mali del calcio moderno, e non sono neanche i più gravi. Per esempio, adesso, fine dicembre, esultano i tifosi della Lazio: mi unisco ai complimenti, un'ottima partita e un'ottima squadra, ma la Lazio ha una delle peggiori tifoserie in Europa. Già dimenticato tutto? I saluti fascisti, i pestaggi, gli insulti ad Anna Frank, i legami con droga e criminalità comune emersi in modo clamoroso con l'omicidio di un capo ultras? Ebbene sì, tutto dimenticato, non se ne parla più. Basta una partita vinta, e cala l'oblio su tutto. Per fortuna, abbiamo ancora la Magistratura, i Carabinieri e la Guardia di Finanza - ma chi si occupa professionalmente di calcio a queste cose non pensa, ed è grave.
E' per tutte queste cose che, da juventino, dico sempre soltanto "Forza Ajax". La bacheca rimane vuota, ma la squadra è grande lo stesso. La storia non si fa solo con gli "albi d'oro", ci sono altre cose più importanti e l'Ajax di Van der Sar è qui a ricordarcelo.
 
(le immagini vengono da wikipedia.it )
 

venerdì 27 dicembre 2019

Comic strip


Mentre sto finendo di fare la spesa al supermercato mi rendo conto che il mio carrello è rotto. Che fare, lo metto via così o lo dico? Il mio senso civico mi spinge a recarmi all'apposito sportello all'ingresso e a segnalare il fatto: il carrello è rotto proprio dove ci si appoggia con le mani, spezzato in due, e qualcuno potrebbe farsi male. La commessa capo, efficientissima, mi ascolta e si complimenta con me: ma certo, ma grazie, ha fatto proprio bene a segnalarcelo. Poi mi chiede se ho messo nel carrello una moneta o un gettone: rispondo che è una moneta da un euro ( il gettone lo avevo ma purtroppo non lo trovo più). La gentile signora mi dice di lasciare il carrello alla guardia giurata fuori dall'ingresso (è già stata avvertita) ma prima va a prendere la moneta e me la porge con un gran sorriso: ecco. Ammetto di aver preso quella moneta con una certa riluttanza. Siamo sicuri che sia una moneta da un euro, questa cosa qui? Non ne ha il colore, non ne ha l'aspetto, fa persino un po' schifo a vedersi, devo proprio toccarla? Ma lei mi sorride come se fossimo appena usciti dal libro Cuore, in effetti la scena è quella, e prendo con due dita quel coso. Lo guardo: sì, forse è proprio una moneta da un euro ma Dio solo sa cosa può esserle capitato e da dove sia stata recuperata. Il mio euro, prigioniero del carrello, era invece nuovissimo e perfino brillava. Siccome si direbbe che sia stata lavata (sembrerebbe pulita) mi rassegno e con un sospiro la metto nel portafogli. Vado dalla guardia giurata, è un tipo cordiale e gli abbandono il carrello: ho diversi amici che fanno o hanno fatto quel mestiere, so come funziona, conosco i turni di diciotto ore consecutive, non farei mai polemica con uno di loro. Prendo le mie due borse in mano, e mi allontano verso l'automobile.
 

E' finita qui? No, purtroppo no. Passa qualche settimana e ritrovo proprio quel carrello, o comunque uno rotto proprio nella stessa identica maniera e nello stesso punto. Cha fare? Il pensiero mi torna a quella povera moneta che mi sono vergognato di spendere (ho chiesto scusa in quel momento), e decido di lasciar perdere. Non è proprio più il tempo del libro Cuore, penso; e aggiungo altre considerazioni sulle quali è meglio sorvolare.

(illustrazione da "Fun magazine", 1893)

lunedì 23 dicembre 2019

Spreco

- Non può mettere tutto in una vaschetta sola?
No, mi risponde che non può; so bene che altrove lo fanno, ma non insisto perché siamo in un supermercato e so che la direzione potrebbe riprendere duramente la commessa. Così faccio un piccolo inventario: tre sacchetti di carta, tre scontrini autoadesivi, tre vaschette di carta nera, tre fogli grandi di alluminio. Poi arrivo a casa e metto tutto in un piatto solo (ci sta comodamente), non senza aver lavorato duramente per districarmi fra tutto quello scarto e poi fare la raccolta differenziata: qui l'alluminio, qui la carta nera, e per gli scontrini appiccicati come faccio? Li stacco, li ritaglio? Ci vuole più tempo a mettere via che gli imballi che a mangiare tutto...

La "rivoluzione culturale" della plastica e della lotta agli sprechi può partire solo dalla grande distribuzione, oltre che da una campagna di informazione capillare che deve partire fin dalle scuole. E la colpa non è della plastica in sè: io, per esempio, non posso andare con una tanica nel supermercato e prelevare il detersivo o l'ammorbidente sfuso, perché questo servizio non c'è in nessuno dei supermercati (non piccoli) che frequento. Se non si parte da qui, dalla grande distribuzione, non si otterrà mai niente; e bisogna anche fare attenzione per non far ricadere i costi sui consumatori, cosa che si rischia di fare con la prossima "plastic tax" e che è già successa con le buste di plastica. Ci avete fatto caso? Premesso che nessuno vieta al supermarket di farvi lo sconto di un euro a fine spesa (tanto più se avete una tessera di quel supermarket), c'è chi per la busta di plastica fa pagare un centesimo e chi ne fa pagare quindici.

Mi fermo qui, perché la plastica è ormai dappertutto (anche nella ristrutturazione delle facciate delle case: ci avete mai pensato?) e probabilmente ci siamo mossi troppo tardi, ma alla fine non riesco a togliermi di testa che è tutto un problema di educazione e di sensibilità personale. Io non ho mai visto i miei genitori buttare per strada una borsa di plastica, e io stesso ho sempre usato per settimane e anche per mesi le stesse buste di plastica, prima di buttarle via nell'apposito contenitore. Lo abbiamo fatto in tanti, ma non tutti lo hanno fatto; e se tutti avessero fatto così, non saremmo messi poi tanto male; ma, appunto, ormai è tardi e molti non si accorgeranno del danno nemmeno quando toccherà a loro finirci dentro. Compresi quelli che ridono dei "gretini", intendo.


giovedì 19 dicembre 2019

Terpeni


Un'esperienza molto comune è quella di sbucciare un mandarino, o un'arancia, e di ritrovarsi sulla pelle il liquido profumato, e anche un po' unto, contenuto nella buccia: le mamme invitano sempre, da piccoli, a non pulirsi sul tovagliolo perché macchia di giallo e poi si fa fatica a lavarlo via. Si tratta di un olio essenziale, composto da una sostanza che per i chimici si chiama terpene. In profumeria, un terpene molto usato si estrae dal bergamotto: un altro agrume, che richiede una pazienza enorme per estrarre l'olio essenziale (quanto olio ci può essere nella buccia di un agrume? pochissimo...) e che si può anche mangiare ma non a tutti piace perché ha un sapore forte.

La voce "terpeni" sulla Garzantina della Chimica comincia così:
TERPENI: vasto ed eterogeneo gruppo di composti organici molto diffusi in natura, soprattutto quali componenti di resine ed oli essenziali estratti da un gran numero di piante. Il loro nome deriva dal tedesco "terpentinöl", essenza di trementina, il più comune prodotto contenente terpeni, ricavato dalle resina di varie conifere. (...)
Andando avanti a leggere (la voce intera occupa due pagine fitte) si scopre che i terpeni possono anche essere di origine animale, e non solo vegetale; che possono essere sia liquidi che solidi (cerosi) ma comunque volatili. Alla loro facile evaporazione (volatilità) è dovuto l'uso nell'industria profumiera, dato che si tratta quasi sempre di odori gradevoli. I terpeni trovano impiego non solo in profumeria ma anche in farmaceutica, nelle vernici, nelle materie plastiche, come solventi e come intermedi nell'industria chimica. Vengono suddivisi in monoterpeni (trementina, canfora, mentolo, eccetera: le molecole più semplici), sesquiterpeni (olii essenziali di conifere e rutacee), diterpeni (caroteni, vitamina A), triterpeni (resine e cere naturali, della frutta o dell'incenso), politerpeni (gomme naturali, caucciù e guttaperca). Da un punto di vista teorico, alla base dei terpeni c'è un gruppo di atomi chiamato "isoprene", utile soprattutto per la classificazione delle diverse molecole. Metto qui intorno qualche formula, sempre dalla Garzantina della Chimica, per chi volesse approfondire.

Io ho incontrato i terpeni come intermedi nell'industria tessile, in tessitura soprattutto, dove possono essere come lubrificanti o come antistatici, o come intermedio per altri prodotti. Possono essere di sintesi, ma mantengono le caratteristiche che avete trovato sbucciando i mandarini e le arance: un olio leggerissimo e untuoso, che tinge leggermente di giallo la pelle e il tovagliolo. E' un bel prodotto, profumato, un olio leggerissimo che definirei etereo se non fosse per il fatto che in chimica la parola "etere" ha altri significati. Ho conosciuto di persona il terpene di limone e quello di arancia, e dalla tabella qui sopra apprendo che esiste anche quello di geranio (geraniolo), di menta (mentolo) e chissà quant'altro ancora. Vien voglia di iniziare una collezione di terpeni, insomma: ed è probabile che qualcuno lo abbia già fatto, magari tra i profumieri.

