lunedì 31 ottobre 2011

Copyright, ma forse no

Il discorso sul copyright in teoria è semplicissimo: se uno inventa qualcosa di nuovo, di bello o di utile, è giusto che sia ripagato. E si potrebbe finire qui se non fosse per un dettaglio: che il mondo non è perfetto, e quindi di cose da dire ce ne sono tante, i “se” e i “ma” sorgono numerosi non appena ci si addentra nella pratica, cioè nella vita vera.
La prima cosa da dire è questa: siamo sicuri che quello che viene coperto dal copyright è veramente nuovo e autentico? Non entro nel dettaglio del copyright tecnologico-scientifico perché la materia è troppo complessa, gli interessi sono molto grandi, ed è meglio lasciare queste cose agli esperti (anche di politica, s’intende). Nel nostro campo più ristretto e più accessibile a tutti, e cioè parlando di musica, di libri, di spettacoli, succedono cose che lasciano molto perplessi. Provo a farne un piccolo elenco.

1) Nella musica, non si inventa niente. L’ultima grande stagione di novità è stata quella dell’inizio del Novecento, la dodecafonia di Arnold Schoenberg, il jazz, il blues, la musica elettronica. A guardar bene, anche i grandi gruppi rock e pop degli anni ’60 non hanno inventato nulla di nuovo, dal punto di vista musicale: i Rolling Stones, i Beatles, Eric Clapton, Bob Dylan, si sono mossi molto bene ma con chiarissimi punti di riferimento a musiche già esistenti: appunto il blues, il folk, il jazz, la musica classica. I musicisti lo sanno da sempre: il giro di accordi del blues non è infinito, è anzi molto ristretto; il più delle volte conta più la personalità dell’artista che la musica in sè. E che cosa dire dei musicisti venuti dopo i Rolling Stones, i Beatles, i Pink Floyd, eccetera? Nella musica non si inventa più niente da almeno cinquant’anni, sono sempre gli stessi accordi che girano. Possono essere cose piacevoli, anche molto piacevoli, ma sono sempre sempre gli stessi accordi: chiedetelo a chi ha studiato composizione, a me è bastato fare i primi tre anni di pianoforte (tanti anni fa) per accorgermi di cosa succede. Gli esercizi del Longo, quelli per allenare le dita, contengono più musica di tutti i Festival di Sanremo dal 1950 in qua: io mi vergognerei a portare alla Siae canzoni come quelle che oggi vengono difese come se fossero dei tesori d’inventiva. Non faccio nomi, perché so che i fans sono molto aggressivi, ma i primi dieci nomi che vi sono venuti in mente sono comunque perfetti come esempio. Il discorso vale anche per le colonne sonore dei film, quelle contenute nei trailers e che oggi la Siae vuole far pagare: ad un orecchio attento, il 90% delle colonne sonore contiene evidentissimi arrangiamenti da Mahler, da Wagner, da Brahms, da Monteverdi, da Vivaldi, da Scarlatti... Pagherei molto volentieri le royalties almeno a Gustav Mahler, il più giovane tra quelli che ho citato, ma non mi sembra che abbia lasciato eredi.

2) Molti testi, molte registrazioni, molti film, non sono disponibili sul mercato. Non sono disponibili nel senso che i proprietari dei diritti li tengono nascosti, chiusi a prender polvere, perduti, dimenticati: e il discorso vale anche per le pietre miliari del cinema e della letteratura. Siamo nelle mani di pochi manager (e dispiace dirlo: sempre più incolti) che decidono cosa posso comperare e cosa no. E in questi casi che si fa? Ci si rivolge alla pirateria, ci si arrangia su youtube? Aspetto sempre che qualcuno me lo spieghi; nell’attesa, abbraccio fraternamente tutte le persone che, in questi ultimi vent’anni, hanno reso disponibile materiale che altrimenti non avremmo mai potuto vedere, leggere, ascoltare.

