sabato 31 agosto 2019

«Posti da manager, nessuno li vuole»


Sto facendo dei lavori in casa e mi serve un foglio di carta per proteggere le superfici che non devo verniciare (la sgocciolatura, si sa, è sempre in agguato); così vado a prendere dei giornali vecchi e mi ritrovo davanti questo capolavoro: «Posti da manager, nessuno li vuole». E' un titolo in prima pagina, articolo d'apertura, inchiesta con interviste, e tutto per uno dei soliti tormentoni di quando non si sa più cosa scrivere. Si potrebbero rispondere tante cose, ma questo è uno dei cavallini della giostra che mi tornano davanti più spesso, e lascio perdere. In fin dei conti, da quando non c'è più il mostro di Loch Ness qualcosa bisogna pur scrivere sui giornali, d'estate (detto fra noi, non è che manchino le notizie - ma passi).


Due riflessioni però mi sorgono spontanee e provo ad abbozzarle qui: la prima è che il personale non si trova già pronto sotto i cavoli, bisogna fare formazione e affiancare i nuovi assunti al personale più esperto; così si è sempre fatto, almeno fino alla fine del Novecento. Invece, da quando esistono le agenzie di lavoro interinale (cioè da vent'anni, dalla fine degli anni '90) chi fa impresa pensa che basti una telefonata per trovare e farsi mandare idraulici, elettricisti, muratori, e adesso anche i manager (figuriamoci). Ma la formazione chi la fa? Non mi si dica che ci sono dei corsi, non si diventa idraulici o manager in quindici giorni.
La seconda riflessione è uno dei miei ricordi personali sul lavoro: io sono sempre stato in posizioni basse, ma alcuni miei colleghi hanno fatto carriera e ricordo i discorsi che facevano. In particolare, la maggioranza dei laureati in chimica non volevano fare il Direttore di Produzione e nemmeno il Direttore di Fabbrica. Ne parlavano con disgusto, quasi con spregio. Il lavoro che volevano fare era nelle Vendite, o negli Acquisti. Cioè, uno impiega anni per prendere una laurea in Chimica ma poi non vuole fare il Chimico. Non vuole sporcarsi le mani, insomma, o prendersi delle responsabilità sul campo. Non so se sia così anche in altri settori, di certo a me faceva impressione perché il mio lavoro mi piaceva e sarei stato contento di prendermi quelle responsabilità, ma mi mancava la laurea. Se fossi un direttore di un quotidiano, oggi, indagherei piuttosto su queste cose.
Troppo facile, per gli imprenditori, lamentarsi che non si trova personale specializzato... io andrei a vedere caso per caso, c'è chi ha diritto di lamentarsi e chi no. Ma chi ha più voglia di fare un'inchiesta come si deve, invece di sparare un titolone populista in prima pagina?

giovedì 29 agosto 2019

No-blob


Devo molto a Enrico Ghezzi, senza di lui non avrei mai visto e conosciuto tanti film importanti e tanti autori fuori dal circuito commerciale. Lo ringrazio, quindi, ma non mi unisco al coro di chi festeggia i trent'anni di "Blob". Lo dico apertamente: quando so che sta per cominciare Blob, su Raitre dopo le 20, cambio canale o spengo la tv. "Blob" è stata una trasmissione divertente e persino istruttiva nei suoi primi anni; erano divertenti le pause, i piccoli disguidi, gli strafalcioni, ed erano istruttive le scelte su spezzoni più impegnati. E poi c'erano Ciprì e Maresco, tante altre cose piccole o grandi. C'erano già molte cadute di stile (vedi la ripetuta presa in giro di Sandra Milo, che fu sbeffeggiata mentre era in ansia per la sorte del figlio Ciro), ma in fondo "Blob" piaceva. Poi le cose sono cambiate, da almeno una decina d'anni siamo ormai alla prevalenza del cretino - chiedo scusa per il luogo comune, ma non saprei come dirlo in altra maniera. "Blob" è di fatto diventato un'antologia di quanto c'è di cretino in tv, e nient'altro. Mi si risponderà che così è l'Italia di oggi e che "Blob" la rappresenta fedelmente; ed è vero, ma di un'antologia delle scemenze dette in tv farei volentieri a meno. Il tizio o la tizia avevano detto o fatto una cretinata in tv, io ero riuscito a schivarla ed ecco che "Blob" me la mette davanti, magari per una settimana intera. No, grazie, devo molto a Enrico Ghezzi, ma questa deriva di blob proprio non la reggo.

 
(disegno di Robert Crumb, anni '70)

martedì 27 agosto 2019

Idolatria


I protestanti ci hanno sempre rimproverato l'uso delle immagini sacre. Sulla questione ci furono molte discussioni, se ne parlò in vari concilii nei primi secoli del Cristianesimo, poi si arrivò alla frattura definitiva con Lutero e Calvino. Io sono cattolico e ho il Crocefisso in casa; nelle chiese protestanti e nelle sinagoghe sto benissimo, ma mi manca sempre qualcosa e non credo sia solo per abitudine. Però poi rimetto tutto in discussione quando mi tocca vedere uno come Matteo Salvini (per di più ministro, quindi rappresentante del mio Paese) che esibisce il Crocefisso in quel modo, incurante anche delle parole del Papa, e tutto questo mi fa pensare che abbiano invece ragione i protestanti e gli Ebrei: in questi casi la questione non si pone nemmeno e si può con sicurezza parlare di idolatria. Oltretutto, Matteo Salvini peggiora le cose con il bacino "di nascosto" all'immagine sacra mentre in Parlamento gli si ricorda quel che è buona regola di comportamento (quando sei ministro sei ministro di tutti, anche di chi non è cattolico). Salvini, insomma, si comporta come un bambino che fa i dispettucci (al Papa, prima che a Giuseppe Conte) e questo non è certo il comportamento che ci si aspetterebbe da un uomo di quarant'anni. All'estero, in Inghilterra e nei Paesi anglosassoni, pensano che noi cattolici siamo tutti così, ipocriti e idolatri, e Salvini gli sta dando ragione. Come dicevo, io ho in casa il Crocefisso e mi fermo sempre davanti alle immagini sacre, anche solo per un momento; andare a Brera o agli Uffizi significa passare davanti a Santi e Madonne (quelle di Bernardino Luini, per me inarrivabili), e tutto questo è bello ma poi basta un gesto come quello di Matteo Salvini ( o dei mafiosi nelle processioni di paese) per sporcare tutto. Difficile che Salvini riesca a capirlo se non ci è riuscito fino ad oggi, ma le vie del Signore sono infinite.