 
(la foto in alto è mia; le altre immagini vengono dalla "Garzantina della Chimica")
 


lunedì 16 dicembre 2019

Endotermico, esotermico


Un congegno per rinfrescare ciò che si beve e che ci si è portati dietro nello zaino: è quanto appare nel racconto di metà Ottocento (1848) di Adalbert Stifter. Il racconto si intitola "Kalkstein" ("Pietra calcarea", nell'edizione Sellerio), ed è una storia di vita quotidiana venata di malinconia che non ha niente a che vedere con Verne e con i libri di avventure. Incuriosito, prendo nota di ciò che dice il narratore, un ingegnere (o, meglio, un agrimensore) mandato in un remoto paese di montagna per studiare il luogo e fare rilievi in vista di futuri lavori. Questa è la descrizione precisa:
«Appesa a una cinghia di cuoio portavo di solito a tracolla una cassetta in cui c'erano gli attrezzi per disegnare, i disegni e parte degli strumenti per le misurazioni. A lato della cassetta era fissata una borsa in cui si trovavano i miei cibi freddi, il vino, il mio bicchiere e il congegno per rinfrescare il vino.» (Adalbert Stifter, "Pietra calcarea", pag.24 ed.Sellerio, traduzione di Paola Colombo)
Il cibo è costituito da prosciutto, arrosto freddo e formaggio, oltre al pane; completano l'equipaggiamento dei piattini di latta sottile, coltello e forchetta. Il narratore spiega che l'acqua si trova con facilità nelle sorgenti, e quindi non ha bisogno di essere rinfrescata; e qualche riga più in là completa l'informazione: « ...e poi gli feci vedere come raffreddavo il vino. Il bicchiere doveva venire messo in una scatola di materiale poroso e il materiale venir inumidito con un liquido molto fluido di nome etere che portavo sempre con me in una bottiglietta: è questo un liquido che evaporando con efficacia repentina provoca un raffreddamento che rende il vino più fresco che appena uscito dalla cantina, anzi, più che se fosse rimasto in ghiaccio. Siccome così facendo avevo raffreddato due bicchieri di vino mischiato ad acqua e ne avevo posato uno al suo posto, lo invitai a mangiare con me. » (Adalbert Stifter, "Pietra calcarea" pag.29 ed.Sellerio, traduzione di Paola Colombo)

Visto da oggi non è un certo sistema ecologico; e l'etere era sicuramente infiammabile, quindi era necessaria molta attenzione. Etere è una definizione poco precisa, esistono molti eteri volatili; se si tratta di etere etilico, era un composto usato comunemente negli ospedali per disinfettare fino a qualche anno fa, il tipico "odore di ospedale" per chi c'era e se lo ricorda. Lo stesso effetto, raffreddare mediante evaporazione rapida, si otterrebbe con altre sostanze volatili, ma direi che è il caso di sorvolare e sconsiglio il sistema a chiunque, soprattutto perché oggi abbiamo materiali più maneggiabili e più efficaci. Però la descrizione mi ha riportato a esperienze personali, che trascrivo nel modo più semplice possibile a partire da un vecchio ricordo di scuola: avendo notato che diverse sostanze provocano calore o raffreddamento quando vengono sciolte in acqua, un mio compagno di classe aveva chiesto la spiegazione al professore, che aveva risposto così: "E' pur sempre una reazione chimica". Non si tratta di una reazione che porti a una nuova sostanza, come per gli acidi e le basi che danno un sale, ma c'è comunque un'interazione tra ciò che si scioglie e ciò che lo scioglie, tra il soluto e il solvente per usare le parole giuste. Per esempio, il comune bicarbonato di sodio ha un leggero effetto rinfrescante sull'acqua in cui viene sciolto; ma è poca cosa. Alcune reazioni chimiche, si sa, sono così rapide e potenti da provocare esplosioni; ma qui si aprirebbe un altro discorso, e gli esplosivi non sono mai stati il mio forte. Inoltre, un conto è portarsi dietro una bottiglietta di etere in un paese di montagna, un altro conto è farlo quando siamo sopra i 30°C: il rischio è che la bottiglietta ci scoppi durante il viaggio.

Due esempi spettacolari che ho trovato in laboratorio, preparando i reagenti per le analisi, riguardano invece l'acido citrico e la soda caustica. L'acido citrico, presente in natura nel succo di limone, è molto usato nell'industria alimentare e anche nella cosmetica; viene venduto comunemente in polvere, simile allo zucchero nell'aspetto (ma non nel sapore). Se viene sciolto in quantità uno a uno con acqua, cioè 50 grammi di acqua e 50 di acido citrico, la temperatura della soluzione si abbassa di colpo e arriva molto vicina allo zero Celsius. Ho preparato diverse volte anche la soluzione "normale" di soda caustica, partendo sempre dal solido - in questo caso, delle perline di bell'aspetto ma che è bene maneggiare con cura, la soda caustica non ha quel nome per caso ma proprio perché provoca ustioni. Per ottenere la soluzione normale della NaOH (soda caustica, sodio idrossido: "normale" è un termine chimico, in questo caso) bisogna sciogliere 40 grammi di soda e portarli a un litro di acqua: questa semplice operazione porta vicinissimi all'ebollizione, e quindi è necessario far raffreddare prima di portare al volume di un litro. Dietro tutto questo c'è il concetto di reazione esotermica e di reazione endotermica: ma qui le spiegazioni diventano troppo complesse, servirebbe un corso completo di chimica e per oggi preferisco fermarmi qui.

sabato 14 dicembre 2019

Una donna come capo


Il dodecil benzene è un liquido leggero, trasparente, un po’ untuoso, incolore. L’odore e la consistenza mi ricordano qualcosa di familiare, ma lì per lì non saprei dire cosa.
Dopo un po’ ci arrivo: il gas degli accendini, quando la fiamma non si accende e te ne esce un po’ sulle dita. La somiglianza non è casuale perché, dal punto di vista chimico, il dodecilbenzene e il gas propano sono molto simili. La differenza è nelle dimensioni delle molecole: minuscole per propano e butano, piuttosto lunghe nel dodecilbenzene: e questo è anche il motivo principale per cui, alle condizioni normali sul pianeta Terra (su Venere e su Giove sarebbero tutti solidi) uno è gas e l’altro è liquido.
Il dodecil benzene ha anche un’altra particolarità: è idrofobo. Non nel senso di Pasteur, ma nel senso che non trattiene l’acqua e se ne separa subito. Non la sopporta proprio, e al massimo crea delle pallide emulsioni. Ne consegue che le autobotti che lo trasportano devono essere assolutamente asciutte, oltre che pulite: la qual cosa non succede sempre e non è successa nemmeno oggi, perché spiegare ai camionisti le ragioni per le quali l’autobotte deve essere assolutamente asciutta non è facile. Per loro “asciutta” è quando non sgocciola più, e quando si tratta di un’autobotte da ventimila litri questo non basta; e in un impianto di solfatazione o di solfonazione ritrovarsi quell'acqua crea problemi seri.
La conseguenza finale di tutto questo discorso è che oggi il dottor Biribò è molto arrabbiato, intrattabile. L’autobotte di dodecilbenzene che è appena arrivata era infatti annacquata. ce ne era almeno un secchio, forse anche due. In queste condizioni il dodecilbenzene non si può solfonare: si formerebbe acido solforico, diventerebbe tutto nero, eccetera; e, non potendo utilizzare questo carico, l’impianto rischia di fermarsi. Che fare? Si telefona subito al fornitore della materia prima, che arriva senza perder tempo.
 
Ricevo io la visita del fornitore, visto che è mattina presto (diamine, sono solo le otto e venticinque del mattino!) e il nostro capo non è ancora arrivato. Il fornitore si rivela una fornitrice, anzi una Dottoressa; viene da una grossa ditta petrolchimica, un colosso multinazionale che ha una sede non molto lontana da qui. Infatti, il dodecilbenzene è una frazione delle benzine, la più leggera; inutilizzabile come carburante ma piuttosto parente delle benzine avio che si usano per smacchiare i vestiti (no, la trielina è tutta un’altra cosa!).
Spiego quello che so alla Dottoressa: non è molto, e poi ieri io non c’ero, sto facendo il primo turno e quando è successo il fatto ero a casa mia; però i miei colleghi mi hanno dato le consegne in modo chiaro e completo, i campioni sono sul tavolo, mostro tutto ed espongo brevemente i fatti. Ho una lieta sorpresa: la Dottoressa è gentile, simpatica, tosta e competente. Si capisce subito che sa il fatto suo.
Ha un cognome siciliano, ed in effetti è un tipo mediterraneo, anche se non ha un accento particolare. E’ anche una bella donna, ora che la guardo meglio. Devo ammettere che mi piace, ed è anche piacevole parlarle insieme. Penso che mi sarebbe piaciuto averla come capo, e che non dev’essere male avere una donna come capo – ma a questo punto (si sa, i pensieri corrono veloci e ci vuole un attimo a fare tutta questa sequenza: a scriverla e a leggerla non si direbbe, ma è così che funziona) mi rendo conto che io una Dottoressa per capo ce l’ho già. Peccato solo che non sia una Dottoressa in Chimica, e che la sua competenza sia ancora tutta da costruire.

Dovrebbe arrivare a momenti, il mio Capo, ma non arriva. Così provo ad intavolare un discorso con la Dottoressa, che è tutt’altro che seccata del fatto. La cosa comincia a piacermi, ma a questo punto arriva il dottor Biribò, che di tempo da perdere non ne ha, e interrompe la mia conversazione. Del resto, io non ho più nulla da dirle – nulla di tecnico, intendo. Il dottor Biribò è gentilissimo e più che educato, anche in questi incresciosi frangenti: è la sua vera natura e ormai dovrei saperlo, ma ci si stupisce sempre di vederlo così gentile. In fabbrica non ci siamo abituati...
Dopo un quarto d’ora ecco  anche l’altra Dottoressa, il mio capo. Arriva trafelata e cerca di farsi spiegare, ma Biribò e la Dottoressa Vera ormai hanno già concluso il colloquio e preso le loro decisioni; e dunque l’impianto non si fermerà, perché è già in arrivo un’altra autobotte in attesa di decidere di cosa fare di questa.

giovedì 12 dicembre 2019

Metanolo


Avevamo lasciato l'HPLC in seria difficoltà, alle prese con il Cammello e con il Mostro di Loch Ness (qui). Sono passati mesi, la gloriosa colonnina da cromatografia ha ripreso a funzionare, sia pure un po' asmatica, e andiamo avanti lo stesso con le analisi, anche se con qualche apprensione. (qui per sapere cos'è la cromatografia).
Infine, approfittando di un colloquio fortunoso (nel senso del fortunale, di tempesta), col Direttore in persona, butto lì che così non si può più andare avanti. Il Direttore non vuole dirlo apertamente ma capisce, non apprezza che sia stato io a segnalare il problema ma comunque approva, e per risolvere il problema manda la Dottoressa (quella che non ha mai studiato chimica, ma è capo del Laboratorio), nelle nostre sedi all'estero: in Spagna, in Germania, alle Baleari. La Dottoressa ritorna dal viaggio con due colonnine diverse da quella che sta tirando gli ultimi ansiti della sua lunga vita. La differenza sta soprattutto in questo: che adesso bisognerà utilizzare non più l'alcool etilico, ma il suo fratello più piccolo, l'alcool metilico detto anche metanolo.

