mercoledì 29 settembre 2010

Gratta e vinci


Il gratta e vinci, vera religione del nostro tempo. (Neanche il gratta e sosta ha potuto scalfirne il prestigio).
NB: la vignetta di Vauro è del 1996.

lunedì 27 settembre 2010

Monza è in Turchia

Un'intervista che ho conservato per un anno, sperando che non ci fosse bisogno di ripubblicarla. Invece no, bisogna proprio ascoltare e prendere nota: il miglior modo per aiutare i brianzoli è chiudere le fabbriche e spostare il lavoro all'estero. I brianzoli prendano nota, e anche tutti i lombardi, i veneti, i piemontesi, gli emiliani...

Monza resta “un buon esempio della parte migliore d’Italia”: lo dice Aldo Fumagalli, erede della Candy, che però sposta le sue fabbriche in Turchia
IL FUTURO DELLA BRIANZA È ALL’ESTERO
di luigi bolognini, repubblica 8 novembre 2009
POSITIVO: Aldo Fumagalli, 50 anni, presidente e amministratore delegato della Candy elettrodomestici: ha appena inaugurato una nuova fabbrica in Turchia BRIANZOLITUDINE: lo stato d'animo di chi vive e soprattutto lavora a Monza e provincia, fatto di orgoglio e di operosità a volte anche eccessiva. Ma è ancora così? È cambiato qualcosa con la nascita della Provincia di Monza? La Brianza è sempre il motore economico della Lombardia?
A rispondere è Aldo Fumagalli, personaggio simbolo della zona non solo per il cognome che più brianzolo non si può, ma anche per il marchio di famiglia, la Candy elettrodomestici, di cui a 50 anni è presidente e amministratore delegato.
- È così, allora? La Brianza è sempre la parte dinamica della Regione?
«Mi lasci risponderle con un piccolo esempio personale. Le sto parlando da Eskisehir, in Turchia, dove abbiamo appena inaugurato un nuovo impianto. Questo per dire che sì, la Brianza è ancora un buon esemplare della parte migliore dell'Italia, che le aziende hanno un dinamismo innato e che sempre più noi brianzoli sappiamo portare in giro per il mondo la nostra operosità.»
- Quindi il luogo comune del brianzolo sgobbone che pensa solo a "lauràa" è ancora vero?
« Come si dice m America siamo uno per cento di ispirazione e 99 per cento di traspirazione. Poche idee e molto lavoro, forse troppo a volte, diciamo che potremmo goderci un po più la vita. Ma va bene così: le idee, la fantasia, le lasciamo ai milanesi, ci mettiamo in secondo piano rispetto alla grande finanza cittadina, magari la sosteniamo coi nostri soldi, però un po’ distaccati. Certo, i legami con Milano ci sono, e sempre più forti: quand'ero bambino tra Monza e Milano c'erano i prati, ora se si fa cadere uno spillo cade sul cemento».
- Non è cambiato nulla col riconoscimento anche istituzionale della vostra diversità, cioè con la Provincia?
«Umanamente no: già da prima il brianzolo era orgoglioso e indipendente. A livello pratico è ancora presto per capire se e cosa cambierà. Devo dire che non ho molta fiducia nella politica: il massimo che può fare sarebbe pensare a migliorare la formazione dei giovani, aumentando e migliorando scuole e università. E’ la contropartita che gli chiediamo, per il resto si lasci fare a noi.»
- Ma fare cosa? La recessione ha colpito anche voi.
«Se è per quello abbiamo subito anche più danni del resto d'Italia: sono sparite le piccole ricchezze, in città hanno chiuso parecchi piccoli negozi, e Monza era una città di commercianti. Se nel complesso il sistema si è salvato dalla catastrofe è stato grazie a un misto di locale e di globale».
- Ovvero?
«Il locale sono le microbanche: istituti di credito cooperativo, casse rurali e tutta quella serie di sportelli che raccolgono il risparmio e lo investono a beneficio di tutti. Qui han preso piede ben più che altrove, e hanno fatto da rete di salvataggio. Il globale è appunto la globalizzazione: l'industria brianzola è anzitutto esportatrice, un euro forte l'ha salvata. Ora dobbiamo spingere sempre più il pedale, investendo nel mondo».
- Traducendo, la delocalizzazione tanto temuta da sindacati e lavoratori? Ma non è un paradosso rafforzare la Brianza impoverendola di fabbriche?
«E un paradosso, ma mi lasci spiegare. Ormai l'economia locale è matura, cioè non ha più grossi sbocchi, qui. Aggiunga un tasso demografico negativo: di figli se ne fanno sempre meno, la popolazione - malgrado i massicci innesti di stranieri - è destinata a calare. Il risultato sarà una parziale deindustrializzazione, o meglio un trasferimento di impianti all'estero, anche per un banale motivo pratico: se un'ora lavorata qui mi costa 23 euro e altrove 2, è chiaro che vado altrove».
- E questo non significa buttare sul lastrico un'intera provincia?
«No. Significa che dovremo avere sempre più ingegneri, classe dirigente, pensante, e sempre meno operai. Per questo la politica deve aiutarci migliorando istruzione e specializzazione dei nostri giovani. E’ una trasformazione che va fatta, anche se coi modi e i tempi giusti, per ovvi motivi sociali. E alla fine ci farà stare tutti meglio. Anche l'ambiente: tra i luoghi comuni sul nostro territorio c'era quello del polmone verde di Milano. Un recupero dell'ambiente può essere non solo vantaggioso umanamente, ma anche un buon business».
http://www.repubblica.it/