3) Con le nuove tecnologie, quelle nate negli ultimi anni, il copyright diventa impossibile. Un e-book, tanto per dirne una, sarà copiato subito ventimila volte, inutile sbattersi tanto, conviene farsene una ragione. Volete metterne in galera uno, mandarlo alla sedia elettrica o all'iniezione letale? Si può fare, ma ora che lo trovate quel file sarà già stato duplicato all’infinito. Io ho risolto il problema così: sono uno scrittore, sono stato pubblicato da terzi, ogni tanto c’è perfino qualcuno che mi dice che sono bravo, ma i miei testi sono qui disponibili, gratis. Ho una certa età e so bene come funzionano queste cose: nel mondo dell’editoria si entra quando si è già famosi, o quando si è parenti, amici, amanti, eccetera. Insomma, saper scrivere, saper suonare, saper comporre musica, saper fare un film – mi si passi la battuta – sono diventate questioni del tutto secondarie. Nel mondo in cui sono cresciuto io non era così, chi voleva entrare nell’editoria aveva davanti i Calvino e i Pavese, per esempio; era dura entrare, durissima, ma poi venivi preso in considerazione. Oggi non è più così, né nel mondo dell’editoria né in quello del cinema e della tv (la fìccion, quelle storie copiate, quei dialoghi tutti uguali, ci vuole una gran faccia tosta per coprirli col copyright), eccetera eccetera eccetera.
Uno spazio sarebbe rimasto, ed è quello dell’editoria di qualità: ne abbiamo molti ottimi esempi, sia nei dvd che nei libri che nei dischi. Edizioni accuratissime, nei libri, le abbiamo fin dagli inizi del Novecento (i libri della Sansoni, poi la BUR, poi gli Oscar del vecchio Mondadori...): vesti grafiche eleganti ma semplicissime, costi ridotti, traduzioni accuratissime, note a margine. Il Dante della Hoepli è ancora oggi esemplare: tutta la Divina Commedia (inferno, purgatorio, paradiso) in un libro che sta in una mano (cm 7x12), caratteri piccoli ma leggibilissimi, note a piè di pagina. Un altro esempio: i dvd della Ripley’s Home Video, immagini perfette, versione italiana e versione originale, sottotitoli italiani e nella lingua originale, commento dell’autore in voce su tutta la durata del film, con i sottotitoli tradotti per l’occasione, eccetera. Di fronte ad oggetti come questi, come si fa a piratare? Io non me la sentirei mai, vado in negozio e compro; piuttosto è un peccato che la pubblicità non sia adeguata, ma questo è un altro discorso.
Ma se invece si pensa di far scaricare e di guadagnare, signori miei, tempo perso e fatica sprecata. Pensate di recuperare qualcosa con le multe? Mah, se volete provarci provateci: io se appena posso non scarico nulla, ci ho provato un paio di volte ma le connessioni sono ancora troppo aleatorie, il più delle volte quando si ascolta o si guarda quello che si è scaricato poi si butta via tutto. A meno che non siano cose brevi, di pochi minuti, il gioco non vale il tempo che ci si perde; ma se voi mi chiudete tutti i negozi, se mi licenziate tutti i commessi esperti e appassionati, chi volete mai che comperi le cose che tenete sotto chiave e che non fate vedere a nessuno?

domenica 30 ottobre 2011

«Né di destra né di sinistra»

La settimana scorsa, in tv, il ministro Sacconi ha messo a tacere, o quantomeno in serio imbarazzo, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Renzi gli aveva appena detto “il governo Berlusconi in dieci anni non ha fatto niente per combattere il deficit dello Stato”; Sacconi è diventato aggressivo e cattivo, gli ha sparato in faccia un “voi nel 2007 avete impedito l’innalzamento dell’età pensionabile” , e il buon Renzi è visibilmente impallidito, si è bloccato. Incalzato dal ministro berlusconiano, ma essendo presente al dibattito come rappresentante del principale partito di opposizione, Matteo Renzi non ha potuto dire quello che sicuramente pensava: e cioè che era d’accordo con Sacconi.

Io li ho visti, in fabbrica, gli operai di sessant’anni. Qualcuno c’è sempre stato, non è vero che tutti andavano in pensione a quarantanove e mezzo: i datori di lavoro non gli avevano pagato i contributi, da giovani, e adesso gli toccava lavorare “per raggiungere il minimo”. Siccome io in fabbrica c’ero e li ho visti (parlo degli anni dal 1978 al 2003) posso dire che non è bello vedere una persona di sessant’anni ancora alle prese con lavori pesanti e turnazioni impossibili. Molti avevano avuto malattie serie (infarto, ernia del disco) ma dovevano stare lì, e fare quello che facevano gli altri. Non si dica “poveretti”, per piacere. Non c’è niente da compatire, perché è un discorso che ci coinvolge tutti, perché va a toccare la sicurezza di noi tutti. Oggi il problema è stato risolto così: con le agenzie private del lavoro, nessuna persona con più di quarant’anni trova lavoro, e se lo trova è precario. Se vi viene l’ernia del disco (malattia professionale per i piastrellisti, per i camionisti, eccetera), cavoli vostri. E questo è solo un piccolo inizio di tutto quello che si potrebbe dire sull’argomento, ma qui mi fermo perché l’argomento di cui vorrei parlare oggi è un altro, cioè questo: cosa doveva fare il buon Matteo Renzi di fronte al Sacconi incalzante? Avrebbe dovuto dirgli che era orgoglioso di aver aiutato, come Partito Democratico, molti lavoratori a terminare serenamente il loro percorso lavorativo; che gli dispiaceva di non aver potuto continuare su quella strada, e che i tagli andavano fatti altrove, gli sprechi di denaro pubblico di cui parlare – Ponte di Messina in testa - non mancano di certo. Ma Renzi non poteva arrivare a questo, perché Renzi non è mai stato di sinistra, non ha la formazione di un politico di sinistra, non ha mai visto una fabbrica, gli operai li chiama quando ha bisogno di un lavoro, tutto qui. Il discorso non tocca solo Renzi ma un po’ tutta la dirigenza del PD, giovani e vecchi, francamente non vedo una gran differenza fra gli uni e gli altri. L’elettorato di sinistra se ne è accorto da tempo, e i risultati si sono visti e toccati con mano.