Il metanolo ha avuto un momento di triste notorietà nel nostro paese, alla metà degli anni '80: viticoltori disonesti lo usarono per produrre vino sottocosto, con risultati spaventosi. All'epoca conoscevo un enologo, che mi spiegò bene tutta la faccenda: ridotta ai minimi termini, è vero che si può in parte sostituire l'alcool etilico con il metanolo, nel vino: ma la parte deve essere ben piccola, e comunque è vietatissimo dalla legge. Il perché è chiaro fin dai primi anni di scuola, per un chimico: l'alcool metilico è molto velenoso. Bevendone, anche poco, si rischia la cecità; in quantitativi superiori provoca la morte, ed è comunque tossico anche per inalazione o per contatto prolungato. Insomma, quei viticoltori ne avevano aggiunto troppo: non erano soltanto criminali, ma anche molto sprovveduti.
Ora bisogna alimentare l'HPLC con l'alcool metilico, siamo dei bravi chimici e si può fare ma il problema è sempre quello: mancano le cappe. Si improvvisa in quattro e quattr'otto, togliendo un bagnomaria dalla vecchia cappa nell'altro locale (quello dove passiamo la gran parte delle nostre giornate lavorative) e ficcandoci sotto tutta la strumentazione corredata alla cromatografia in fase liquida. E cioè: due personal computer "massicci", con monitor a tubo catodico e grossi hardware; due rivelatori per l'HPLC; le relative pompe; 4 bottiglioni da due litri e mezzo (due per gli scarti e due per l'alimentazione) ; accessori vari. La cappa è strapiena e a malapena si può lavorare, ma mi tocca sentir dire che va bene così.

Il primo pensiero che sorge, in me e nel mio collega più pratico, riguarda la pompetta e i bottiglioni per l'alimentazione. Il mio collega prende la calcolatrice e fa due calcoli veloci: nel giro di un paio d'ore la pompetta svuoterà i bottiglioni, e quindi bisognerà stare sempre attenti. In più, bisognerà anche tenere d'occhio le bottiglie degli scarti, che si riempiranno alla stessa velocità: il rischio è che trabocchino spandendo metanolo dappertutto.
- Allora, - dice la Dottoressa, serissima e con la grinta delle grandi occasioni. - Adesso è tutto a posto. Lo strumento è sotto cappa, il metanolo è pericoloso e va tenuto sotto controllo perciò mi raccomando: USATE SEMPRE I GUANTI. Guai se non vi vedo usare i guanti!!! Capito?
Nessuno fiata.
- E poi, mi raccomando: la pompetta. Non fate andare a vuoto lo strumento, se no siamo daccapo; e poi la colonnina ha un'autonomia di circa duecento analisi, perciò mi raccomando ancora: fate attenzione!
Duecento analisi? Sì e no due giorni...
- Il metanolo di scarto va rigorosamente versato nella tanica degli scarti, e mandato a bruciare. Mi raccomando, ne va della nostra sicurezza, e chi non segue attentamente le istruzioni riceverà una lettera d'ammonizione, e seri provvedimenti disciplinari.
Dopo due ore, va via la corrente: in tutto lo stabilimento, e anche in laboratorio. La cappa si spegne, e con lei si spegne lo strumento. Chi glielo va a dire, alla Dottoressa e al Direttore che sta confabulando con lei?

PS: non solo tutto questo è successo veramente (sembra una scenetta comica, lo so: è anche per divertimento che pubblico queste cose), ma nel decennio successivo la Dottoressa in questione è diventata consulente per la sicurezza e va in giro a fare corsi in altre ditte, sempre insegnando la sicurezza in fabbrica. Confido sul fatto che nel frattempo qualcosa abbia imparato, speriamo.

martedì 10 dicembre 2019

Il grande gelo


Penso che a tutti sarà capitato di vedere un grande impianto chimico, magari in tv o passandogli accanto in autostrada. Ce ne sono di enormi, come le raffinerie petrolifere (quelle che fanno la benzina, per intenderci), grandi come paesi, dentro le quali ci si sposta con l'automobile o magari in bicicletta, e ce ne sono di meno grandi, come quella in cui ho lavorato io.
Grande o piccola, una fabbrica chimica è comunque sempre piena di tubi: tubi dappertutto, gli idraulici sono sempre i primi ad essere assunti, in un impianto chimico. I tubi collegano i serbatoi, la caldaia, e le macchine per il finissaggio, oltre che essere necessari per il carico e lo scarico dalle autobotti. Tubi su tubi, dunque, con dentro tante cose, tutte quelle che potete immaginare e anche qualcosa di più. Lavorando per un'industria di saponi e detersivi, come quella in cui ero io, nei tubi scorrono anche sostanze che di solito immaginiamo solide: la stearina, per esempio (quella delle candele), oli e grassi di varia origine, che necessitano del vapore per rimanere fluide e pompabili.

Quando sono arrivato io era ancora vivo il ricordo della grande nevicata del gennaio 1985: tre giorni di neve, molto fitta e senza interruzione, ventiquattro ore su ventiquattro. In Lombardia eravamo abituati alla neve, ma così tanta non l'aveva mai vista nessuno. Ogni tanto ci penso ancora adesso: a un certo punto non sai più dove metterla, ti guardi intorno con la pala in mano, nevica ancora, e ti chiedi come farai.
Di solito, in una ditta, si rimedia a questi problemi lasciando accesa la caldaia anche di notte e nelle festività; ma in quel dicembre 1984 la ditta che poi mi avrebbe assunto era appena subentrata, e aveva sottovalutato il problema. Forse non volevano pagare il festivo ai caldaisti, chissà: sta di fatto che sotto le feste non c'era nessuno in fabbrica, e il gelo calò su tutto lo stabilimento. Al ritorno in fabbrica, dopo l'Epifania, amara constatazione: tutto bloccato. La stearina e l'ocenolo sono solidi a 20°C, figuratevi cosa diventano a dieci sottozero. Luciano P., che mi ha raccontato questa storia, mi ha detto che fu necessaria una settimana per far ripartire la fabbrica; e, subito dopo, appena terminata l'operazione (vapore, vapore, vapore...) venne giù la nevicata di cui ancora oggi parliamo noi vecchi, quella del gennaio 1985, e fu necessario ricominciare da capo, stavolta con la pala e i muletti a far da ruspa: ma con un metro e oltre di neve, dappertutto, c'è poco da stare allegri.
Da allora, la caldaia rimane sempre accesa, anche di notte, anche a Natale e a Capodanno. Sbagliare una volta basta e avanza, insomma. Quanto a me, nel dicembre 1984 arrivavo a casa con i ghiaccioli attaccati ai peli dei baffi, da tanto che faceva freddo: come nelle spedizioni al Polo Nord, più o meno. Non mi è più successo da allora, e non mi era mai successo prima di trovare così freddo dalle nostre parti; dietro, c'era l'eruzione di un grande vulcano in America, se non ricordo male il Mount St.Helen, Washington State, dall'altra parte del mondo: le ceneri nell'atmosfera avevano prodotto il raffreddamento.

Ci penso spesso, a quell'inverno lontano, quando sento gli scettici sul cambiamento climatico e sul riscaldamento globale, e sull'ambiente in generale: non sappiamo di cosa è capace la Terra, anche chi ci è passato in mezzo il più delle volte fatica a capire, o magari non vuole capire affatto. Ma se Madre Natura volesse cancellarci via dalla faccia della Terra, potrebbe farlo da un giorno con l'altro. Magari anche a colpi di neve, e di gelo:
Some say the world will end in fire,
some say in ice.
From what I've tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if I have to perish twice,
I think I know enough of hate
to say that for destruction ice
is also great
and would suffice.
(Robert Frost, Fire and ice)

domenica 8 dicembre 2019

Settimana bianca


« Odio la neve » dice Roberta, e io rimango sorpreso perché so che pratica diversi sport, pallavolo e ginnastica artistica se non ricordo male (sono passati tanti anni). Lo dice in risposta a due o tre dei nostri compagni di classe, che stanno insistendo con tutti noi per la settimana bianca. A scuola, si sa, ci sono di queste occasioni: non ci sono solo le gite istruttive, c'è anche la possibilità di divertirsi in compagnia. Il problema, a scuola, è che per andarci serve un numero minimo di aderenti, e il numero minimo non c'era. Lo avevano chiesto anche a me: « E' un affare, conviene, una settimana bianca normale costa quasi il doppio! Dai, vieni anche tu! » Io avevo risposto che non avevo l'attrezzatura per andare a sciare, loro avevano insistito: gli sci si noleggiano, idem gli scarponi; e poi sulla neve puoi andare con i jeans. Sì, i jeans sulla neve... roba che se si bagnano poi servono due giorni per farli asciugare. Avrei dovuto spendere una montagna di soldi, partendo da zero, e tutto per fare un piacere a loro che già andavano a sciare con papà e mamma. Non sarei mai andato dai miei genitori a chiedere quella cifra, avevo solo quattordici o quindici anni ma stavo già attento a quello che succedeva in casa; sapevo bene che quella cifra, "un affare", equivaleva a metà busta paga di mio padre. E' stato probabilmente in quell'occasione che ho cominciato a percepire qualcosa che esisteva sottotraccia, in modo sottile: anche nei paesi meno grandi c'era una divisione tra famiglie "bene" e poveracci, e io stavo toccando quel limite. Si andava nella stessa scuola, ma poi la cosa finiva lì. Niente di che, s'intende: il figlio di un assicuratore, il figlio di un negoziante, queste cose qui. Ma loro potevano permettersi la spesa per la settimana bianca, io no.