Un'altra riflessione mi viene da Pietrangelo Buttafuoco, che con viso serissimo ed espressione contrita rimprovera Papa Francesco di confondere i fedeli: i fedeli credono nella Resurrezione, dice Buttafuoco, e il Papa li sconcerta parlando invece di comportamenti civili ed etici ma non legati alla Trascendenza. Ho riassunto un po', andando a memoria, purtroppo sono questioni che conosco da vicino ed è per questo che mi permetto di riassumere; ma Buttafuoco ha detto proprio "credono alla Resurrezione" e questa frase mi ha colpito. Sicuro che sia così? A me è capitato diverse volte di accennare alla Resurrezione con fedeli cristiani battezzati, e il più delle volte mi ridevano in faccia o assumevano pose scettiche. No, la maggior parte dei fedeli non crede in ciò che è scritto nel Vangelo, non crede nelle parole di Gesù né sulla Resurrezione né sulla Misericordia, e ridacchiano o sbuffano quando gli si cita "porgi l'altra guancia", che bisogna accogliere lo straniero o che bisogna amare anche il proprio nemico. Non serve a niente nemmeno metter loro davanti il Vangelo con la pagina giusta aperta nel punto giusto, proprio non ci credono ma vanno comunque a Messa e si dicono credenti.
Credenti in che cosa, viene da domandarsi; e la risposta è che credono nel rito, nella liturgia, nell' "abbiamo sempre fatto così", nella tradizione insomma. La tradizione cattolica, il prete che sussurra sull'altare, il genuflettersi, queste cose qui. Poi, quel che c'è scritto nel Vangelo, la voce di Dio, è cosa secondaria. Magari si ascolta il Vangelo in latino, non conoscendo il latino, oppure si sta in silenzio composti e contriti ma senza ascoltare veramente. Anche qui siamo dalle parti dell'idolatria, e purtroppo stavolta vale per tutti, non solo i cattolici.

domenica 25 agosto 2019

Storia di Giorgio


Giorgio ha lavorato per tanti anni in una piccola fabbrica di mobili per ufficio, come operaio. Era bravo, il lavoro gli piaceva ed era portato in palmo di mano dai suoi capi, ma a un certo punto gli viene diagnosticata una forma di allergia, probabilmente alla segatura. A malincuore, si mette a cercare un altro lavoro; lo trova in un'industria metalmeccanica piuttosto grande, molto più grande di dove lavorava prima. Lo mettono alla fonderia; non è un altoforno, ma è comunque un lavoro pesante e Giorgio proprio non ce la fa. Passa per scansafatiche, dopo un po' si licenzia, chi lo ha raccomandato si lamenta perché gli ha fatto fare brutta figura e adesso non lo ascolteranno più se segnala qualcun altro. Giorgio torna a lavorare nella sua fabbrica di prima, pazienza per l'allergia, starà attento, prenderà qualche precauzione. Non passa molto tempo, ed ecco venire a galla la verità: non era allergia, era cancro. Un tumore già allo stadio avanzato, a Giorgio non resta molto da vivere ma finché si può glielo tengono nascosto.

Che cos'era successo? Probabilmente questo: nei mobili dagli anni '60 in qua non si usa più il legno, ma trucioli o segatura tenuti insieme da colla; basta guardare un'antina qualsiasi di un mobile moderno e si vedrà come funziona. Queste colle, così come le vernici, erano spesso cancerogene; di regola in casa non succede niente, ma se si taglia, si sega, se ci si lavora sopra ogni giorno per otto ore al giorno, si finisce con l'inalare polveri sottilissime e pericolose. Questa potrebbe essere l'origine del tumore che ha portato via Giorgio da sua moglie e dai suoi bambini, ben prima dei cinquant'anni; dico che potrebbe esserne l'origine, ma di preciso non lo sapremo mai. Nessuno ha indagato su Giorgio, probabilmente la famiglia è stata aiutata finanziariamente dalla ditta in cui lavorava (era bravo e gli volevano bene), nemmeno il servizio sanitario o l'Inail hanno ritenuto opportuno intervenire. Insomma, niente di niente, fatalità, cose che capitano a tanti. Nel frattempo, le tecnologie sono cambiate; i ricercatori hanno preso atto del pericolo e oggi si possono avere pannelli di truciolato senza colla. Ma, per Giorgio, ormai è tardi.

Ecco qualcosa che non entrerà mai nelle statistiche degli infortuni sul lavoro. Eppure, è successo per davvero e non è certo un caso isolato. Così va, ancora oggi: come nelle sentenze sul petrolchimico di Marghera, dove è bastato dire che gli operai fumavano e bevevano per far assolvere i responsabili, o come il processo di Casale sulle cave di amianto. Eccetera.

giovedì 22 agosto 2019

Come ti racconto la crisi

Qualche settimana fa, nella sua trasmissione su Raitre a mezzogiorno, Corrado Augias deplorava il fatto che sui siti dei quotidiani le più cliccate siano le notizie leggere. Vale a dire: invece di informarsi e di approfondire, come dovrebbe fare ogni cittadino in una democrazia, si va a cercare quello che c'è di più futile e che ti porta lontano dalla realtà.
In tempi normali sarei d'accordo con Augias, ma poi mi rendo conto che anch'io faccio lo stesso. In questi giorni, per esempio, schivo con estrema cura tutti gli "speciali" sulla crisi di governo, i pareri ponderosi, le interviste a questo e a quello. Sono informazioni, in gran parte, inutili. Personalmente, peferisco aspettare e vedere cosa succede.
La vera questione in ballo, ed è cosa che preoccupa, è la sopravvivenza della democrazia. Se si andasse a votare adesso, in Parlamento avremmo una maggioranza che potrebbe cambiare la Costituzione da capo a fondo, ricostituzione del partito fascista compresa. Di più non mi interessa sapere, spero solo che almeno per i prossimi tre anni si possa evitare il danno. Un rinvio, come per i condannati a morte, sperando che qualcosa cambi.