In questi anni sono stati fatti passare come “di sinistra” persone magari di valore ma che con la sinistra non hanno mai avuto nulla a che vedere: come Antonio Di Pietro, per esempio (ai tempi di Mani Pulite si dava per scontato che avesse sempre votato MSI), come Romano Prodi (cattolico e democristiano) o magari come Marco Travaglio (vicinissimo alle idee di Indro Montanelli). Che cosa farà Di Pietro, se dovesse andare al governo? E che cosa farà il partito Cinquestelle di Beppe Grillo? E la Lega Nord, da che parte sta? Gli operai votano Lega Nord, invocano Umberto Bossi, ma hanno capito di cosa si sta parlando? Solo la destra è stata chiarissima, sempre, e coerente: fare confusione, e tanta, così si può andare diritti allo scopo.
Insomma, sono vent’anni che il tormentone “né di destra né di sinistra” viene martellato quotidianamente nelle teste degli italiani, e il risultato è questo magma indistinto, queste valanghe di fango (purtroppo, tutt’altro che metaforiche) che ci hanno portato alla distruzione di un sistema dove tutti stavamo abbastanza bene. Sarebbe ora invece di cominciare a dire da che parte si sta, ma tranquillamente, senza fare guerre. Se io dico che bisogna tagliare quest’albero, e tu dici che invece bisogna piantarne altri, almeno sappiamo di cosa stiamo parlando. Se invece si dicono parole astratte, o se si nega l’esistenza dei problemi, prepariamoci a qualcosa di davvero brutto: qualcosa che, ormai, si comincia a vedere con contorni sempre più definiti.

PS: mio padre è morto a 55 anni, dopo più di quarant’anni di lavoro: il fornaio che lo aveva assunto a quattordici anni non gli ha mai pagato i contributi. Da dove fosse venuto il tumore che lo ha ucciso, non lo sapremo mai – posso solo dire che non era una cosa ereditaria. Quando ne parlo, mi dicono: "ehh, ma adesso l'aspettativa di vita si è alzata". Lo vadano a dire ai familiari di quelli che sono morti alla Thyssen di Torino, o nei cantieri edili.
PPS: io non sono in pensione, la pensione non solo è lontana ma non la vedrò mai: ho pagato tanti anni di contributi, come lavoratore dipendente, ma solo per scoprire che sono stati soldi buttati via.

giovedì 27 ottobre 2011

Guerra di classe?

«Oggi i capi azienda hanno un reddito che è 532 volte quello dei lavoratori, che è in media 42mila dollari all'anno. E' una differenza quasi impensabile. Quando io ero giovane, questo rapporto era 12:1. Che cos'è questa, se non guerra di classe? »
(Mario Cuomo, ex governatore NewYork State, da L'Espresso 12.2.2004, int. di Enrico Pedemonte)
(mi ricorda qualcuno...)

Michele Serra e la TAV

Leggo quello che scrive Michele Serra fin dai tempi di Linus, quindi non mi sono sorpreso più di tanto: i suoi ultimi articoli (umoristici) sull’Espresso sono dedicati alla linea ad alta velocità, il bersaglio sono i No-Tav. In precedenza, sul Venerdì di Repubblica, Serra lo aveva spiegato molto chiaramente: non li capisce proprio, i No-Tav.