sabato 25 settembre 2010

Leghisti, parlate per voi

L'unico che si è alzato su e l'ha detto, finora, è stato Romano Prodi: «Io sono padano, Bossi al massimo è un prealpino.»
Perché nessuno si alza su a dirlo, che Bossi e la Lega non rappresentano il Nord Italia? Qui nella Pianura Padana i leghisti arrivano sì e no a metà dei voti, però mettendoci anche Fini e Berlusconi; invece si parla come se fosse scontato che siamo tutti dei loro. Anche dal Sud, anche da sinistra, da quello che leggo e che ascolto, sempre più spesso, sembra che siamo tutti con quelli là. Non è così, ed è ora di cominciare a gridarlo forte e chiaro: leghista a chi?
La situazione è drammatica, ma almeno chi è di sinistra, prego, si abitui a distinguere tra chi vota per un partito e chi è nato in una zona del Paese.
(io ho antenati padani che risalgono al '400, ma per gente come Bossi, Maroni, Borghezio, non voterei mai e poi mai).

venerdì 24 settembre 2010

Neve

Il mio paese è bello quando c’è la nebbia. La nebbia sfuma tutto; le cose perdono i loro contorni, tutto diventa surreale, fantastico. Il mio paese è bello quando c’è la nebbia. Perchè si vede di meno.
Il mio paese è bello quando nevica. Esci alla mattina presto, è appena nevicato: una bianca e soffice coltre di neve copre tutte le buche nell’asfalto sconnesso delle strade, e tutta la sporcizia dei campi abbandonati. Il mondo sembra miracolosamente rimesso in ordine da una mamma premurosa, forse da una fata.
Il mio paese è bello quando nevica. Peccato che poi sgeli, e la neve diventi fango.
Il mio paese è bello quando è festa. Ti alzi alla mattina, con le strade deserte; il paesaggio pare lunare, con le strade coperte di neve e un leggero velo di nebbia, nessuno in giro e silenzio ovattato. Una scenografia da fiaba. La gente tarda ad uscire perchè fa freddo ed è festa: il mio paese è più bello quando è festa.  Peccato che poi la gente esca per strada, e rovini tutto.