Sembra che informare sia mettere cinquanta microfoni davanti a questo e quello, compreso Berlusconi che è stato condannato a cinque anni di carcere per truffa ai danni dello Stato ma è ancora lì, a discutere della crisi di governo con il Presidente della Repubblica. E chissà se il Presidente della Repubblica, che ha avuto un fratello ucciso della mafia, pensa nel frattempo che un amico fraterno di Berlusconi e fondatore di Forza Italia è in carcere proprio per vicinanza alla mafia.
Ma, intanto, i cronisti dei telegiornali e di tutti i media vanno avanti a porgere il microfono, a prendere appunti e a commentare le dichiarazioni di chi ha governato per decenni, e ancora governa, con quel partito fondato da quasi mafiosi, corruttori di giudici, frodatori dello Stato. In più, uno di quelli che più spingono per l'affossamento della democrazia straparla di democrazia (Salvini: andare al voto, andare al voto), forse senza neanche aver mai capito che cosa è veramente la democrazia (il rispetto delle minoranze, per esempio). Ancora: Salvini bacia il crocifisso e invoca la Madonna, incurante perfino delle parole del Papa e non solo dell'intelligenza e del buon senso ("buon senso" è un'altra delle parole che Salvini adopera spesso a vanvera).
Insomma, quasi nessuno dice le cose come stanno e si ascoltano invece molti discorsi che ci potrebbero essere risparmiati. Mi piacerebbe dare ragione ad Augias, ma in questi giorni se c'è un algoritmo che monitora quello che faccio on line mi troverebbe sempre più su notizie futili o senza importanza, compreso il calciomercato. Perché mai dovrei approfondire ciò che dice la Meloni? Perché dovrei stare ad ascoltare e commentare le parole di persone che stanno con pregiudicati e pluricondannati, o che magari fanno apologia aperta di un regime dittatoriale che ci portò a una guerra disastrosa e all'isolamento internazionale?

La questione dell'informazione, e di come è ridotta oggi, è di quelle che inducono al pessimismo totale. E' mai possibile, crisi di governo a parte, che sia impossibile sfuggire alla notizia delle dimissioni di Totti da dirigente della Roma (data ovunque e con un risalto eccezionale) quando poi passa senza traccia un'epidemia devastante di ebola? No, io proprio non ce la faccio ad approfondire il nulla, e vado piuttosto a far impazzire l'algoritmo di Google saltando da Hans Hotter a Bugs Bunny, da James Joyce a Paulo Dybala, dalle strutture di Kekulé a Paperino. Io mi sono sempre informato e ho sempre cercato di approfondire, il risultato è che mi trovo in questo Nuovo Millennio in mezzo a gente che invece non lo ha mai fatto, e che adesso detta legge - non per modo di dire, proprio le leggi che poi saremo costretti a seguire. Mah.

lunedì 19 agosto 2019

Faccetta nera, o chissà che cosa


La notizia è questa: c'è chi chiede di far cantare Faccetta nera come "compensativo" se si canta Bella ciao. Ho letto e ascoltato molte risposte in merito, ma mi sembra che nessuno vada a cogliere il vero significato della questione, e la cosa mi sorprende. Di regola, c'è lo sdegno; che è giusto, ma magari per un adolescente di oggi è comunque difficile capire, gli adolescenti sono stati cresciuti con il dogma "uno di qui, uno di là, sono tutti uguali", e dal fascismo ci separa ormai quasi un secolo.

In casi come questi io sono per l'analisi del testo: andiamo a vedere se è giusto comparare le due canzoni, "una di qui, una di là". Comincio da "Faccetta nera", che fin dal primo dei suoi versi (bell'Abissina) svela la sua origine, la guerra in Etiopia. L'Italia fascista occupa militarmente l'Etiopia nel 1936, e la perderà molto presto, dopo cinque anni, nel 1941. Per la conquista dell'Etiopia, l'Italia fu duramente condannata dalla comunità internazionale e venne sottoposta alle cosiddette "inique sanzioni", che erano inique solo per la propaganda fascista. Nel corso della guerra per la conquista dell'Etiopia furono inoltre usate armi chimiche espressamente vietate dalle convenzioni internazionali. Il tutto è stato accuratamente documentato dallo storico Angelo Del Boca, ma anche da persone come lo scrittore Luigi Meneghello, che dopo il 1945 si trasferì in Inghilterra per insegnare all'università di Reading e scoprì che gli inglesi diffidavano di noi italiani anche (o soprattutto) per queste cose, che in Italia vennero tenute accuratamente nascoste. La propaganda fascista continua a funzionare, insomma, e neanche la documentazione storica sembra poterla intaccare; su internet ho trovato curiose risposte alla questione dei gas e delle armi chimiche usate dai fascisti in Etiopia, del tipo "gli inglesi usarono le pallottole dum dum". Dico "curiose risposte" perché è evidente che un crimine non annulla l'altro. Un morto di qua e un morto di là non fanno zero morti, la somma è di due morti. Provate a usare questo tipo di ragionamento in tribunale o magari anche soltanto a scuola, "io non ho studiato ma neanche quello là lo ha fatto"... In tribunale sarebbe un'ammissione di colpa, a scuola porterebbe alla bocciatura.
 
L'antica Abissinia corrisponde all'Etiopia, più o meno; comprendeva la Nubia e non solo le attuali Etiopia ed Eritrea. L'etimologia dice che per gli antichi greci e romani il significato del nome Abissinia è "pelle bruciata", a indicare il colore della pelle dei locali: "Faccetta nera", per l'appunto, che di per sè non è un insulto e anzi - nel prosieguo della canzone - è quasi una dichiarazione d'amore. Leggendo il testo, o cantando la canzone, appare evidente che gli attuali nostalgici di quel periodo dovrebbero accogliere a braccia aperte gli immigrati di queste settimane, almeno i somali e gli etiopi ed eritrei, come compatrioti. Io direi anche i libici, ma "Faccetta nera" parla delle belle abissine, e quindi per ora le belle libiche rimarranno fuori da quello che sto scrivendo. In effetti, va detto, ci furono molti matrimoni misti e molti italiani si comportarono bene in Etiopia e in Eritrea; non i capi militari, ma la gente comune (contadini e lavoratori) sì.