La spiegazione, secondo me, è molto semplice: Serra è di Milano. A Milano non esiste la linea dell’orizzonte, chi è nato dagli anni ’50 in su non ha nemmeno idea di cosa sia guardare l’orizzonte, lo sguardo si ferma al condominio lì vicino, ed è tutto. La linea dell’orizzonte è qualcosa di esotico, ci si va in vacanza, a vedere l’orizzonte. Io invece, che sono di poco più giovane rispetto a Michele Serra, sono cresciuto in una piccola città con molti campi, granoturco, patate: non ho mai fatto il contadino, ma vedere la distruzione dell’ambiente fatta negli ultimi 10 anni mi fa star male. Non mi ci abituerò mai.

Sia ben chiaro: non conosco Serra, magari mi sbaglio. Ma le spese delle linee TAV (chi non capisce il discorso che ho fatto sopra capirà almeno questo, spero) sono una voragine che si è triplicata nel giro di pochi anni, documentatissima: ultimi della serie, gli articoli su “Il fatto quotidiano” disponibili anche on line http://www.ilfattoquotidiano.it/ . C’è anche chi ha fatto calcoli precisi: cancellando le spese per la linea TAV, il ponte sullo Stretto, e un paio di caccia militari, si poteva evitare di tagliare le pensioni, o di mettere le tasse sulla sanità (voi continuate pure a chiamarli ticket, io li chiamo col loro vero nome: tasse, e salate). Ma si vede che io mi sbaglio, se anche sui giornali di sinistra si scrivono queste cose, non mi resta che prenderne atto: arrivare un paio d’ore prima a Milano tornando da Parigi è molto ma molto più importante che pagare l’assegno di accompagnamento agli handicappati.

mercoledì 26 ottobre 2011

El Alamein

Sulla battaglia di El Alamein ho avuto testimonianze dirette da un mio carissimo parente nato nel 1920, che purtroppo non c’è più da un paio d’anni. Era un soldato semplice, un assaltatore, quello che corre più rischi di tutti: giù dal camion, fucile in mano, e correre. «Eravamo in 400, siamo rimasti in 40»: gliel’ho sentito dire molte volte. Da bambino non capivo, era una persona mite e gentile, e come tutti i bambini avevo un’idea completamente diversa su cosa fosse un soldato. Lui non era un gigante, era piccolo di statura e molto robusto; ed essere piccoli di statura è un ottimo requisito, per un assaltatore: difatti lui se l’era cavata tutto sommato bene, un timpano rotto e una scheggia nel collo, per il resto è arrivato fino a novant’anni in forma splendida.  L’ho sempre ascoltato con attenzione, e mi ha detto alcune cose che ricorderò sempre, perché la guerra vista dal basso, vista dai soldati semplici, è un racconto molto istruttivo. Teneva per sè le cose più terribili, ma raccontava spesso di quei due anni nel deserto, forse anche per liberarsi di un peso. Le cose che più mi sono rimaste nella memoria sono queste: che l’acqua ce l’avevano i tedeschi, che camion e autobotti erano quasi tutti dei tedeschi, che armi e logistica erano quasi tutte in mano dei tedeschi, e che ad un certo punto, dopo la battaglia, vagando per il deserto, ci si ripeteva: “o morto, o prigioniero”.

Da questi racconti, identici su tutti i fronti, emerge una costante terribile: l’impreparazione e il pressappochismo dei vertici militari fascisti. Dopo vent’anni di preparazione alla guerra e di istruzioni martellanti, l’esercito fascista si fece cogliere del tutto impreparato: sul fronte russo, sul fronte greco-albanese, nel deserto libico-egiziano, ovunque. Mario Rigoni Stern, che era un ufficiale, racconta dei suoi primi giorni al fronte, sulle Alpi: era vietato accendere fuochi (avrebbero segnalato la presenza al nemico), ma le scorte di cibo erano tutte di cose da cuocere. Che fare? I soldati italiani mangiarono carne e verdure crude, alternative non ce n’erano; ma era un gran brutto inizio, un segnale di improvvisazione generale che purtroppo avrebbe avuto conferma nei mesi successivi (l’intervista con Rigoni Stern, autore di “Il sergente nella neve”, realizzata da Marco Paolini, è disponibile anche su dvd). I ricordi di Rigoni Stern, e di tutti i reduci dalla campagna di Russia, sono molto simili a quelli di El Alamein: i camion li avevano quasi soltanto i tedeschi, i carri armati li avevano i tedeschi, la logistica era tutta in mano ai tedeschi. I nostri alpini erano lì con i muli: e tutti quelli a cui l'ho fatto notare mi hanno risposto che sì, ma sì, ma ceerto, i muli, la montagna, la neve, gli alpini. Invece quelli che sono tornati (per esempio Peppino Prisco, avvocato milanese ed ex vicepresidente dell'Inter) sono sempre stati categorici: si sono salvati quelli che erano sui camion, o comunque sui mezzi motorizzati. I muli, a venti gradi sotto zero, fanno la stessa fine degli alpini: non ce la fanno più, si fermano, e finiscono col morire assiderati.