- Ho perso il treno d’un soffio; il prossimo è fra tre quarti d’ora; le terrò un po’ di compagnia.  Che giornata, eh? Ha visto che nevicata? Era tanto che non se ne vedeva così.
- Va be’, dieci centimetri.
- E’ tutto così bianco, così bello, non trova? Mi fa tornare alla mente quand’ero bambino, non ho più visto tanta neve d’inverno, qui da noi. Salvo che in montagna, s’intende. Ma quella ce la andiamo a cercare, e allora... A lei piace la neve?
- Non particolarmente, però...
- Eh sì, a tutti piace la neve. Si rimane tutti un po’ bambini, scommetto che anche a lei piacerebbe andare ancora a fare quattro tiri con le palle di neve, o a costruire un pupazzo... pensi che una volta, coi miei fratelli, ne abbiamo costruito uno alto tre metri, arrivava al piano di sopra. Poi gli abbiamo messo in testa il cappello del nonno, che era quasi come questo che ho in testa io adesso. Ma lei sta lavorando, la disturbo?
- No, si figuri.
Sono qui prigioniero di un rompiballe e nessuno che mi aiuta!
- C’è anche tanta gente fra noi che non ci piace la neve, che strano.
- Ognuno ha la sua testa.
- Eh, ben detto: ognuno ha la sua testa. Ognuno ragiona a modo suo, il che è un pregio e un difetto. Certo, lei è fortunato, fa un lavoro che le consente di stare in mezzo alla gente, di parlare... chissà quanta gente strana che vede, eh?
- Il mondo è bello perchè è vario.
- Ecco, ma io direi qualcosa di più. Il mondo... ecco, il mondo: il mondo si divide in un numero pressoché infinito di categorie, ognuna delle quali ha una sola persona come rappresentante.
- Bella definizione...
- Vero? Avrei dovuto fare lo scrittore, me lo dicevano sempre quand’ero ragazzo. Scrivevo bene, sa? e scrivo ancora: scrivo poesie.
Ahi, lo sapevo che finiva così.
- Scrivo ancora delle poesie: ne vuole sentire qualcuna? Ecco, questa, per esempio: ne ho giusto alcune qui con me. Me le ricordo a memoria, ma sa, qualche volta qualcosa sfugge e si perde tutto il senso. Con la poesia è così.
- Sante parole.
- Poesia. Come si fa a resistere alle lacrime? Sono radioattive ormai, come il cuore dopo Chernobyl: si piange, e chi piange nell’attesa non può vincere il pianto. L’intrattabile è morto: radiazioni illacrimate lo spensero nel diluvio della pioggia. Oppure questa, sempre sull’ecologia, in stile più moderno: All’attuale tasso demografico, fra un secolo, in Europa, di bianco rimarrà solo la biancheria. La vita svanisce nell’attesa che i padrini pubblicitari combinino per voi dei duelli con lo sporco impossibile, che rinvia sempre la sfida. Il finto sporco di cui vi sbarazzate ripasserà per le vostre viscere arricchendo la collezione dell’oncologo di nuove rarità neoplastiche.
Ma non viene nessuno? E’ colpa mia. Sono uscito di casa troppo presto. E’ festa, potevo dormire ancora un po’, e invece no: mi sono voluto alzare lo stesso.
- Piaciuta? Belle, vero? Questa è la mia preferita: in stile un po’ ardito, è vero. Però, senta: parla dell’informatica, è attualissima, e lo stile è adeguato. Mi deve dire cosa ne pensa, ci tengo. Ahem: Tutto rùmini di tutti, e cosa ancora sputti e inputti per digitati tasti ai tremolii d’un nulla di tivù, tu che di schermi ai verdi zufolii iberni fasti e guasti, placido al nostro non poterne più? Sì, - della tua diabolica Péste Regina  Elettronica! Fatuo monatto, - e davvero volevasi dimostrare che meglio sta chi sa più presto, e va beato chi è più lesto? Che più del computato è il computare essenza del reale? Ahi riposo del pensiero, ahi velocissima tua mente, e mondo senza mistero!  E dunque, che ne pensa?
- Non ho parole.
 -Questa qui invece è dedicata ad una donna di cui ero un po’ innamorato: si chiamava Rosa.
Me lo vedo: lui le scrive dei versi, lei gli fa dei versi.
- Guardi che sta arrivando il suo treno.
- Oh, di già? Come vola il tempo! Vado subito, sarà per un’altra volta.
Salvato in extremis.
- Allora, arrivederci!
- ( Mah! insomma... )
Quanta neve che è scesa. Mi converrà di andare a prendere la pala. Wie die Zeit vergeht...