Passando a "Bella ciao", si tratta dell'elaborazione di una canzone popolare molto più antica e si riferisce, nel testo che conosciamo oggi, alla Resistenza contro il fascismo cioè dopo il 1943. I primi versi, "una mattina mi son svegliata / ed ho trovato l'invasor" mi fanno pensare a Sant'Anna di Stazzema, a Boves, a Marzabotto, a Civitella, a tutte le stragi nazifasciste di quel terribile anno 1944. E' possibile passare sopra a queste stragi nazi-fasciste? Ognuno ha la sua coscienza, non sto qui a discutere ma tengo a rimarcare che affrontare la questione con "uno di qui, uno di là" è davvero una cosa troppo superficiale per una persona con un minimo d'intelligenza.

C'è poi il lato estetico, tutt'altro che secondario. "Faccetta nera" è una marcetta molto rudimentale, una di quelle cose che ti si appiccicano addosso e non riesci più a mandarle vie. Jovanotti una volta ebbe a dire che "tanti auguri a te" è la canzone più brutta del mondo, ma secondo me si era dimenticato del trio Faccetta nera / Giovinezza/ Inno dei sommergibilisti, che meritano il primo posto ex aequo. Non per motivi storici o politici, ma proprio perché sono brutte. (Al quarto posto metterei Toto Cutugno, ma qui mi devo fermare per non uscire fuori tema). "Bella ciao", come si diceva, riprende una canzone molto più antica; Moni Ovadia ne ha trovato, nella melodia, un antecedente perfino nella musica klezmer; ma il tema musicale sembra essere ancora più antico. Dal punto di vista musicale, "Bella ciao" è una canzone ben costruita e ben armonizzata, tutt'altro che banale, come molte composizioni del nostro folklore. Non a caso, è stata ripresa e cantata da artisti di fama internazionale, come Yves Montand. Piace a tanti, "Bella ciao", al di là del testo.

Davanti alla dichiarazione di bruttezza per "Faccetta nera" c'è chi vorrebbe obiettare: e allora, "Fratelli d'Italia"? La pensavo anch'io così, tanti anni fa, ma poi ho ascoltato il nostro inno nazionale diretto da Salvatore Accardo e da Riccardo Muti, e ho cambiato idea. "Fratelli d'Italia" è spesso cantato male, ma non è così brutto come sembrerebbe. Allargando il discorso ad altri inni famosi, La Marsigliese, L'Internazionale, God save the Queen, sono musiche ben costruite e ben armonizzate, con temi e melodie non banali. Il lato estetico, la bellezza della melodia, è importante: per l'inno russo è stata conservata la musica dopo la caduta dell'Urss, così come per quello tedesco (opera di Franz Joseph Haydn, nel '700) dopo la caduta del nazismo. Non a caso, Arturo Toscanini si rifiutò di dirigere "Giovinezza" all'apertura di un concerto. Al di là delle opinioni politiche, certe musiche sono davvero troppo brutte per essere accettate in concerto.

In conclusione, la domanda d'obbligo è questa: serve poi fare l'analisi del testo, l'esegesi? No che non serve, chi canta "Faccetta nera" o "Giovinezza" non è il tipo che ascolta e che ragiona. So già cosa potrebbe succedere se qualcuno di loro leggesse ciò che ho appena scritto: farebbero come i fumatori degli anni passati, incuranti di tutto, che davanti al divieto di fumare ti buttavano il fumo in faccia. E allora per chiudere suggerisco testi alternativi: come "quando saremo a Macallè / noi mangerem la pastasciutta insieme a te". Non solo questa variazione è autentica (d'epoca) ma è divertente e nobilita molto la canzone. Buona pastasciutta a tutti.

(la foto di Abebe Bikila, due volte campione olimpico nella maratona, viene da Wikipedia.it)

giovedì 15 agosto 2019

Dieci anni di TAV

Sui giornali e in tv circolano gli spot per i dieci anni dell'Alta velocità; sono ormai passati dieci anni e l'andare da Milano a Roma in tre ore è ormai cosa normale. Intanto continuano i dibattiti sui No-TAV, anche in Parlamento; il cantiere TAV in Val di Susa è infatti una della cause della crisi di governo appena iniziata in questi giorni. La cosa che più mi colpisce è che non si sia mai aperto un vero dibattito sulla questione: sembra un dialogo tra sordi, o meglio una delle due parti (la stragrande maggioranza) è sorda e non ascolta l'altra. Provo a fare un po' d'ordine: serve l'Alta velocità? certo che sì, era ed è il sogno di tutti quello di spostarsi velocemente, di tornare a casa o andare in vacanza in un amen. Rimangono però intatte - purtroppo - tutte le considerazioni sui treni locali, e sull'impatto ambientale. Ora, è chiaro che a uno spot celebrativo non si possono chiedere approfondimenti, ma provate a chiedere ai pendolari cosa pensano delle condizioni dei treni che devono usare, della loro frequenza, del sovraffollamento, delle soppressioni di treni in orari di punta. Sui treni pendolari sono anche successi incidenti gravi o gravissimi: è possibile parlarne? Conosciamo già la risposta di Trenitalia: dei treni locali si devono occupare le Regioni. Direi che è comodo fare il manager in questo modo, io mi occupo di Milano e di Roma, magari se sono proprio costretto anche di Firenze e Bologna, ma per carità non chiedetemi di Mantova e di Voghera o della Circumvesuviana, uffa che barba, non mi sporco le mani con queste cose. Io mi ricordo ancora quando si cominciò a parlare di "queste cose", a fine anni '90, con la discussione sui "rami secchi": venne definito "ramo secco" anche la ferrovia Milano-Lecco, e a molti sembrò una cosa assurda. Collegare bene Milano e Lecco, con il treno, significava e significa ancora togliere dalle strade migliaia di automobili. Era vero che quella ferrovia "non rendeva", ma un governo serio (soprattutto in Regione) avrebbe visto l'occasione di investimenti per un miglioramento delle condizioni di vita di noi tutti. Invece, si fecero investimenti per nuove strade e autostrade; e per la TAV, che di Lecco e della Brianza non si occupa per niente.
E poi c'è la questione dell'ambiente: gli abitanti della Val di Susa si preoccupano delle condizioni del luogo in cui vivono, è per questo che sono No-TAV. Non sono contrari alle grandi opere, si chiedono che fine farà la loro valle con un cantiere così devastante e destinato a durare almeno vent'anni. Ma nei dibattiti sulla TAV dell'ambiente non si parla nemmeno, in Val di Susa è il centro delle proteste ma manager e politici rispondono sempre che è un'opera essenziale per la viabilità. Un circolo chiuso, una porta sbarrata, o se si vuole un dialogo tra sordi, o meglio "non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire". Eccetera. La verità è però che dell'ecologia si ridacchia o si sbuffa, anche la gente comune che incontro tutti i giorni alza le spalle o si allontana spazientita quando si affrontano questi argomenti, e giornali molto diffusi fanno titoli a tutta pagina sui "gretini" che se ne preoccupano. Intanto succede questo: frane che bloccano intere valli, da Nord a Sud, inondazioni devastanti, siccità altrettanto devastanti, bombe d'acqua, trombe d'aria. Da qui dovrebbe partire il dibattito sui No-TAV della Val di Susa, invece ogni volta torna il solito cavallino della giostra: le opere essenziali, la circolazione delle merci, "chi mai vorrebbe tornare a impiegare otto ore per andare da Roma a Milano?".