Penso che qualcosa di simile sia passato anche per la testa di Roberta, figlia di un dipendente comunale e con l'aggravante di essere la prima della classe. Secchiona, quindi antipatica: ma a me non era antipatica, anzi era piacevole parlare con lei. Ripensandoci, forse Roberta sarebbe andata volentieri a fare la settimana bianca, ma scegliendosi meglio la compagnia: questi qua erano gli antenati dei paninari, e oggi starebbero con Casa Pound e Forza Nuova. Forse i loro figli e nipoti ci sono per davvero, in Casa Pound e Forza Nuova: all'epoca si insultavano chiamandosi "operaio", facevano già battute sui forni crematori e sui lager, dicevano "spastico" e "mongoloide". Insomma, erano all'avanguardia e di sicuro in questo duemilaventi si trovano benissimo. Inutile dire che da adulti se la sono passata bene, piacevano alle mamme, hanno sposato le ragazze più belle, hanno fatto mestieri dove non ci si sporcava le mani.

Andare a sciare costa. Non è come andare al mare, o in piscina; non è come giocare al pallone, e non è nemmeno come andavano a sciare i montanari di una volta, che usavano gli sci per spostarsi quando nevicava. Costano i vestiti, costano gli skypass, costa andare e venire dalla montagna. Per andare a fare una camminata, invece, basta un buon paio di scarpe; ed è quello che ho fatto io da adulto, qualche buona camminata in montagna ma senza mai toccare sci e scarponi. Lo so che è divertente sciare, non sto dicendo che sia sbagliato, ma io non ne ho più voluto sapere. Mi sono divertito molto con partite di tennis improvvisate con quel che c'era, con partite a pallone alla come viene viene, con la bicicletta, ma di settimane bianche non ho più voluto sentir parlare. Mi è costato qualcosa, lo so, ma preferisco essere così come sono, con tutti i miei difetti.

venerdì 6 dicembre 2019

Acqua e chef


Tra le pubblicità più noiose e antipatiche, quasi come le zanzare d'estate, metto quelle delle acque minerali. Però, fino a quando si limitano a dire "la mia acqua è buona" non mi sento di censurarle: in fin dei conti è questo il compito della pubblicità, e se hanno avuto l'ok del ministero (e dei NAS, siano sempre benedetti i NAS - nuclei antisofisticazione, i carabinieri - e chi collabora con loro) va tutto bene. Certe cose però sono vera e propria disinformazione, e questo andrebbe detto. Per esempio, quegli spot con lo chef che indica l'acqua adatta per quel cibo o per il pranzo, per di più con l'aria di chi la sa lunga. No, non esiste un'acqua più adatta. L'acqua non è il vino, requisito essenziale è infatti che sia inodore e insapore. C'è un dato importante nelle acque minerali, ed è la durezza (che può essere espressa anche alla voce "residuo fisso"); direi che è il solo dato importante perché tutto il resto, dalla mancanza di contaminazioni batteriche al pH, è un requisito di legge. Figuriamoci, se finisse sul mercato un'acqua contaminata o con il pH dell'aceto o delle saponette sarebbe uno scandalo. Detto questo, la durezza è un dato che bisogna saper maneggiare: non necessariamente un'acqua con pochi sali è migliore di un'altra, e lo stesso discorso vale per un'acqua con durezza maggiore. E, soprattutto, per mangiare vanno bene tutte le acque, sia quelle minerali che quelle del rubinetto. Insomma, lo chef vi sta dicendo una cretinata: è lì solo perché lo pagano, non perdete tempo ad ascoltarlo.
(Nel mio piccolo, delle acque minerali ho già parlato qui: penso che le informazioni siano sufficienti per cominciare a capirci qualcosa)

martedì 3 dicembre 2019

Belle di faccia


Mi ha sempre fatto impressione vedere nelle cronache della moda sfilare ragazze magrissime, al limite dell'anoressia, e quindi sono contento che oggi si cerchi di porre rimedio, facendo fotografie e sfilate anche con donne dall'aspetto più consono a quelle che incontriamo ogni giorno. Per questo motivo ascoltavo con simpatia due giovani donne, in tv, che raccontavano la loro esperienza di "non magre", compresi gli insulti sulle loro pagine in rete. A un certo punto, però, la mia simpatia comincia a diminuire: succede quando, nell'elenco delle persone che fanno commenti molesti, finiscono anche i medici che dicono di mettersi a dieta. Allora guardo meglio: le due ragazze non hanno soltanto qualche chilo in più, ma parecchi; e il medico ha fatto bene a dire loro di stare attente al peso. Fa parte dei doveri del medico: un bravo medico ti dirà sempre di non fumare, di stare attento al peso, e se hai dei tatuaggi un bravo dermatologo non può far altro che dirti che stai sbagliando, se non altro perché i melanomi esistono, e con un tatuaggio rischi di non vedere quando si formano. Anch'io sono sovrappeso, e anche a me il medico dice sempre di fare movimento, di mettermi a dieta: ha ragione, e so che lo dice nel mio interesse. Cos'altro dovrebbe fare, un medico?

Capita sempre più spesso: ascolti persone che raccontano la loro esperienza personale, e all'inizio si prova simpatia e si è d'accordo, però più vanno avanti a parlare e più nascono perplessità. C'è un punto in cui ci si dovrebbe fermare. Gli esempi sono molti, purtroppo: la stessa impressione mi è arrivata (non sempre, per fortuna) ascoltando parlare i mancini, i dislessici, le donne con il velo islamico, gli omosessuali, i vegani, gli afroamericani che prendono posizione contro Socrate e Johann Sebastian Bach rei di essere bianchi ed europei... Si comincia ad ascoltare con simpatia ed empatia, perché i problemi sono seri e sono reali, ma poi cominciano a dispiacere l'espressione di superiorità, l'espressione da furbi di chi la sa lunga, l'elenco di soprusi immaginari che da un certo punto in avanti finiscono per nascondere i veri soprusi. Questi "falsi problemi" occupano spazi informativi e pagine su pagine, ma dei veri problemi ormai ci siamo dimenticati da tempo. Se è vero che sono esistiti ed esistono mancini e dislessici dotati di genio, è altrettanto vero che essere mancini o dislessici non significa automaticamente essere geniali (magari fosse vero!) e che se esistono i vegani è anche perché in questo periodo storico e in questa parte del mondo abbiamo cibo in abbondanza e la pancia piena. E' difficile essere vegani quando si muore di fame o di sete, e quando sei in una zona di guerra sotto i bombardamenti gli altri problemi passano in secondo piano, e bisognerebbe pensare a questo quando ci si lamenta. Mi piacerebbe, per esempio, che le donne che vogliono mettere il velo islamico pensino almeno un attimo alle donne iraniane finite in carcere (o peggio) perché non lo vogliono mettere; mi piacerebbe tanto che ci si fermasse a un certo punto, Socrate e Bach sono due belle persone da conoscere indipendentemente da dove siamo nati e dal colore della nostra pelle. Poi, è ovvio, migliorare anche la nostra società di oggi è un dovere civile e morale; detto questo, mi rimetto in ascolto e lascio parlare chi ha qualcosa da dire.

PS: "Belle di faccia" è un libro pubblicato dalle due giovani donne (non mi sono segnato i loro nomi, mi spiace ma penso che sia comunque facilmente rintracciabile). E' una frase che ho detto molte volte anch'io, "ha un bel viso": non mi sembra un insulto. Quante volte lo hanno detto anche a me, "se solo mettessi giù qualche chilo"... E avevano ragione, e hanno ragione ancora oggi, purtroppo per me.

domenica 1 dicembre 2019

I batteristi del jazz


Mi capita di guardare un concerto jazz registrato all'inizio degli anni '60, il sestetto di Charlie Mingus. Mi sono fermato a guardarlo perché interessato dal nome importante (e famoso) ma poi scopro il batterista e non smetto più di guardarlo. Chi è, come si chiama? Alla fine, sui titoli di coda, ne trovo il nome, Danny Richmond, ma non mi dice molto. Danny Richmond non è tra i nomi leggendari del jazz, eppure è così bravo che non smetto di guardarlo e ascoltarlo. Oltretutto, sta suonando con Charlie Mingus, contrabbassista: una sezione ritmica, se non fosse per il fatto che Mingus era anche un solista.

I batteristi del jazz, anche i meno famosi, erano bravissimi e hanno influenzato fortemente anche i batteristi del rock, negli anni '60 e '70. Ci penso ogni volta che ascolto Robert Wyatt, Ginger Baker, i nomi sono tanti. Bassisti e batteristi, come Danny Thompson dei Pentangle (contrabbassista, come Mingus) o Jack Bruce e Hugh Hopper o Dave Holland, erano per noi appassionati di musica dei punti di riferimento alla pari o magari ancora più dei chitarristi e dei cantanti. Ricordo anche chi storceva il naso su Charlie Watts dei Rolling Stones, per tacere di Ringo Starr considerato pochissimo; ma ascoltandoli oggi Watts e Starr sembrano dei prodigi, con i tempi che corrono.
Per fare solo un piccolo esempio (ma internet è piena di questi esempi) metto qui il link a Robert Wyatt, ventunenne, nel primo disco dei Soft Machine.