Quando arrivarono gli inglesi e lo fecero prigioniero, il mio parente tirò un sospiro di sollievo. Da lì in avanti, sarebbe andato tutto in discesa: quattro anni da prigioniero, ma trattato bene, in California. Il bello è che, se gli si chiedeva un parere su Mussolini, rispondeva che “lo avevano tradito”: potenza della propaganda. Se veramente Mussolini si era fatto prendere per il naso, e per vent’anni, questa sarebbe una aggravante; ma quando si parla di El Alamein la retorica gonfia sempre tutto, e non si riesce mai a ragionare. A me sta bene, anzi benissimo, che si parli del valore dei soldati italiani: ma i soldati italiani furono mandati allo sbaraglio, a sicura morte. Vincere ad El Alamein era impossibile, troppo più forti gli inglesi, e molto meglio organizzati.

Di questi racconti ne ho ascoltati tanti, perché i reduci dalla guerra erano ancora giovani, negli anni ’60 e ’70 in cui sono cresciuto; e ogni famiglia aveva qualcuno che raccontava cos’era successo. Uno dei miei zii, per esempio, era tra i soldati che in Germania rifiutarono di aderire alla RSI: la maggioranza assoluta, più del 90% dei soldati italiani, si rifiutò di tornare a combattere con i nazisti. Un altro mio zio, fratello di mio padre (che ha schivato la guerra per un pelo: compiva 19 anni nel 1945), è tra i dispersi in Russia. Per decenni lo abbiamo immaginato così, disperso in Russia, nel gelo, o magari riparato presso qualche famiglia di contadini, chissà. Invece, temo che la realtà sia questa: dopo l’8 settembre 1943, i soldati “badogliani” presenti in Ucraina e in Polonia vennero rinchiusi nei campi di concentramento, nei lager tedeschi: e lì fecero la stessa fine degli ebrei, degli zingari, dei prigionieri politici. Qualcuno è tornato e ha raccontato, e le documentazioni in proposito sono imponenti, ma non se ne parla mai. Addirittura, esiste ed è ben conservato un documento firmato Benito Mussolini: il duce scriveva ai nazisti di non rimandargli a casa i soldati dell’Armir, erano troppo magri e debilitati, poi cosa avrebbero detto i parenti. Anche mio zio, temo, avrà fatto la stessa fine: passato per il camino o sepolto in una fossa comune, anche da servitore della Patria col fascismo si correvano questi rischi.

giovedì 20 ottobre 2011

Il ritorno di Ulisse

A Venezia, nel 1640, va in scena “Il ritorno di Ulisse in patria”: testi di Giacomo Badoaro, musica di Claudio Monteverdi. Si tratta quindi dell’Odissea, la parte finale: massacro dei Proci compreso. Come tutti i grandi registi e autori drammatici, Monteverdi non si tira indietro: c’è tutto, la scena dell’arco, la lotta con Iro, il riconoscimento con la nutrice, il massacro, l’incontro finale e il riconoscimento con Penelope, che inizia così:
- Et illustratevi, o cieli! Rinfioratevi, prati! Aure, gioite! ...
(Monteverdi-Badoaro, Il ritorno di Ulisse in patria )

Non mancano nemmeno le divinità, Minerva in primo luogo. Ulisse viene infatti accolto da Minerva, al suo arrivo ad Itaca, e di fronte a Minerva nelle sembianze di un pastorello si mostra non solo sorpreso ma anche un po’ seccato (ne ha viste troppe, verrebbe da dire):
- Chi crederebbe mai, le deità
vestite in uman velo!
Si fanno queste mascherate in cielo?
(Monteverdi-Badoaro, Il ritorno di Ulisse in patria)