E dunque, l'Alta Velocità è bella ed è giusto celebrarla, ma quale è il vero prezzo che stiamo pagando? Anche sorvolando sul denaro (l'analisi dei costi TAV in Italia confrontata con tratti analoghi in Francia è terrificante), la vera domanda è: a che prezzo? E' la domanda di Faust, in fin dei conti. Anche Faust, nella seconda parte dell'opera di Goethe, sogna le Grandi Opere, e le realizza. Fa anche del bene, ma c'è un prezzo. Sappiamo bene chi c'è dietro alle grandi opere del dottor Faust, non sappiamo ancora cosa ci riserva il futuro ma i dati sull'ambiente in cui viviamo sono ogni giorno più allarmanti, eppure questo non sembra interessare a nessuno. Qui mi fermo, e per il resto, cioè per il prezzo da pagare, chiedete ai pendolari per esempio, o a chi vive in posti che erano bellissimi e ora sono cemento. Nell'anno 2019, decennale della TAV, ci sono ormai intere valli e paesi in cui ci si comincia a chiedere se si può continuare ad abitare lì, tra frane e inondazioni; interessa a qualcuno parlarne?
 
 
(Delacroix, disegno per il Faust di Goethe)
 

lunedì 12 agosto 2019

7-6 ai rigori


Da appassionato di calcio (mio malgrado, smetterei volentieri) rimango sempre stupito ogni estate dal modo in cui vengono raccontate le amichevoli estive. Del tipo: Tizio batte Caio 7-6 ai rigori. E giù commenti sulla vittoria dell'uno e la sconfitta dell'altro, commenti poi puntualmente ripresi e amplificati dai tifosi nei bar (non avete idea di quanto queste cose facciano subito presa). E ogni volta il mio pensiero è: chi se ne frega dei rigori, se sono andati ai rigori significa che la partita è finita in pareggio. E anche: chi se ne frega del risultato, è solo un'amichevole estiva, ci sono calciatori che se ne andranno subito, altri che non giocheranno mai da titolari in campionato, la preparazione atletica è ancora da completare. Allo stesso modo vengono recensiti gli otto a zero con le formazioni di dilettanti in un altro tipo di amichevoli, quelle vecchio stile, le "sgambate" di allenamento dove gli avversari si guarderebbero bene dal tentare un intervento deciso sulle gambe di campioni che guadagnano cento volte più di loro.
Cosa dovrebbe fare un giornalista serio davanti a queste amichevoli? In primo luogo, riportare la formazione iniziale con l'esatta disposizione in campo - ma quasi sempre è un'informazione difficile da recuperare sui giornali, anche quelli on line. Eppure, è l'unica cosa che può avere qualche interesse nel calcio d'agosto: sta cambiando modulo la mia squadra, oppure gioca come l'anno scorso? Può ben darsi che una sconfitta arrivi da nuovi schemi di gioco non ancora memorizzati, da esperimenti che poi non verranno mai ripetuti... Mah.

Porto qui queste riflessioni perché quest'anno le amichevoli estive coincidono con una crisi di governo, anch'essa mal raccontata. Chi se ne frega delle foto del politico al mare, in spiaggia con i suoi fans? Chi si ricorda che quel tal politico intervistato ha una condanna definitiva a cinque anni di galera per aver frodato il fisco? Purtroppo, i giornalisti politici non sono migliori di quelli sportivi. Ci sono molte eccezioni, s'intende, molti cronisti politici sono bravi e molti fanno ancora inchieste approfondite, ma purtroppo prevale la cretinata. La cretinata è più spettacolare, fa audience; l'inchiesta approfondita non la legge nessuno e nessuno la riprende, non solo al bar ma anche nei commenti di politica sui quotidiani.
Ricordo ancora quando si iniziò con questo andazzo, i giornalisti con il microfono che assediano per strada il politico di turno, aspettando che dica chissà che cosa. Allora era una novità, correvano gli anni '80 e l'informazione era stata fin lì molto ingessata; ma, oggi? Oggi siamo ancora qui, al 7-6 ai rigori. In politica come nel calcio. E intanto al bar, nelle strade, sui posti di lavoro, nei negozi, la gente parla e riprende solo le cretinate. Chi prova ad affrontare un discorso serio e approfondito viene guardato con sospetto, dopo un po' viene evitato. Un altro brutto segnale per il futuro.
 