Ripenso spesso a questi grandi batteristi e bassisti, alla loro capacità di cambiare ritmi e alla loro grande fantasia, quando si parla di rap e più in generale della musica che domina negli ultimi vent'anni, o forse anche di più - da quando esiste la batteria elettronica, intendo. L'altro giorno un rapper che va per la maggiore ha detto "c'è gente che ha dei problemi a capire il rap", ma io non ho problemi a capire il rap, anzi. Mi chiedo piuttosto, ascoltando i rapper, come si faccia ad accontentarsi di una cosa così banale che quasi non è musica. Il rap, e tutto quello che ne è seguito, è probabilmente un buon mezzo per esprimersi, ma è musica molto elementare; e i rappers non sono cantanti, ma declamatori in versi. Io sono cresciuto con questi grandi batteristi e bassisti, poi sono passato a Stravinskij (un cambio di ritmo a ogni battuta, o quasi), a Couperin, Rameau, Rossini, Weber, una lista infinita che comprende anche Johann Sebastian Bach e tutti i contrappuntisti; e mi sono sempre stupito quando ho trovato chi mi diceva che erano noiosi. Che dire, vien buono un detto che usano gli economisti: la moneta cattiva scaccia quella buona. Sembra un paradosso, ma spiega tante cose: si comincia con l'accontentarsi di poco, magari da bambini, e poi è difficile uscire da quel piccolo recinto. I miei migliori auguri a chi ci prova, basta solo un po' di costanza; oggi è più facile di quando ci sono riuscito io, abbiamo youtube e non c'è nemmeno bisogno di spendere soldi per i dischi.

venerdì 29 novembre 2019

La caldera


- In caso di incidente, - spiega per l'ennesima volta il Capo della Manutenzione alla squadra di sicurezza, nella consueta riunione del lunedì - il punto di ritrovo è qui, davanti alla caldaia.
- Ma se invece dovesse scoppiare la caldaia? - chiede Pierino il Polemico, sempre pronto a scattare.
- Ma perchè g'ha de s'ciupà propi la caldéra? - chiede il Caldaista, preoccupato e punto sul vivo.
La caldaia è fondamentale, in una fabbrica come si deve. Serve a produrre vapore, col quale si fanno tante cose essenziali, dalla sterilizzazione e pulitura delle macchine all'impedire che, d'inverno, gelino i prodotti nelle tubature; e serve anche per il riscaldamento dei locali, e via dicendo. E' ben difficile che scoppi una caldaia, perché non viene mai lasciata a se stessa; e tutti i caldaisti sono ben esperti e coscienziosi, oltre che dotati delle necessarie patenti.
E' bello vedere le persone che lavorano in fabbrica prendere parte alle misure di sicurezza, magari anche scherzando o contestando quello che dice il capo. E' il principio fondamentale di una delle leggi più importanti varate negli ultimi anni, la famosa legge 626, varata nei primi anni '90, che prevede la responsabilità dei lavoratori nella prevenzione degli infortuni ma anche la loro partecipazione attiva. E' una legge spesso disattesa, e messa gravemente in pericolo dalla precarietà del posto di lavoro, la famosa flessibilità oggi tanto di moda. Negli anni successivi sarebbe stata cambiata, oggi la 626 non esiste più, inglobata in altre norme di legge; ma gli incidenti sul lavoro continuano ad aumentare, e questo fa male. Ma questo è un discorso lungo e delicato, e mi fermo subito.
Però il Capo della Manutenzione prese sul serio quel piccolo suggerimento, non subito (ci mise un bel po' di tempo, anni) e oggi la squadra di sicurezza ha un suo punto di ritrovo in un posto della fabbrica più tranquillo, con tanto di box e di armadietti dove riporre le attrezzature personali; ed anche questa è una bella cosa da sapere.

mercoledì 27 novembre 2019

Amore e Speranza


Nel dipinto di Sidney Meteyard, la Speranza consola Amore, che è legato. Entrambi sono seduti; Amore è un giovane sui vent'anni, è seminudo, gambe e mani legate con nastri di seta, la faretra abbandonata nell'angolo di sinistra. Speranza è una giovane donna dal volto severo, vestita di una lunga tunica verde, con un mantello dorato, che tiene una mano sulla spalla del ragazzo. Sullo sfondo c'è un paesaggio, ma guardando bene il paesaggio si nota qualcosa che a prima vista era sfuggito: le ali di Cupido sono enormi. Non è una quinta o un fondale: sono le ali di Amore, enormi, che fanno da sfondo. Ali possenti, ma Amore è legato e anche Speranza sembra rassegnata.
 
 
(Sidney Meteyard, 1901)

Questo è quello che posso dire a una semplice lettura del quadro così come appare in fotografia; di più non posso fare, se non mettere qualche nota biografica sull'autore. Sidney Meteyard, 1868-1947, inglese di Birmingham, fu influenzato da Edward Burne Jones e da William Morris; ci ha lasciato tra le altre cose un ciclo di dipinti per "The Golden Legend" dell'americano Henry Wadsworth Longfellow (autore di "Hiawatha" e di una traduzione Divina Commedia). Meteyard è uno degli ultimi preraffaelliti, il movimento stava per terminare con l'inizio del Novecento - e con l'arrivo di una devastante guerra mondiale, verrebbe da aggiungere.

sabato 23 novembre 2019

Disperso in Russia


Mio zio,  fratello maggiore di mio padre, faceva parte dell'Armir e non è più tornato a casa. "Disperso in Russia": quante volte l'ho sentito dire, era un destino comune a molti dei nati nei primi due decenni del Novecento. Come mio zio, appunto, che essendo nato nel 1909 in quella guerra era quindi uno dei "vecchi". Soldato semplice, sia ben chiaro; con due figli piccoli a carico, e già con la guerra in Libia sulle spalle. La spedizione in Russia era per noi una guerra persa in partenza, e i tedeschi non ci avevano nemmeno chiesto di parteciparvi; ma che fare. "Soffriva tanto il freddo", diceva mia nonna (sua madre) quando se ne parlava in casa.
In casa si era fantasticato a lungo su cosa poteva essergli successo. Mio padre, il fratello minore, ogni tanto se lo chiedeva; risposte non ne sono mai venute, nemmeno dopo il 1989. C'erano racconti che facevano sperare, un film come "I girasoli" di Vittorio De Sica, poi - quando mio padre non c'era più - cominciano a vedersi le badanti ucraine... No, mai nessuna notizia. Si commentava: dall'Unione Sovietica non esce mai niente; ma ormai l'URSS non esiste più, e sono passati altri trent'anni ma il silenzio perdura. Sono stati recuperati i resti di alcuni, ed è probabile che altri ne vengano trovati; ma di molti, tanti, manca ogni notizia; di tanti, non solo di mio zio. Poi, in tv, trovo un servizio molto ben documentato, e capisco. Dev'essere andata proprio così, anche per mio zio.

Seicentomila volte no, La deportazione dell'esercito italiano
(da un documentario Rai 1973 di Sergio Valentini, consulente il tenente degli alpini Vittorio Emanuele Giuntella - che si vede e si ascolta in prima persona nel documentario)
...fronte Armir. L'operazione Asse, già pronta subito dopo l'armistizio, prevede cattura e deportazione dell'esercito italiano, dalla Francia alla Bielorussia, fino al Baltico e all'Egeo. Sono ottanta divisioni, un milione e mezzo di uomini, metà dei quali fuori dai confini italiani. I soldati italiani vengono colti di sorpresa, anche perché ricevono ordini contraddittori.
Martin Bormann, 28.9.1943, emana un foglio d'ordine segreto (siglato Geheim)dove ordina e specifica il trattamento per i soldati italiani; al paragrafo 3 si ordina che per tutti quelli che hanno opposto "resistenza attiva e passiva" sia previsto questo, deportazione per sottufficiali e truppa, fucilazione immediata per gli ufficiali. I soldati italiani vengono quindi arrestati e deportati a Treblinka, il paragrafo 3 viene applicato con assoluto rigore.
Il lager di Treblinka funzionò fino alla fine del settembre 1943, l'ultimo treno che vi arrivò fu appunto quello dei soldati italiani, "il treno degli italiani", tutti da liquidare. Gli ufficiali vengono subito fucilati, i loro corpi bruciati e le ceneri disperse.
Il centro di raccolta per l'Armir era a Leopoli, dove c'erano duemila soldati italiani al momento dell'armistizio. Di tutto il fronte russo, trentamila finiscono a Witzendorf, che sarà il centro principale; gli altri vengono dispersi in vari lager. I soldati e gli ufficiali subiscono la stessa sorte di ebrei, zingari, omosessuali: arrivano nei vagoni piombati, i morti e gli uccisi verranno bruciati nei forni crematori, di loro non c'è più traccia. Jacek Wilczur ha raccontato la storia di questi soldati italiani in due libri.
Per i sopravvissuti c'è la possibilità di tornare a combattere con la RSI, ma solo l'uno per cento aderirà (uno per cento). Per gli altri c'è il lavoro forzato, e la "morte a dosi": il vitto viene ridotto di giorno in giorno, fino a ridursi a niente. A Buchenwald cinquemila soldati vengono impiegati per costruire le V2; le impiccagioni sono quotidiane, così come le torture.
I soldati italiani vengono definiti "internati" e non prigionieri di guerra: è un ordine di Bormann, che pone i prigionieri fuori dagli aiuti della CRI. Questo è possibile anche per via della confusione che regnava in quel momento: il re era a Brindisi, la RSI non era riconosciuta da nessuno.
Stalag 333 a Beniaminovo, Lager 308 in Bassa Sassonia (Pollen?), nel documentario vediamo e ascoltiamo testimoni oculari polacchi che mostrano i luoghi delle fucilazioni, le fosse comuni dalle quali nel dopoguerra furono recuperati i corpi degli ufficiali fucilati, resi irriconoscibili.
Aprile 1944, incontro fra Mussolini e Hitler (reduce da un attentato); il duce dice a Hitler di tenere in Germania i prigionieri; dopo tre mesi un altro colloquio, cui segue un documento (agli atti, viene mostrato nel doc.) in cui Mussolini spiega che è meglio tenere in Germania i soldati italiani, perché le loro condizioni sono così disperate che se i loro familiari li vedessero nascerebbero molti problemi (i tedeschi insistevano nel rimandarli a casa, perché la Germania aveva enormi problemi per dar loro da mangiare, non avendo cibo a sufficienza nemmeno per i civili tedeschi). Questa notizia viene data in maniera estremamente positiva sul giornale "La voce della libertà", ed è presentato come un accordo per i lavoratori italiani spediti in Germania, il titolone è "Il problema degli IMI è risolto!" (internati militari italiani), con molte foto di soldati sorridenti e in buona salute.
(da un documentario Rai 1973 di Sergio Valentini, consulente il tenente degli alpini Vittorio Emanuele Giuntella - che si vede  e si ascolta in prima persona nel documentario)

Queste notizie, così come quelle sui gas e le torture fasciste in Libia e in Etiopia ed Eritrea, non circolano. Il documentario Rai è del 1973, quarantasei anni fa, quindi si tratta di cose ben note agli storici; eppure dei soldati dell'Armir mandati a Treblinka non si parla mai. Una vera e propria censura, e si capisce fin troppo bene a chi serve tacere e non far conoscere.
Si sa da tempo che altri soldati italiani finirono nei campi di concentramento dell'Unione Sovietica, ma sui gulag c'è già tanto materiale: perché su quello che ho riportato sopra invece c'è un silenzio assoluto? Un milione e mezzo di soldati italiani sono finiti nei lager nazisti, e con l'accordo dei dirigenti fascisti: un milione e mezzo mi sembra un numero impressionante, e per questo il silenzio è ancora più impressionante.

mercoledì 20 novembre 2019

Questione di target

"No alla violenza sulle donne", dice il manifesto appeso davanti alla biblioteca, per una conferenza con dibattito. E' la quinta o sesta volta che passo di qui, il messaggio è più che chiaro: ma perché vengono a dirlo a me? Io non ho mai picchiato nessuno, né maschi né femmine, e spero di poter continuare così la mia vita. Anche in tv, finisco sempre sui programmi che parlano di violenza sulle donne: sono più che informato, ma perché vengono a dirlo a me?
Vi sembrerà una stupidaggine, invece siamo davanti a un clamoroso errore di comunicazione. Hanno sbagliato il target, direbbero i pubblicitari. I veri violenti non leggeranno mai questi poster, non guarderanno mai quelle trasmissioni, e quanto ad andare a quella conferenza pubblicizzata dal manifesto davanti alla biblioteca, figuriamoci. Se proprio uno di loro volesse andarci, sarebbe per farsi quattro risate.
Intendiamoci, è un problema serio. Che fare? La stessa cosa succede con chi irride i lager nazisti, con chi esalta il fascismo, con il bullismo... L'ultima uscita in ordine di tempo, quella spaventosa del sindaco di centrodestra che definisce "di parte" l'informazione su Auschwitz, parla purtroppo molto chiaro. Come è stato possibile arrivare fino a questo punto?