La musica è molto bella, come sempre; ma sembra proprio che non sia tutta di Monteverdi, e che alcune sue parti siano state scritte da Cavalli, che di Monteverdi fu il continuatore, a Venezia. Una volta detto che lo stile è identico, e che il passaggio di mano è inavvertibile (i musicologi hanno dovuto consultare antiche carte e manoscritti), bisogna ricordare che era cosa normale, a quel tempo, scrivere a più mani, sia per l’opera che per il teatro di prosa. Non esisteva ancora il copyright come lo intendiamo oggi, e soprattutto la cosa non era considerata di fondamentale importanza. L’importante, insomma, era che tutto andasse avanti con successo: l’opera, o il testo teatrale, cambiavano a seconda delle serate e dell’interprete (un cantante o un attore particolarmente bravi avevano sempre con sè arie e monologhi da inserire nel momento giusto). Insomma, tutto era molto diverso da quello che siamo abituati a vedere oggi: è anche per questo che tra gli appassionati d’opera queste opere passano per noiose, ma la colpa non è né di Monteverdi né dei poeti che gli scrivevano i testi, la colpa è prima di tutto del tempo che è passato. Capita la stessa cosa anche con Shakespeare, e con Cervantes: entrambi contemporanei di Monteverdi. Molti non lo sanno, e anche al cinema o a teatro molti non l’hanno ancora capito: a teatro, al tempo di Shakespeare e di Monteverdi, si poteva entrare ed uscire a piacimento, senza aspettare gli intervalli; non era necessario stare seduti al buio e in religioso silenzio. Quest’usanza “sacrale” arriverà solo nell’Ottocento: è solo la prima delle molte cose che si dovrebbero ricostruire per tornare ad apprezzare davvero questo magnifico repertorio.
Che è ricco di sorprese, alcune buffe e del tutto inaspettate: per esempio quando Penelope, in dubbio se rimanere fedele dopo tanti anni passati in attesa di Ulisse, usa questa metafora:
...come sta in dubbio un ferro
se fra due calamite
da due parti diverse egli è chiamato
così sta in forse il cuore
nel tripartito amore ...
(Monteverdi-Badoaro, Il ritorno di Ulisse in patria)

L’opera è ricca di momenti davvero belli o curiosi, e necessita di attori che sappiano cantare e di cantanti che sappiano recitare: cose rare. Però alle volte capita che tutto vada bene. Questo, per esempio, viene dal duetto fra Eurimaco e Melanto (Melanto è una ragazza, i nomi greci – come Andrea, del resto – traggono spesso in inganno noi italiani):
- Ah, come volentieri cangerei questa reggia in un deserto...
Per rimanere da soli, s’intende: è il recitativo che precede uno dei momenti più belli dell’opera dal punto di vista della musica, il duetto che inizia con “lieto mio ben...dolce mio bene, dolce mia vita” nel duetto di Melanto ed Eurimaco, atto primo.

Il momento forse più spettacolare, a metà fra canto e recitazione, è quando i Proci provano a tendere l’arco di Ulisse, senza riuscirci: momento difficile da rendere bene in teatro, a meno che non sia un teatro piccolo, come succedeva a Venezia. Sappiamo già chi vincerà la sfida, e sappiamo anche come la vincerà: vincerà Ulisse, in parte per la sua bravura, in parte perché l’arco l’ha costruito lui e ne conosce i segreti, ma soprattutto perché Minerva impedisce agli altri di riuscire nell’impresa.
In fondo l’Iliade e l’Odissea e, come insegna il Mahabharata, anche la nostra vita, altro non sono che un gioco di dadi truccato.
(le immagini vengono dal film “The Mahabharata” di Peter Brook, girato nel 1989, edito su dvd dalla Dolmen)

martedì 18 ottobre 2011

Narcisismo

Ho osservato con un certo sgomento le reazioni al Nobel per la letteratura 2011, lo svedese Tomas Tranströmer. Molti commentatori, quasi tutti, hanno una avuto una reazione che può essere semplificata così: «Io non lo conosco, quindi non vale niente.»