 
(la vignetta viene da La Settimana Enigmistica)

venerdì 9 agosto 2019

Un uomo non è un'isola


Una delle specialità dei pubblicitari è quella di trasformare in una cretinata, con il loro tocco da Re Mida alla rovescia, anche le cose più belle e più grandi. Per esempio, e questo è il caso minimo, si prende un brano musicale a cui si è affezionati e lo si abbina a un prodotto che non compreremmo mai; oppure si prende un brano di un autore importante e lo si arrangia e banalizza per lo spot. Dato che i pubblicitari hanno ormai da decenni invaso anche la programmazione tv, il problema comincia a diventare pesante. Non lo dico per scherzo: c'è tanta gente, per fare un solo esempio, che collega ormai il nome di Darwin a quella trasmissione lì, ma se Charles Darwin fosse vivo partirebbe una citazione per danni miliardaria.
Dato che di cretini (e di cretine) è strapieno il mondo della pubblicità, provo a rimediare mettendo qui l'originale di una frase storpiata da un "creativo" (o creativa) per uno spot che torna in continuazione proprio nei rari momenti in cui tengo la tv accesa, cioè nei dintorni del telegiornale:

Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l'Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell'umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.
John Donne (1572-1631, inglese) Da Meditazione XVII in Devozioni per occasioni d'emergenza, Editori Riuniti, Roma, 1994, pp. 112-113

"Nessun uomo è un'isola" (No Man Is an Island, Harcourt Brace, New York 1955) è un saggio di Thomas Merton. (1915-1968, monaco cristiano, americano) Il titolo, ripreso da un passo del "Devotions Upon Emergent Occasions" (1624) del poeta John Donne (No man is an Iland, intire of it selfe; every man is a peece of the Continent, a part of the maine...), vuole significare che ogni uomo è una componente integrante dell'umanità, una parte di un tutto: «Quello che faccio viene dunque fatto per gli altri, con loro e da loro: quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo»
Thomas Merton, Nessun uomo è un'isola, Garzanti, Milano 1995
(le citazioni sono tratte da www.wikipedia.it)

 
(Stanley Spencer, 1911, John Donne in Heaven)

PS: a causa di questa pubblicità avrei cancellato dalla mia vita quel supermercato, per uno spot così cretino e così insistente, ma dalle mie parti quel supermercato non c'è e quindi non posso vendicarmi. (Dalle mie parti, zona Como-Varese-Milano, dominano incontrastati altri supermercati e le cooperative sono da sempre fuori dai giochi - ma questo è un altro discorso).


mercoledì 7 agosto 2019

Bersi il profumo

Una fascinosa Cindy Crawford passeggia per le vie di una storica città italiana, camminando elegantemente tra scalinate e monumenti; altrettanto elegantemente si siede al tavolo di un caffè e le versano del profumo da bere. A questo punto Cindy beve il profumo, e io mi chiedo cosa mai stia succedendo - poi capisco, non è profumo, è la bottiglietta di un tè freddo (uno dei tanti tè in bottiglia) che è uguale a quella del profumo, ma dentro il profumo non c'è (almeno, lo spero). Una trovata degli astutissimi managers del marketing: la bottiglietta sexy che differenzia quel tè dagli altri tè più volgari e ordinari.

Che dire, la prima cosa che mi viene da pensare è che bere il profumo lo avevo visto fare solo nei film americani, con gli alcoolizzati che bevono ogni cosa che abbia dentro dell'etanolo. La seconda immagine che mi viene in mente è il tè dei distributori automatici, una delle cose peggiori che mi sia mai capitato di bere nella mia vita. Il tè dei distributori automatici è acqua bollente, acido citrico, colorante, e una tonnellata di zucchero. Forse c'è anche del tè, chissà, ma come si fa a saperlo?

I tè freddi in bottiglia o in lattina sono più o meno identici a quelli dei distributori automatici, con la differenza che oggi ci mettono gli edulcoranti, o dolcificanti, al posto dello zucchero. I dolcificanti hanno un sapore terribile. Lo so, non dovrei scriverlo e non lo scrive mai nessuno, ma il sapore dei dolcificanti (tutti quelli che ho avuto la disgrazia di assaggiare) non solo è orribile, ma ti rimane in bocca per ore ed ore. Anche la gazzosa dei supermercati, ho scoperto, è strapiena di dolcificanti: ne avevo già messa una nel carrello, poi mi è venuto in mente di leggere l'etichetta (lo faccio quasi sempre) e l'ho rimessa sullo scaffale, inorridito. La gazzosa, o gassosa, è acqua, zucchero e limone: una delle bevande gassate più semplici e più antiche. Non è una cosa indispensabile, si può anche non berla; idem per il tè freddo, che è un po' più complicato da produrre. Alle volte, per dissetarsi basta un po' di acqua del rubinetto.
 
Provo a pensare ad un bel tè fatto come si deve, freddo o caldo che sia. Non importa neanche che sia un tè di qualità pregiata, basta anche quello delle bustine che si trovano nei negozi: "quanto zucchero vuole?". Anche niente, grazie, io mi sono abituato a bere tè e caffè senza zucchero e mi ci trovo benissimo. "Latte o limone?" Qui dipende dalle giornate, alle volte mi piace il latte ma se c'è un bel limone non trattato (senza il difenile nella buccia, intendo) mi piace una fettina sottile di limone, che è anche bella da vedere. Mi rendo conto che sto sognando, chi mai ti venderebbe un bicchiere di tè freddo vero?
Le pubblicità del tè in tv sono tra le più brutte in assoluto, così brutte che mi vergogno perfino a citarle. Lo vendono, quindi può darsi che io mi sbagli; comunque sia preferisco vedere Cindy Crawford che beve il profumo piuttosto che ascoltare il tizio che ti dice che "bere il tè freddo sviluppa gli addominali quando sei in spiaggia". Cretinata per cretinata, mi tengo Cindy Crawford; ma poi il tè freddo me lo preparo in casa mia, e se sono fuori casa evito, non si sa mai cosa ti possono portare.