Pongo il problema perché mi sembra che si stia sbagliando, e tanto. Ci troviamo sempre tra di noi, sempre gli stessi e già più che informati, a dirci quanto è brutto e quanto è necessario intervenire, ma poi i "femminicidi" aumentano, idem le stragi in famiglia, idem le esaltazioni del fascismo e le irrisioni su Auschwitz. Penso a queste cose anche quando leggo gli interventi di Moni Ovadia, come l'ultimo sulle minacce e sulle ironie verso Liliana Segre: a un certo punto segue una dotta spiegazione sull'attuale governo di Israele, con i necessari distinguo, e vorrei tanto dire a Moni Ovadia (da lui ho imparato tanto, fin dai tempi del Gruppo Folk Internazionale; ho i suoi dischi e i suoi dvd) che sta sbagliando bersaglio anche lui, perché è inutile sensibilizzare chi è già sensibilizzato. L'attuale risorgere dell'antisemitismo e del nazifascismo nasce prima di tutto negli stadi del calcio, tra gli ultras: è con quella gente lì che bisogna confrontarsi, e non è facile. Io ho un ricordo nitido, purtroppo molto nitido, di battute e sarcasmi ascoltati negli ultimi quarant'anni, già a scuola, e poi sul lavoro; nel mio piccolo ho cercato di rispondere, di informare, ma l'ignoranza è una brutta bestia e con chi fa sarcasmi sulle ragazzine di tredici anni rapite e seviziate (come Anna Frank, come Liliana Segre) i dibattiti e i distinguo non servono. Possono essere utili ragionandone tra di noi, ma - appunto - siamo sempre qui a parlarne tra di noi, loro se ne fregano (citazione storica, ahimè) e pensano anche di essere furbi. E anche Michele Serra, che prende fiera posizione sui pagamenti senza contante, dimentica sempre di ricordare che con trecento o cinquecento euro al mese è dura tenere aperto un conto corrente; e su queste cose la destra specula e non poco, con le conseguenze che vediamo quando si va a votare.
 
E' un discorso complicato, lo so, e francamente non sono io quello che può salvare il mondo; ma le cure sbagliate, e le diagnosi sbagliate, non curano le malattie. Anche adesso, pochi minuti fa, ho sentito dire in tv (ed è l'ennesima volta) che la colpa di tutto è dei maschi, che i maschi sono violenti per natura, che qui sta il male. Mah. Io sono un maschio, per di più grande e grosso, ma non ho mai picchiato nessuno; e se volete vi porto un centinaio di esempi di maschi come me che non hanno mai picchiato nessuno, o di matrimoni felici che durano da quarant'anni e anche più. In compenso, sta aumentando il bullismo tra le ragazze. Mala tempora currunt, ma noi stiamo qui a contarcela tra di noi, ci innamoriamo di soluzioni semplicistiche, e anche questa è una forma di pigrizia mentale.

AGGIORNAMENTO al 3 dicembre 2019: adesso salta fuori anche il negazionista (professore universitario di diritto, pensa un po') che si appella alla libertà di pensiero per poter elogiare il nazismo; le risposte che leggo e ascolto sono poco adatte ai tempi che viviamo. Una risposta chiara e semplice è questa: dunque in un dibattito sulla pedofilia questo signore metterebbe un pedofilo di qua e le sue vittime di là, in nome della libertà di pensiero? E in un dibattito sui ladri in casa metterebbe un ladro di qua e un derubato di là, sempre in nome della libertà di pensiero?
Viviamo in tempi in cui la gente è distratta e smemorata, mai dimenticarselo quando si risponde: soprattutto se scrivi su Repubblica, sul Corriere, o se parli in tv.

lunedì 18 novembre 2019

Ingres e Degas

 
Come tutte le mattine, arriva il caldaista in laboratorio: deve fare le analisi sulle acque di caldaia, il pH e la conducibilità. Il caldaista cambia a seconda del turno, le analisi no: dalla caldaia dipende anche il demineralizzatore, e per esempio la misura della conducibilità dà un'idea della durezza dell'acqua, cioè del contenuto di sali. Più sali (cioè il comune calcare) ci sono nell'acqua, e maggiore sarà la conducibilità. L'acqua distillata non conduce elettricità, difatti; e l'acqua demineralizzata, se il lavoro è ben fatto, è praticamente la stessa cosa.
Il caldaista ha con sè due vasetti, tipo quelli della marmellata o dei sottaceti, con i suoi campioni d'acqua da analizzare. Sul coperchio bianco ci sono delle scritte col pennarello: ingres e degas. Io lo so cosa significano: sono le abbreviazioni di ingresso e degaso. O, meglio, è quello che si può scrivere, delle due parole, sul coperchio del vasetto (il resto non ci stava) ; ma ogni volta che mi capita di leggerlo la tentazione è troppo forte.
- Ma tu lo sai chi erano Ingres e Degas? - chiedo al caldaista.
- Ah, non so niente, non mi interessano queste cose qui. Non l'ho mica scritto io, li ho trovati così, i vasetti. Piuttosto, queste analisi qui dovrebbe farle il laboratorio, mica noi che non siamo mica periti chimici. Va bene quel valore qui? Sei sicuro che funziona bene questo strumento?
Peccato non aver sottomano un libro di storia dell'arte. Sono sicuro che al caldaista brontolone farebbe piacere dare un'occhiata ai dipinti dei due pittori francesi; probabilmente ammirerebbe Jean Auguste Dominique Ingres (1780-1867), e di sicuro gli piacerebbero le ballerine di Edgar Degas (1834-1917). Il libro dovrò portarmelo da casa, e mi riprometto di farlo, prima o poi.
 
 
 

sabato 16 novembre 2019

Il refuso germoglia ( IX )


Esistono, nel parlato e sempre più nello scritto, neologismi anche in inglese; molti di loro vengono anche scritti, e mettono in seria difficoltà gli strumenti di correzione ortografica. Io mi sono segnato agrire (to agree) e setappare (to set up). I refusi esistono però in tutte le lingue: I might be ear the end, cantava (forse) Enya.
E questo forse non è spagnolo, ma le istruzioni & metodi per perdere pesos sono geniali. Peccato che i pesos non ci siano più, in Espagna...

Altri refusi, tutti miei personali: lasciare i buoi nel buio, trasformare persone in pesone, eseguire un allineameno (cioè un allineamento, ma non troppo), accendere il fuco nel camino (chissà cosa ne pensano le altre api), magari svegliarsi di notte dopo un osgno, che forse non è un incubo ma come sogno non dev'essere un granché. E il brindisi dall'Amleto di Ambroise Thomas: ovin, discaccia la tristezza, (disse Amleto alla pecora...)
... e tutto il mio repertorio
di cose che non so
di cose che non uso
di cose che non oso
di use che non coso
di cose che non coso
da cosa nasce cosa
da coso nasce coso
che noia oh Dio che noia
domani ormai mi sposo
per ora mi riposo
da sposa nasce sposo...

Personalmente trovo molto fastidioso, anche se non è propriamente un errore, quando tu scrivi se no e invece ti esce se non . Ma queste cose le segnala sempre il correttore ortografico di word, insieme a tante altre amenità o suggerimenti inaspettati. Per esempio (esmepio?) scrivo dei versi della mia Arca di Noè, ed ecco che io scrivo topini, e il correttore ortografico suggerisce t'opini.
Ammetto che è un bel colpo di fortuna, e che io non ci sarei mai arrivato, da solo. Ne capitano di cose, a scrivere e batter testi... Quasi meglio che leggere un romanzo o andare a vedere un film, soprattutto con i tempi che corrono che di libri e film veramente belli ce ne sono sempre meno. Negli errori di battitura c'è, sicuramente, più suspence, e spero umilmente di avervi divertito con questi miei pochi mezzi.


Mi son portato qui una fisarmonica
che è fatta tutta delle mie avventure;
dalle fessure fuoriesce musica
ma anche le bellezze e le lordure
che ho seminato e che vi espongo impavido
sol per il gusto di narrare mie sventure.
Ed è una musica che scorre e che par pura,
e invece io vi compaio come un méndico
che non si sa cercar né se ne cura;
che invano chiede e risposta non attende
che ascolta e parla ma risposta non intende
che s'alza e corre e ama e non intende
e che il richiamo di Amore non intende -
è tempo, orsù, di andare e di levar le tende...