  Poesie di Dario Bellezza (Lacrima amoris), Valentino Zeichen ( Apocalisse per acqua), Giovanni Giudici ( A un computer).  Pubblicate su L’Espresso del 25 ottobre 1987, articolo intitolato L’Ecopoesia, scritto da Mario Fortunato.

mercoledì 22 settembre 2010

Musica (Encina vieja)

Bajo tu casta sombra, encina vieja,
quiero sondar la fuente de mi vida
y sacar de los fangos de mi sombra
las esmeraldas liricas.
Echo mis redes sobre el agua turbia
y las saco vacìas.
Mas abajo del cieno tenebroso
estàn mis pedrerias !
(...)
(Federico Garcia Lorca, inizio di "Encina")


(sotto la tua casta ombra, vecchia quercia, voglio esplorare la fonte della mia vita; e scavare dal fango della mia ombra i lirici smeraldi. Getto le mie reti nelle acque torbide, le tiro fuori vuote. Nell'abisso del fango tenebroso stanno le mie gemme!)
(traduzione di Claudio Rendina, ed. Newton)

(Sono molto contento di avere qualche nozione su come si pronuncia l'idioma di Lorca)

sabato 18 settembre 2010

Un Paese senza classe dirigente

Nel mese di luglio uscì un comunicato della CEI, i vescovi italiani, che diceva così:
«L’Italia sta vivendo un momento drammatico, appare come un Paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla Nazione una visione e degli obiettivi condivisibili.» (trascrizione dal Televideo Rai, 31.07.2010, da un documento-base in preparazione della Settimana Sociale della CEI, Conferenza Episcopale Italiana, che si terrà in ottobre a Reggio Calabria).
La notizia è uscita d’estate, nel mezzo del gran caldo, e forse a molti è sfuggita; in ogni caso temo che non sia stata ripresa e commentata a dovere, e ne capisco bene le ragioni, purtroppo. Nel frattempo, abbiamo appreso che la OMSA (industria italiana di calze) si è trasferita in Serbia, che la Bialetti (industria italiana di caffettiere e affini) si è trasferita in Cina, che la Fiat – beh, lo sappiamo tutti. Nessuno si fida veramente di questa classe dirigente, al di là dei discorsi di facciata c’è un fuggi fuggi generale dall’Italia, e soprattutto dalla nascente Padania, che ricorda molto il proverbio dei topi che abbandonano la nave in punto di naufragare. Delle analisi di Tremonti non si fida nessuno, delle fantasie di Umberto Bossi hanno tutti paura: così tanta paura che gli industriali, appena possono, scappano dal Veneto e dalla Lombardia, e tra poco anche dall’Emilia. Gli industriali veneti sono già tutti in Romania, da più di un decennio.
Loro, la classe dirigente, si definiscono così: “Siamo il partito del fare”. Ed è vero che si danno un gran da fare, ma il gran da fare si traduce in danno, in danno permanente, in sfregio mai più rimediabile: le colate di cemento seguenti ad ogni condono edilizio, per esempio (i condoni edilizi li ha fatti solo la destra, con la Lega di Bossi a sostegno), e le future colate di cemento che nessuno potrà più fermare, conseguenti alla legge che dà sempre più potere agli amministratori locali (quella che la Lega di Bossi chiama “federalismo” ma che è solo un ritorno al feudalesimo, con il signorotto locale che comanda e gli altri sotto, ad obbedire: come don Rodrigo ai tempi dei Promessi Sposi). Il partito del fare? Ah, se stessero un po’ fermi, che sollievo, che guadagno, andate a dormire, che è meglio. E difatti è tornato di moda citare Dante, adesso lo fa anche la rivista americana “Foreign policy”:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiero in gran tempesta
non donna di provincie ma bordello...
(Purgatorio, canto VI)
Quasi tutti, però, vanno a cadere sull’ultima parola, “bordello”. Che ci sia un gran bordello, infatti, lo sappiamo tutti; ed a molti la cosa non dispiace, ci ridono sopra, ci fanno delle battute, il bordello ha i suoi lati divertenti e la cosa finisce lì. Invece Dante, che scriveva sempre con molta cura, aveva messo tutto in ordine d’importanza, il bordello lo mette per ultimo perché è la cosa che lo preoccupa di meno. In ordine d’importanza, dunque, Dante elenca: 1) “serva Italia”: l’Italia (Padania compresa) è un Paese di servi, pronti a vendersi al miglior padrone. 2) “di dolore ostello”: un Paese che è l’albergo del dolore, poiché chiunque abbia un minimo di coscienza civica in questo Paese soffre, sta male. Ed è dolore vero, non per modo di dire. 3) “Nave senza nocchiero in gran tempesta”: ecco, questa è l’immagine centrale, quella da sottolineare e da evidenziare.
Nave senza nocchiero e in gran tempesta, un nave dove non c’è nessuno al timone, in mezzo alla tempesta e – aggiungerei – dove c’è qualcuno di molto cattivo che sta solo aspettando il momento giusto per prenderlo, quel timone. I servi per governare la nave, dopo, li troverà molto facilmente.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiero in gran tempesta...
nave senza nocchiero in gran tempesta...
nave senza nocchiero in gran tempesta...
nave senza nocchiero in gran tempesta...
nave senza nocchiero in gran tempesta...