(come sarebbe a dire, "chi è Cindy Crawford?" Cindy Crawford è Cindy Crawford, se non sapete chi è siete dei tamarri - chiedo scusa, sto scherzando, se avete meno di trent'anni siete più che autorizzati a non conoscere le top model di fine millennio)
(nelle immagini: una pubblicità inglese anni '30; un poster francese di inizio '900; Cindy Crawford in una foto di Irving Penn del 1994)

lunedì 5 agosto 2019

Quando una radio è libera

Non so di preciso che anniversario sia, ma su Repubblica trovo una serie di interviste a deejay più o meno ricchi e famosi, che rievocano gli inizi della loro fortuna nelle radio private - quelle che, a metà anni '70, venivano chiamate "radio libere". Sono interviste interessanti, a loro modo un documento d'epoca, e per una certa parte sono anche i miei ricordi personali. Non le ho lette tutte, ma una cosa comunque mi sento di dirla: confermo che sono documenti d'epoca interessanti, ma aggiungo che sono anche documenti molto di parte. Uno storico serio andrebbe a cercare anche altre fonti e altri pareri, ma la storia delle radio e delle tv di quegli anni è sempre stata scritta da persone molto di parte, compreso Aldo Grasso con i suoi volumi "storici"; per queste ragioni provo ad aggiungere la mia personale testimonianza, molto piccola s'intende, certamente di minoranza, ma la lettura di queste interviste mi ha risvegliato ricordi non sempre piacevoli e quindi mi sembra giusto parlarne.

Comincio da Gerry Scotti, che ricorda un'estate in vacanza passata cercando di captare Radio 101 (One-o-one), penso intorno al 1975. All'epoca, le radio private non avevano mezzi potenti, e captare il segnale in FM (modulazione di frequenza, la vecchia radio insomma) non era sempre facile, soprattutto lontani dalle grandi città come Milano. Il secondo ricordo è quello di Alex Peroni, altro deejay oggi meno famoso di Scotti, che era invece su Radio 105: "non trovavamo musica da ascoltare (...) negli anni '70 non c'era nulla, sì, la Rai, ma quella non era musica per noi." Una frase che definirei curiosa: a quel tempo lo pensavo anch'io, soprattutto per Radiouno e Radiodue (che allora non si chiamavano così, erano il primo canale e il secondo canale), ma in genere ci si riferiva alla musica "di Sanremo", alle Rita Pavone e ai Gianni Morandi, magari a Claudio Villa e Orietta Berti. Noi quindicenni o quattordicenni avremmo voluto ascoltare i King Crimson o i Cream, e invece avevamo il Festival di Sanremo; questa era l'utopia della "radio libera", ascoltare musica nuova o magari anche vecchia, ma che non fosse quella roba lì. Andò diversamente, tanto è vero che negli anni successivi Gerry Scotti e gli altri deejay si misero tranquillamente al servizio non solo del Festival di Sanremo, ma anche di tutte le trasmissioni commerciali delle nascenti tv berlusconiane. Gerry Scotti cita la famosa canzone di Eugenio Finardi, "quando una radio è libera, ma libera veramente, piace ancor di più perché libera la mente"; ma lo fa a sproposito, non credo che fosse quel tipo di radio che aveva in mente Finardi nello scrivere la canzone. Per me, la stagione delle "radio libere" (ben presto diventate "radio commerciali" o "radio private") fu una grande delusione. Le frequenze della FM si erano riempite, traboccavano, ma trovare qualcosa di bello o di non banale era diventato difficilissimo. Nemmeno il jazz, tanto per dire. Pubblicità dappertutto, quella sì, e una compilation delle notizie più cretine apparse sui giornali; mai un approfondimento, mai una cosa seria, buttare in scherzo anche le tragedie appena possibile. C'erano delle eccezioni, s'intende: come Radio Popolare, che fece per anni ottime trasmissioni. Ma queste radio erano difficili da sintonizzare, i loro trasmettitori non erano così potenti come 101 o 105 o Milano International, e si finiva sempre, prima o poi, per ritrovarsi (senza averle cercate ) sulle altre radio, quelle ben sostenute da finanziamenti non sempre innocenti. In seguito, molti anni più tardi, sarebbe arrivata anche Radio Maria: con trasmettitori così potenti da annullare ogni altra radio sulle frequenze vicine.
C'era un gran casino, a dirla tutta: il governo non volle mai decidere, di fatto non si è mai messo ordine nel caos delle frequenze radio, e quando toccò alle frequenze tv si capì che cosa c'era sotto, ma questo è un discorso che porterebbe lontano, e per oggi mi fermo qui.
 
Aggiungo solo il mio personalissimo ricordo di uno "smanettamento" simile a quello di Gerry Scotti, ma per poter ascoltare Radiotre (terzo canale Rai) che trasmetteva la musica che aveva cominciato ad interessarmi. Radiotre fu di fatto cancellata per anni dalla FM, quasi impossibile captarla perfettamente. Ascoltavo un quartetto d'archi, e d'improvviso saltava fuori l'uzz uzz di una discodance di quelle che piacciono a Gerry Scotti. Poi ero riuscito a rimediare, in qualche modo: andando a lavorare (in fabbrica, a turni, anche le domeniche) avevo i soldi per comperarmi un impianto come si deve, e - sia pure a fatica, facendo acrobazie con l'antenna - a cancellare almeno per un po' dalla mia vita le radio commerciali e i loro deejay. Insomma, io negli anni '70 avevo cominciato un percorso che mi avrebbe portato ai concerti di Claudio Abbado e di Carlos Kleiber, al jazz, alla musica folk di ogni nazione, a John Renbourn, a Leonard Cohen, a Tim Buckley e a Nick Drake, a Robert Wyatt. Non ero certo l'unico: tengo a sottolineare che non eravamo tutti uguali e non eravamo tutti così pigri e conformisti, c'era un orizzonte così vasto da esplorare e da conoscere che sarebbe stato un peccato stare rinchiusi dentro il festival di Sanremo e i suoi immediati dintorni. Gerry Scotti ha fatto scelte diverse dalle mie, è diventato ricco e famoso, e sono ovviamente contento per lui (se lo merita, diciamolo, e andrei volentieri a mangiarmi un bel risotto con gli ossibuchi con lui), ma il mondo non finisce con Gerry Scotti e con i suoi amici deejay, e ogni tanto è giusto ricordare che esiste altro, al di là di quelle quattro cosette che ascoltate sempre in cuffia.

sabato 3 agosto 2019

Quattro riflessioni da Ginevra Bompiani

Nei mesi scorsi, sotto le elezioni, Ginevra Bompiani ha rilasciato a Repubblica un'intervista importante, che ha purtroppo avuto pochissimo risalto. Riprendo alcuni tra i punti di maggior interesse, sperando che si possa ripartire da qui:

1) « ... temiamo i migranti, che sono poveri derelitti, invece di temere il cambiamento climatico che è una delle principali cause delle migrazioni. »

2) « il problema non è l'età dei politici, ma la natura immutabile del potere. Non credo che avere avuto al potere la Carfagna, Renzi o Di Maio ci abbia migliorato la vita.»