 


(continua)

giovedì 14 novembre 2019

Il refuso germoglia ( VIII )


Battendo un testo l'anagramma è sempre in agguato; e gli appassionati di enigmistica sapranno battezzare meglio di me gli eventi che seguono, forse dei neologismi ai quali provo a dare spiegazione plausibile:
riffare (rifare le estrazioni del lotto?); opeari (operai negli alveari?); diceci (invece di dieci) ; peperonauta (colui che attraversa una notte travagliata, tra incubi al bicarbonato, si direbbe ); Stati Unti (letto su un quotidiano...); pornostico (no comment).
Il chimico può facilmente vedersi confondere il ciclamino con la ciclammina, o magari il glucomannano con il lupomannaro; uno scrittore potrebbe trovarsi a scrivere dell'uomo invivibile (sarebbe un bel soggetto), oppure diventare un drammaturco (tragediografo bizantino?), oppure scrivere un romanzo uomoristico (umanista e umoristico). E, se fosse uno scrittore di gialli, trarre profitto da qualcuno che muore dal rudere.
Invece, ggrapparsi dà proprio l'idea di essere appesi ad un precipizio; ma chi mai cercherebbe asilo e protezione in un rifguio? E sarà lecito a uno scrittore di favole trasformare Tonino in un Tonno?
Trovo infine decisamente poetico lo scambio sognifica/significa (la o e la i sono vicinissime, sulla tastiera); ma sarebbe bello anche gaudagnare, cioè guadagnare con gaudio.


Storiche ostriche
tristi e stoiche
s'immolan tragiche
fra i nostri asparagi;
mancan le perle,
ma fra gli asparagi
forse un po' stonano
perfin le parole.
Io sto in disparte
osservo e medito
non amo asparagi
ma assaggio provole
non amo ostriche
ma ho amiche storiche
cui non dispiacciono
vongole amabili
giù nello stomaco.


Un'altra bella sagoma è lo scanner. Avete mai combattuto contro uno scanner, o meglio contro il suo software, incorporeo, assurdo, servizievole ma dispettoso? Basta poco, un puntino sulla carta di giornale, una carta un po’ ingiallita, un carattere tipografico particolare, per introdurre cambiamenti epocali, belli o raccapriccianti.
Per esempio, dopo aver cercato a lungo un libro con tutti i testi dei madrigali di Monteverdi, mi sono infine rassegnato a copiarli con lo scanner dai libriccini allegati ai cd. I caratteri di stampa però sono piccolissimi, e in questo caso il software ha dunque tutte le sue buone ragioni se "Ah dolente partita" mi diventa prima AH, DOLEN'E pZh'lu! e poi AH, d.leme p t. ; e se l'idol mio diventa L'idol inio (tra Metastasio e Guerre stellari...).

Ho portato sul computer qualche altro articolo (non molti), ed ecco una piccola antologia di cose che non avrei mai pensato d’incontrare: ariagrammi (anagrammi); crifico (critico) ; trainato (tramato); pretonde (pretende); orinai (ormai) ; semanfico, matemafico, ricombiriate (ricombinate); pennutazioni (permutazioni); squafiore (squallore) ; inondo (mondo) ; interiorniente; bicerto (incerto) e infine, parlando di un filosofo, apprendo che il suo maestro è raclito.

Ah, dolente partita!
Ah, fin de la mia vita!
Da te parto e non moro?
E pur i' provo
La pena de la morte,
E sento nel partire
Un vivace morire,
Che dá vita al dolore
Per far che moia immortalmente il core.
Guarini: "Il pastor fido 111, 3
(Claudio Monteverdi, Quarto Libro dei Madrigali)



(continua)


martedì 12 novembre 2019

Il refuso germoglia ( VII )


Sono qui, un po' imbarazzato, a contemplare me steso. Infatti, mi è appena arrivata una e-mail: come puoi vedere da te steso...
Beh, pazienza. Cosa ci posso fare, capita. Avrei preferito un me esteso, ma forse era chiedere troppo. Mi rialzo e tiro giù un po' di polvere dai vestiti, poi si vedrà. Tutto questo dà da pensare, bisognerebbe evitare gli errori ma prima o poi ci si casca dentro. E' inevitabile, stante la nostra natura umana e fallibile.
 
A volte i nostri errori sono leggeri e svaniscono subito, altre volte lasciano lividi e ammaccature, altre volte ancora lasciano ferite che fanno male. E quasi mai impariamo dai nostri errori, che pure avrebbero molto da insegnarci.

SOFFERENSA
Soffro di sofferenza
mista a riconoscenza
io non so farne senza
ma se potessi appena...
Soffro per la tua assenza
cerco la tua presenza
io non so farne senza
e quasi quasi vengo
vengo a trovare te.

Molti errori avvengono in togliere: basta poco per trasformare un'autopista in un'utopista, magari con la testa fra le nuvole; bisogna invece aggiungere qualcosa in altri casi. Una C, per esempio, può trasformare un aquilone in un acquilone, e il drago di carta non s'apparenta più all'aquila che vola ma all'acqua che scorre. Gli errori sono come le erbacce nel nostro giardino: alcune infestano e basta, altre è un peccato strapparle.
Per esempio, Esmepio: Esmepio, chi era costui? Vi giuro che arrivarci non è stato facile: ancora non so come ho fatto, ci ho riprovato sei o sette volte, anche a occhi chiusi, giocando sulla tastiera del pc ma senza più riuscire ad evocare lo spettro di questo misterioso filosofo d'un altro mondo, mondo di ombre erranti. Infatti, Esmepio non è un antico greco seguace di Esculapio, e neanche uno dei dialoghi socratici; e se scrivo "Per Esmepio!" non si tratta di un'imprecazione ma di un peresempio qualsiasi, anch'esso corrotto (corretto?) e deformato dall'errore. Ma basta con la filosofia, se no si diventa noiosi.

Felicemente
con l'alacre mente
pondero;
infine penso
ma senza insistere
che sono un bischero
fatto di sughero
e mi sollucchero
con versi insipidi.
Ahimè insensibili
versi invisibili
poco solubili
fatti di zucchero
e tante lacrime.


(continua)

domenica 10 novembre 2019

Ufficio complicazione affari semplici

Come si fa per conoscere la quantità di sostanza attiva presente in uno shampoo? Quella che lava e che fa schiuma, intendo. Il metodo ufficiale prevede questa procedura: si mette una quantità pesata di detergente in un cilindro, si aggiungono un po' di cloroformio e l'apposito indicatore, e poi (goccia a goccia, o quasi) il reagente. Si sbatte il tutto, si aspetta un attimo che il cloroformio si separi (sul fondo, il cloroformio ha un peso specifico superiore a quello dell'acqua) e se ne osserva il colore. Il cambiamento di colore, dovuto all'indicatore, indica la fine dell'analisi; si mettono i dati in una formula (quantità di reagente, quantità di detergente pesato, eccetera) e si ottiene il dato cercato - il cosiddetto "metodo Epton". Questo succedeva prima dell'avvento degli elettrodi per titolazione, non molto tempo fa; immagino che il metodo con il dimidio bromuro (è il nome dell'indicatore, in miscela con disulphine blau se non ricordo male) si usi ancora in qualche laboratorio, ed è molto bello conoscerlo ma se si riesce a fare a meno del cloroformio è tutta salute guadagnata.

Lavorando in un'industria che produce detergenti, e che ha un impianto di notevoli dimensioni, essere veloci e precisi è importanti. Con un po' di esperienza, gli analisti diventano veloci e precisi; ma ormai dappertutto usano gli elettrodi per titolazione, e anche per noi è meglio adeguarsi. Il Direttore di Fabbrica decide quindi di partire con l'elettrodo invece del dimidio bromuro, e si fa la necessaria sperimentazione a parte. La Dottoressa, capo del laboratorio, è entusiasta (però lei non c'è mai, in laboratorio); io esprimo sottovoce le mie preoccupazioni all'amico Pierluigi, che ha condotto le prove con l'elettrodo. Le mie perplessità sono queste: l'elettrodo ha bisogno di manutenzione continua, va controllato e sistemato quasi ad ogni analisi. Sempre sottovoce, Pierluigi conferma: siamo vecchi del mestiere e conosciamo bene i nostri colleghi, c'è il volonteroso che fa pasticci, c'è Enzo che teorizza apertamente che dobbiamo avere una persona apposta per riempire le bottiglie dei reagenti... Mamma mia, tempeste in arrivo.

Si parte, e subito i conti non tornano. Il Dottor Biribò (direttore di produzione da moltissimi anni) non si fida e chiede che si faccia tutto "in doppio", cioè sia con l'indicatore che con l'elettrodo: ma proprio tutto, analisi d'impianto, analisi sui prodotti finiti, tutto. Siamo ormai sull'orlo del burrone, la confusione e la frenesia cominciano a regnare; a questo punto arriva anche il dottor Donato, alto dirigente delle Vendite; dice che i clienti (anzi, i Clienti) si lamentano e minacciano di troncare ogni rapporto con noi e ordina (intima) che si trascrivano tutti i dati di tutte le titolazioni, cc consumati, pesate, moltiplicazioni, tutto. Dato che le macchinette salvano i dati sulla scheda interna, oppure su foglio tipo scontrino del supermarket, bisogna per forza di cose ricopiare tutto a mano sui quadernetti. Dati che, si può già immaginare, non controllerà mai nessuno: ma così si comincia a fare. Poi Biribò non si fida ancora (è diffidente per natura), fa rifare ancora tutte le analisi e tutte in doppio; gli elettrodi del titrino vanno in tilt definitivamente o quasi. Come previsto, i nostri colleghi non hanno fatto manutenzione. Stavolta hanno delle giustificazioni, ma del resto c'è chi non fa mai manutenzione: anche le bilance analitiche sono messe male, piene di liquido, sporche, non si capisce come facciano a funzionare. Quanto al bancone, meglio avvicinarsi con tutte le cautele: chissà cosa potrebbero essere quelle patacche e quelle montagnette di roba abbandonata. "Non spetta a me" dice da sempre Enzo su domanda precisa, più volte nel corso degli anni.