Questa reazione c’è stata anche in persone che si dicono di sinistra, e dimostra una volta di più (come se altri esempi, a cui assistiamo quotidianamente, non fossero sufficienti a dimostrarlo) quanto sia penetrata dentro di noi l’idea consumista e – mi si perdoni – “berlusconiana”. Se mi si dice “una cosa è valida solo se la conosco io”, questo è narcisismo e lo si può anche perdonare; ma sta di fatto che dietro al conoscere o non conoscere un nome, un libro, un film, un prodotto, c’è quasi sempre, oggi, un’adeguata campagna pubblicitaria. Promozione, marketing, ufficio stampa: da noi nessuno dei dirigenti dei grandi gruppi editoriali (tutti ormai provenienti dal marketing) aveva interesse in Tomas Tranströmer, e quindi – ecco qua – se non è un nome noto, non merita nessun premio, men che meno “il” premio per eccellenza, quello che tutti sognano e che dà celebrità mondiale.
Sono purtroppo finiti i tempi in cui si poteva andare nelle librerie dove si conservavano libri editi quaranta o cinquant’anni fa; sono purtroppo poche le persone che vanno a curiosare nelle biblioteche (molte hanno già chiuso o sono rimaste senza fondi, perciò chiuderanno presto), o magari su internet dove si trova di tutto. Le grandi librerie, fateci caso, sono tutte uguali: magari cambia l’arredamento, ma i libri e i dvd sono sempre gli stessi, inesorabilmente.  Sono tempi, questi, in cui si esaltano autentiche ciofeche (non faccio nomi, chiedo scusa ma non voglio querele), sia in musica che al cinema che nell’arte figurativa eccetera, e si perde di vista l’essenziale; sono tempi in cui la critica (critica musicale, cinematografica, d’arte, eccetera) è stata completamente abolita, non esiste più il critico capace di spiegare, esistono solo gli uffici stampa e i pubblicitari.
Io, per me, per quel che mi riguarda (eccomi giunto al mio narcisismo), seguo il Premio Nobel dagli anni ’70, quando ogni anno si diceva Borges, Borges, Borges, ma Borges non veniva mai premiato. Il fatto è che Borges era già famosissimo, un maestro riconosciuto e molto amato: che bisogno aveva del Premio Nobel? Anch’io avevo già letto tutto il possibile, di Borges; non conoscevo invece neppure il nome di Isaac Bashevis Singer, premio Nobel 1978 e grandissimo scrittore, neppure quello di Wole Soyinka, premio Nobel 1986, o di Kenzaburo Oe (premio Nobel 1994) o di Seamus Heaney, (premio Nobel 1995) o di Wyslawa Szymborska, (premio Nobel 1996) , eccetera eccetera eccetera. E quindi io (eccomi ancora al narcisismo), io, io e sia ben chiaro solo io, ero un bel po’ ignorante. Grazie al Premio Nobel, lo sono un po’ di meno: adesso ho imparato che esiste un poeta che si chiama Tranströmer, non farò battute cretine sul suo nome, me lo metterò qui con cura da qualche parte (scaffale o computer o ipod o streetphone o chissà che cosa d’altro), magari accanto a Biagio Marin, a Massimo Ferretti, a Toti Scialoja, ad Adolfo Bioy Casares, e a tanti altri nomi d’ignoti che sono orgoglioso di conoscere. E, già che ci sono, viva Dario Fo! (premio Nobel 1997, stiamo ancora ridendo dalla felicità).

Con un sospiro gli ascensori iniziano a salire
in alti edifici
fragili come porcellana.
Fuori sull'asfalto si fa caldo il giorno.
I segnali hanno le palpebre abbassate.
La terra una salita verso il cielo.
Cima dopo cima, nessuna vera ombra.
Voliamo avanti a caccia di Te
per l'estate in cinemascope.
E di sera sono un vascello
a luci spente, a giusta distanza
dalla realtà, mentre a terra
nei parchi fluisce l'equipaggio.
(poesia di Tomas Tranströmer pubblicata da La Repubblica 7.10.2011; tradotte da Maria Cristina Lombardi, pubblicate dall'editore Crocetti )

PS: attenzione, Tomas Tranströmer non scrive in italiano, questa è una traduzione dallo svedese: come in tutte le traduzioni, qualcosa si perde sempre. Ed è un peccato non conoscere la lingua svedese, mi piacerebbe molto conoscere tutte le lingue del mondo ma, purtroppo, io – si badi bene: io, e soltanto io - sono un bel po’ ignorante.

domenica 16 ottobre 2011

Rime ( IV )

Ciò che il mondo pretende dai poveri essi lo eseguivano interamente: il padre andava a prendere la colazione per i più modesti impiegati di banca, la mamma si sacrificava per la biancheria di estranei, la sorella correva a destra e a sinistra dietro al banco secondo gli ordini dei clienti, però le forze della famiglia non andavano oltre. A Gregor la ferita sulla schiena riprendeva a dolere più di prima (...)
Franz Kafka, La metamorfosi, parte terza


E’ ben risaputo che i limitati di mente adorano l’oro dei galloni, gli emblemi del potere, lo scintillio delle divise, si rapiscono all’esecuzione di comando-obbedienza, provano frenetica gioia ad essere parte intima di un rito.
Mario Tobino, Gli ultimi giorni di Magliano, pag.95