3) «... la gente non legge più i libri per la loro qualità formale, libri che non siano di intrattenimento. Si leggono e si scrivono soprattutto gialli: fa parte di questa smania punitiva che si sta diffondendo.»

4) « ... tutto è nato da Berlusconi, che nel 1994 ha dato il via alla deculturazione del Paese.»

I primi tre punti penso che parlino da soli, e non ho niente da aggiungere. Per l'ultimo punto, io direi che Berlusconi influisce pesantemente sul nostro Paese almeno dal 1986, forse anche da prima; e poi che forse questo era il desiderio profondo degli italiani, volevano proprio la deculturazione e infine l'hanno ottenuta.

(intervista pubblicata dal Venerdì di Repubblica il 24 maggio 2019, penso che sia ancora disponibile sul sito del giornale; Ginevra Bompiani ha ottant'anni, è editrice e scrittrice ed è figlia dell'editore Valentino Bompiani) (l'intervista è curata dal giornalista Concetto Vecchio)


giovedì 1 agosto 2019

Forza Nuova, Casa Pound, e la strage di Bologna

Mi vedo già l'obiezione: Casa Pound e Forza Nuova non c'erano ancora, il 2 agosto 1980. Perché dunque tirarli in ballo? A scanso di querele e di equivoci, lo dico subito anch'io: Casa Pound e Forza Nuova non c'erano ancora, il 2 agosto 1980. C'erano però altri movimenti simili, molto simili, anche troppo simili. I militanti dei NAR o di Ordine Nuovo oggi penso che gravitino intorno a Forza Nuova e a Casa Pound, gli argomenti sono gli stessi, le idee sono le stesse, le facce sono le stesse, alle volte (quando si tratta di qualcuno sopra i cinquant'anni) sono persino le stesse persone. Non tutti coinvolti nel terrorismo, certo, ma con chi la pensa così mi è capitato di parlare più volte, anni fa, e riconosco - come si può dire? - lo stile.

Troppo spesso si sente dire che non si sono trovati colpevoli per le stragi di quel periodo, da Piazza Fontana 1969 a Piazza della Loggia nel '74, al treno Italicus, una lunga serie fino alla stazione di Bologna nel 1980, ma non è vero. Ci sono sentenze precise, condanne, inchieste, e tutte portano alla destra neofascista di quegli anni. Le condanne per la bomba alla stazione di Bologna portano diritti, per esempio, a un mio coetaneo che si chiama Giusva Fioravanti (Giuseppe Valerio Fioravanti) e alla sua compagna Francesca Mambro; le condanne per Piazza Fontana portano a Freda, Ventura, Zorzi... Lascio a chi legge il piacere (si fa per dire) di continuare le ricerche per suo conto, magari aggiungendo i cognomi di Mario Tuti, di Pierluigi Concutelli, e l'assassinio del giudice Vittorio Occorsio. Quando si parla del terrorismo anni '70 saltano sempre fuori le Brigate Rosse (potenza di quel nome: per i pubblicitari è un logo perfetto, centra perfettamente il target e lo si ricorda facilmente), ma a quel tempo c'erano almeno tre direzioni a colpire: da sinistra BR e Prima Linea, da destra quelli che ho citato sopra, e una terza via (spesso collusa) di criminalità comune, dai rapimenti di persona alla lotta fra mafia e 'ndrangheta (a Milano vinse la 'ndrangheta, vedi Roberto Vallanzasca, Francis Turatello, etc). Semplificando in modo brutale (molto brutale) si può provare a dire così: che BR e Prima Linea sceglievano con cura i loro bersagli e li andavano a colpire (da Montanelli ad Aldo Moro), mentre la destra neofascista metteva bombe nelle piazze e sui treni, nello stile odierno dei terroristi islamici. Dietro c'erano finanziamenti cospicui: l'Unione Sovietica e la scuola palestinese per le BR e Prima Linea, i servizi segreti e molto probabilmente la CIA per i neofascisti, che avevano campi di addestramento proprio qui in Italia (anche questo più che documentato). L'Unione Sovietica non c'è più, da trent'anni; la Russia di oggi chissà chi potrebbe finanziare (mah).

Mi pare di ascoltare un'altra obiezione: se collego Forza Nuova e Casa Pound ai movimenti di destra di quegli anni, "allora il PD" ? Qui ci sono almeno due errori, dovuti a disinformazione o a memoria corta. Il PCI fu sempre avversario delle BR e di Prima Linea, sostenendo il democristiano Cossiga (ministro degli Interni) nel momento più difficile; va ricordato che il PCI di Enrico Berlinguer sfiorò il 40% nelle elezioni del 1975, insieme al PSI. In secondo luogo, pensare che il PD odierno sia l'erede di quel PCI sfiora l'analfabetismo politico.

In conclusione (ma non si finirebbe mai di parlarne) a me fa sempre impressione vedere e ascoltare gente che ride su Anna Frank e poi fa battute sui pedofili (quanti anni aveva Anna Frank?), o che usa la strage delle foibe per sminuire la strage delle Fosse Ardeatine (un morto di qui, un morto di là: non fa zero morti, fa due morti), o magari che agita lo spettro degli anarchici (come nel 1969 al tempo di Piazza Fontana) ma poi si fa trovare con un arsenale in casa, missili compresi, come è successo nei giorni scorsi fra la Lombardia e il Piemonte. Questo argomento, somiglianze e differenze tra il terrorismo di destra stragista e le organizzazioni di destra odierne, sarebbe un bel soggetto per un'inchiesta giornalistica o per una tesi di laurea. Spero che se ne parli molto, sarebbe più che utile ma so già che non succederà.
Un saluto ai familiari delle vittime della strage di Bologna, con l'augurio di non sentir più dire che non si sa di chi è la colpa.