In tutto questo casino, che va avanti per mesi, la nostra Dottoressa (in teoria responsabile del laboratorio) quasi sparisce: passa in secondo, terzo, quarto piano. Comanda il primo che passa (Biribò, Donato, il Direttore, chiunque). Gli elettrodi sono sottoposti a stress continuo, troppe analisi; la verità è che servirebbero più elettrodi, e soprattutto servirebbe un controllo già in impianto (cosa che farà, da subito, la Ditta che acquisterà il nostro stabilimento: ma solo qualche anno dopo). So che Pierluigi (sempre sottovoce) mi dà ragione, ma non serve a niente e si va avanti così, a rifare le stesse analisi fino a dieci volte, a trascrivere su foglietti e foglietti i calcoli delle analisi che poi nessuno va a leggere. Una follia. Biribò furente, Donato è serissimo e incazzato, la Dottoressa è messa in disparte, il Direttore è in Germania o forse in Spagna, l'impianto di solfatazione va avanti a vista, praticamente senza avere i dati perché non si riesce mai ad avere un dato di cui si fidino i capi. Adesso portano campioni su campioni, ogni mezz'ora o venti minuti, ed è una follia totale: abbiamo due soli elettrodi con il titrino, due sole burette, due soli analisti per turno e c'è da guardare anche tutto il resto della fabbrica. Campioni su campioni, trascrivere tutto, firmare tutto, e intanto fare anche tutto il resto, gli altri reparti, il magazzino, le autobotti in entrata e in uscita...
(i miei ultimi mesi in laboratorio, anno 2003) (mesi, non giorni o settimane)

In seguito, la ditta verrà rilevata da un'altra multinazionale e le analisi si faranno direttamente nei reparti, come era giusto che si facesse fin da subito. Biribò, messo in pensione dai nuovi dirigenti, non ha mai capito che la struttura "familiare" in cui aveva cominciato a lavorare, in cui tutto deve passare dal laboratorio, non aveva più senso da quando era arrivato il nuovo e potente impianto di solfatazione, e si era triplicata o quadruplicata la produzione oraria. Era molto facile accorgersene, ma io non potevo dirlo apertamente in consiglio di fabbrica quando si discuteva sugli inquadramenti e si dicevano cose del tipo "voi siete operai e agite su indicazioni scritte" (ma le indicazioni scritte non c'erano...) perché andava contro i miei interessi, e anche contro gli interessi degli altri lavoratori nei reparti. Era tutto molto evidente, ma ovviamente la colpa andava data agli analisti infingardi. Così va, o meglio così andava - oggi non so, non lavoro più lì da tanto di quel tempo.

PS: la mia classifica personale, in ordine di stupidità, vede al primo posto il dottor Donato (trascrivere tutto??? a mano, con la biro??? ma quando mai, forse nei laboratori di ricerca...) e all'ultimo il dottor Biribò, povera anima, che trova tutte le mia comprensione anche se non la mia simpatia (per quel che conta, cioè zero). Nel mezzo, ma non saprei dire in quale posto, il Direttore di Fabbrica che non ha saputo o potuto scegliere un capo di laboratorio degno di questo nome. Quanto alla Dottoressa, mi spiace dirlo perché io avevo fatto il tifo per lei ed ero contento, agli inizi, di avere una donna come capo, ma devo dichiararla non pervenuta. Impossibile dare un voto a chi non c'è.

giovedì 7 novembre 2019

Il razzismo negli stadi


La questione del razzismo negli stadi torna periodicamente, e con molta frequenza. Le domande da porsi sono molte, la questione si trascina da tanto di quel tempo che finisce per sembrare irrisolvibile; per provare a fare un po' di ordine prendo le dichiarazioni del capo degli ultras del Verona, apparse in questi giorni sulla stampa.

La prima cosa che mi ha colpito è l'appartenenza di questo capo ultras a Forza Nuova: se non ho capito male, un dirigente di Forza Nuova. Non è una novità, praticamente tutti gli ultras sono di estrema destra, e spesso confondono il tifo per una squadra di calcio con un'organizzazione paramilitare. Questo è il primo punto di cui si dovrebbe discutere, cioè come sia stato possibile che organizzazioni dichiaratamente nazifasciste e dichiaratamente razziste abbiano potuto prosperare in tutti questi anni (venti, forse trent'anni di propaganda senza che si sia cercato seriamente di fermarli).

Il secondo punto è la parola "negro": qui il capo ultras ha ragione, è una parola italiana e di per sè non va considerata offensiva. Negro viene dal latino, niger, nigra...in quasi tutti i dialetti italiani parole molto simili a "negro" equivalgono a "nero". In spagnolo, "negro" è proprio la parola che si usa per definire il colore nero. Su questo punto si potrebbe sorvolare ed evitare di fare polemiche che fanno perdere tempo, tanto più che perfino Martin Luther King usa spesso le parole "Negro people" nei suoi discorsi, e Leopold Senghor usò la parola "Négritude" (Negritudine) con orgoglio. Ma so già che è una battaglia persa, la parola "negro" resterà come un'arma nelle mani dei razzisti quando invece potrebbe essere smontata facilmente con un sorriso.

Il terzo punto riguarda la presenza di calciatori dalla pelle scura in tutte le squadre di calcio, a tutti i livelli. Quando il capo ultras del Verona fa notare che anche nella sua squadra ci sono dei "negri", dice una cosa ovvia e andrebbe ascoltato. E' dunque razzismo quello che c'è negli stadi? Io direi che è qualcosa di peggio, è pura e semplice stupidità, una stupidità colossale. L'idea dei cori razzisti nasce dal pensiero di mettere in difficoltà i calciatori avversari: e per far questo ogni cosa va bene. Se si viene a sapere che a un calciatore della squadra avversaria è morta la madre, si fanno cori contro la madre di questo calciatore. Se si viene a sapere che il figlio di un calciatore avversario ha una grave malattia, si fanno cori contro il figlio (bambino) del calciatore avversario. Funziona questa tattica? Alle volte sì, per esempio in un Inter-Napoli il senegalese Koulibaly venne talmente esasperato da avere una reazione nervosa (non violenta) per la quale venne espulso: volete sapere come finì la partita? Koulibaly scontò la sua squalifica, gli autori della provocazione rimasero impuniti.

Quarto punto, poi mi fermo perché tanto so già che non serve a niente ragionare e che tutto continuerà come prima, ad offendersi sulla parola "negro" per esempio. Il capo ultras del Verona dice un'altra cosa interessante, questa: "Che cosa mi faranno? Mi faranno arrestare dalla commissione Segre?". Una frase terrificante, orribile se si pensa che Liliana Segre è passata, da bambina, attraverso i lager nazisti. "Una vecchia non eletta in Parlamento", si aggiunge; ed è ancora più orribile, perché in Parlamento sono stati eletti di recente dei capi ultras. Vale a dire: invece di fermare il fenomeno degli ultras li si è incoraggiati, non solo a Bergamo o a Verona ma anche (soprattutto) a Roma, sui due versanti Roma e Lazio.

Che dire? Questi ultras sono pericolosi, spesso protagonisti di scontri di piazza con poliziotti feriti e città messe a soqquadro (eufemismo). Il capo ultras del Verona irride polizia e magistrati, e purtroppo per noi può farlo. Ci sono responsabilità politiche precise dietro questa deriva, e mi fa effetto vedere che nessuno le ricorda, e che anzi i promotori e i difensori di movimenti come Forza Nuova e Casa Pound siano intervistati in merito e dicano parole di circostanza.
Il razzismo negli stadi è una maschera, dietro la quale si nascondono interessi preoccupanti. O, meglio, che dovrebbero preoccupare: invece ci si nasconde dietro a parole ormai svuotate di senso.
Cosa si può fare, dunque? Molto: tanto per cominciare, a Torino la Juventus ha denunciato questi ultras, e la polizia è intervenuta; e la società calcistica del Verona ha vietato l'ingresso alle partite a questo capo ultras per i prossimi dieci anni. Cosa aspettano le altre società?

martedì 5 novembre 2019

Il vecchietto in automobile


In queste settimane si sono verificati molto incidenti d'auto spaventosi, con morti e feriti; difficile tenerne il conto ma una cosa mi ha colpito, i guidatori (o le guidatrici) erano sui 25-40 anni, cioè l'età in cui, secondo i luoghi comuni più frequenti, una persona dovrebbe essere al meglio per quanto riguarda la prontezza di riflessi e l'esperienza di guida. Se si vanno a guardare le statistiche, la prima causa di incidenti, di quelli gravi, è la velocità eccessiva; poi viene l'uso del telefonino mentre si guida, e quindi alcool e droghe. Dai resoconti in cronaca, spesso queste tre cause sono presenti tutte insieme. E, spesso, causa degli incidenti è la segnaletica poco leggibile o poco chiara.

Dato che conosco diverse persone anziane (sopra gli ottanta, intendo) so cosa si deve passare per avere la patente a quell'età: revisione biennale, visite mediche costose, una vera e propria vessazione nata dal luogo comune che vuole il "vecchietto alla guida" come causa di tutti i mali. Una volta detto che i controlli sanitari sono più che necessari (constatazione ovvia), nessuno ricorda mai che gli anziani sono quelli che hanno veramente bisogno dell'automobile. Gli anziani, le donne incinte e i disabili: disabili momentanei compresi (fratture, slogature...). Gli altri, i più giovani, potrebbero anche usare i mezzi pubblici o la bicicletta. Il vero problema, a mio parere, è che ad occuparsi di mobilità e di patenti sono quasi sempre gli appassionati di automobile; in tv chiamano a dare consigli i piloti di rally e di formula uno, e questo viene presentato come una scelta logica ma non ne sarei tanto sicuro. Il vero passo in avanti ci sarà quando si smetterà di pensare all'automobile e alla moto come un fatto agonistico, quindi i piloti di rallies e di formula uno dovrebbero limitarsi a fare il loro mestiere e non essere chiamati come esperti. Secondo me, un tassista o un guidatore di autobus ne sanno molto di più, su che cosa è la strada e su come si guida.
Tanti anni fa avevo una Dyane 6: impossibile correre con la Dyane, aveva un motore piccolo ed era una macchina pesante; anche in autostrada al massimo si arrivava ai 120 all'ora, ma solo se lanciati e in discesa. Ecco, se la Dyane 6 fosse obbligatoria per legge, penso proprio che avremmo tanti incidenti in meno, ma tanti: e la storiella del vecchietto in automobile andate a raccontarla a qualcun altro, per piacere (a quando qualche statistica seria in proposito?).

PS: c'è anche un'altra questione, che riguarda le compagnie di assicurazione: i neopatentati pagano molto più degli altri di assicurazione, e direi che è giusto perché non si sa mai, l'esperienza arriva guidando. Ma, se il neopatentato guida bene e non provoca incidenti, altrettanto giusto sarebbe ridargli indietro quei soldi in più che ha pagato, magari un po' alla volta e sotto forma di sconti graduali. Fantascienza, voi dite? Mi sa di sì. Vrum vrum a tutti.