domenica 2 ottobre 2011

Industriali e politici

Sono capitato su Jacopo Morelli, nuovo presidente dei Giovani Industriali, mentre stavo caricando sul televisore un dvd con un film di Jean Renoir, “Questa terra è mia”. Si sa che per caricare un dvd ci vuole sempre un po’ di tempo, nel frattempo il televisore era acceso, e a dire il vero non sapevo neanche che “Ballarò” era ricominciato, ma ecco qua una faccia nuova, finalmente: e così mi sono fermato ad ascoltare cosa diceva. Oltretutto, stava spiegando cosa bisogna fare per far ripartire il nostro Paese: ragion di più per fermarsi ad ascoltare, dato che si tratta di una persona molto giovane. Il programma dei Giovani Industriali è dunque diviso in quattro punti: al primo punto, spiega Morelli con molta sicurezza, dizione chiarissima e piglio convincente, c’è l’adeguamento dell’età pensionabile. Ho capito bene? Sembrerebbe proprio di sì. L’età a cui si va in pensione, al primo punto di un programma per la ripresa economica? Se mi si parla di bilanci, posso anche capire; ma se un dirigente d’azienda di trent’anni (forse anche meno) mi mette queste cose al primo posto del programma per ripartire, vuol dire che siamo proprio messi male, e che il male è destinato a durare anche per i prossimi decenni. Da un giovane industriale sui trent’anni (forse anche meno di trenta) mi aspettavo qualcosa di diverso dal solito ritornello dei vecchi industriali, magari avrei voluto sentir parlare di un piano industriale, qualche idea nuova, investimenti sulla ricerca... Il costo del lavoro e l’età pensionabile, insieme alla preoccupazione per le tasse e per i “lacci e lacciuoli” (cioè la sicurezza dei lavoratori e le garanzie per malattia e maternità) sono stati il cavallo di battaglia dei Vecchi Industriali negli ultimi trent’anni, con i risultati che abbiamo oggi sotto gli occhi. I risultati, tanto per intenderci, sono questi: tutte le nostre fabbriche sono emigrate all’estero, soprattutto nei Paesi dell’est Europa, ma anche in Turchia, o magari direttamente in Cina.

Chi ce le ha portate, queste fabbriche, fuori d’Italia? Qualche politico perverso e cattivo? Sembrerebbe di sì, a quel che si dice: anche l’autorevole Mario Monti, rettore veneratissimo della Bocconi, dice cose non molto diverse da queste, tipo che negli anni Settanta i politici per far ripartire l’economia giocavano sulla svalutazione della lira, che questo con l’euro non è più possibile, e che è per questo motivo che i giovani sono disoccupati. Sono disoccupati, a me sembra, perché gli industriali hanno chiuso qui e sono andati ad aprire le fabbriche all’estero; così facendo hanno magari salvato la ditta e il marchio, ma hanno creato centinaia di persone senza lavoro qui da noi. Insomma, questi esperti, opinionisti e manager bocconiani, si sono persi come minimo la caduta del Muro di Berlino, anno 1989: è da qui che bisogna partire per capire le ragioni della crisi. Sono passati ventidue anni, e ancora si sentono ripetere le storielle dell’età pensionabile e del costo del lavoro: mi immagino che tra qualche giorno si tornerà a parlare anche dei lacci e dei lacciuoli, che è tanto che non li sento nominare e a dire il vero comincio a impensierirmi. Gli unici provvedimenti presi in vent’anni sono stati proprio questi, quelli che vorrebbe il Giovane Industriale: riduzione del costo del lavoro, aumento dell’età pensionabile. Sono stati presi a partire da metà anni ’90, le agenzie del lavoro, il precariato, le Manpower e le Adecco e le Metis, per esempio. E l’età pensionabile è già stata alzata e adeguata, ma la crisi continua. Che fare? Emigriamo tutti in Romania?

PS: Intanto che sono qui che scrivo, arrivano altri analisti fenomenali, e ne devo citare almeno due: l’industriale Della Valle che compera una pagina intera dei quotidiani più diffuse (sono costosissime) per autoassolversi, dando tutta la colpa (ma proprio tutta) ai politici; e l’intero gruppo dirigente della Lega Nord che inneggia alla secessione, spiegando che il Sud è una zavorra e che il Nord da solo ha un PIL meraviglioso. Non so quanto durerà questo stato di felicità e benessere: qui intorno a me, tra Como e Varese, in questi ultimi dieci anni ho visto soltanto chiudere le fabbriche, mai riaprirle. Fabbriche che sono andate a produrre in Romania, in Croazia, in Egitto, nella Repubblica Ceca, in Cina (le industrie della seta ormai fanno tutto direttamente in Cina, qui la seta non si lavora quasi più), qui non torneranno mai più, e chissà chi le ha portate all’estero, queste Ditte. Forse qualche evento soprannaturale, forse gli extraterrestri, chissà.
PPS: il film di Jean Renoir, del 1943, non è uno dei suoi migliori ma tratta di un argomento di strettissima attualità: la zona grigia, le persone che – magari in buona fede, operosi, convinti di fare del bene - preparano l’avvento delle dittature.