venerdì 17 settembre 2010

Laurea

Un medico senza laurea, che opera da parecchi anni in ospedali, magari in reparti all’avanguardia e di grande prestigio: è ormai una notizia ricorrente, di casi come questo ne sono venuti alla luce molti, ed è presumibile che ce ne siano altri. Come è possibile che nessuno ci faccia caso? Semplice, i medici senza laurea sono quasi sempre tra i migliori dell’ospedale, sia per la competenza che per la cortesia e il tatto con cui si avvicinano ai pazienti. Le testimonianze sono molte, lo stupore è sempre grande: un caso simile (un pediatra stimatissimo) mi è stato raccontato di persona poco tempo fa.
La reazione dei giornalisti è sempre quella, cioè dare del furbetto al diretto interessato (ormai siamo diventati tutti furbetti, per questi giornalisti pigri e superficiali) e invocare controlli più severi e pene severissime. Invece la domanda dovrebbe essere un’altra, visto e considerato che fare il medico, magari il chirurgo, non è propriamente una professione qualsiasi: possibile che il medico senza laurea tragga in inganno colleghi saldamente preparati e con molta esperienza? Possibile che il medico senza laurea operi senza mai creare problemi e faccia diagnosi accurate, e tutto questo per anni? Posso capire che capiti ad un avvocato, a un ingegnere, che magari hanno al loro fianco colleghi che li coprono e li aiutano, ma un medico, un chirurgo, suvvia, è impossibile.
La risposta vera, quella che spiega cosa succede, è di grande imbarazzo per chi gestisce il mondo dell’istruzione, in particolare l’Università. “Senza laurea” passa per sinonimo di ignorantone, così come sembra ormai assodato che se non hai fatto il classico è come avere la quinta elementare; ma così non è, e chi lavora lo sa; ma questo è un altro argomento e non vorrei uscire dal tema.
Così come sono strutturati (da sempre) gli esami favoriscono le persone con grande capacità di memoria e brillanti nell’esposizione; ma non è detto che queste persone siano le migliori, anzi quasi sempre è vero il contrario. La psichiatria porta numerosi esempi di “idiots savants”, gli “idioti sapienti”, capaci di memorizzare una quantità incredibile di dati ma incapaci poi di elaborarli; l’ideale sarebbe poter abbinare le due qualità insieme, cioè la grande memoria e le capacità pratiche, e per fortuna abbiamo molti ottimi esempi di persone di questo tipo, ma non è così per tutti. Può capitare, dunque, che un ragazzo che ha tutte le doti per diventare un ottimo chirurgo si blocchi davanti a un esame molto difficile, che richiede grandi capacità di memoria: ma l’importante, in camera operatoria, non è tanto sapere come si chiami quel particolare muscolo o terminazione nervosa, l’importante è sapere che ci sia. Ma, inevitabilmente, il professore che ti esamina ti darà un voto basso, o addirittura la bocciatura, se quel nome non te lo ricordi.
E’ un’esperienza comunissima che tutti abbiamo vissuto a scuola, di persona o vedendola applicata a nostri compagni di classe o di corso; ed è la spiegazione migliore di quello che raccontavo all’inizio. Esami “terribili” ne esistono in tutte le facoltà: chimica organica, anatomia, la fisica, i codici civili e penali da imparare a memoria, la matematica tutta. Superarli è difficile, e molti si fermano qui anche se avrebbero i mezzi per diventare ottimi professionisti in quel settore.
L’altra parte del discorso, e qui si rischiano querele ma si tratta anche in questo caso di un dato di fatto ampiamente raccontato in cronaca (e subito regolarmente insabbiato) è che le lauree si comprano e si vendono. Sono emersi casi clamorosi, anche in grosse e gloriose università e in grandi città di antica tradizione: gli esami si comprano e si vendono, i voti si comprano e si vendono, si paga in denaro e in natura. E queste cose sono difficilissime da scoprire.
Io all’Università non ci sono andato, ho solo il diploma di perito chimico. Ma, sul lavoro, ho imparato a distinguere i laureati l’uno dall’altro: ce ne sono di bravissimi, e ce ne sono altri che ne sanno meno di me, e magari hanno preso il massimo dei voti. Questi ultimi, spesso comandano: perché hanno dietro potenti raccomandazioni, e i raccomandati contano, e comandano, e sono anche permalosissimi, anche nell’industria privata e non solo tra gli statali. Il lavoro vero lo fanno i sottoposto, i meriti vanno al (o alla) raccomandata. Tristissimo da dire, ma vero e documentabile; e il fenomeno è largamente peggiorato con l’introduzione delle lauree brevi.
Concludendo (ma il discorso richiederebbe un trattato di seicento pagine, o un’inchiesta della Gabanelli), e tornando all’inizio del mio discorso, non mi resta che prendere nota che le notizie recenti parlano di scuole “che bocciano severamente” (detto con gran vanto, quasi che il fine delle scuole sia quello di bocciare e non quello di istruire), di test d’ammissione severissimi e ridicoli (sui test d’ammissione e sulle domande sceme che contengono ci sono resoconti paurosi), eccetera eccetera. Ma l’annotazione finale non può che essere questa: l’attuale ministro dell’Istruzione, la severissima e giovanissima dottoressa Gelmini, è una bresciana di Brescia, nata e cresciuta a Brescia, laureata a Brescia, che è andata a fare l’esame di abilitazione a Reggio Calabria. Strano ma vero: un motivo ci sarà, a me risulta che quegli esami lì li fanno anche a Brescia. Che abbia avuto in quei tempi un moroso calabrese? Speriamo, sarebbe già una spiegazione tranquillizzante...

martedì 14 settembre 2010

E-book

La storia di quelli che comperano i libri per decorare il salotto ce la siamo raccontata tutti, negli anni passati: persone che non amano i libri e non ne leggono, ma sanno che avere una bella libreria fa fino, e allora li comperano a stock, tutti i classici, Dante Manzoni Tolstoi Verlaine e Rimbaud, possibilmente con la copertina in tinta, finto pelle. O magari gli Adelphi, ma questa è roba per raffinati. Adesso, finalmente, con l’e-book, si potrà smettere di fare finta: basterà dire “ah sì, l’ho scaricato”, si potranno liberare pareti e scaffali dai libroni ingombranti e pesanti, che prendono un sacco di polvere. Via anche l’enciclopedia, che non serve più.
A me l’e-book va benissimo, mi vanno benissimo anche i giornali su i-pad (tutti i quotidiani e i settimanali stanno facendo l’edizione i-pad, si vede che questa è la volta buona). Soprattutto, l’e-book eviterà ai bambini e alle bambine di andare a scuola con lo zaino da 45 Kg, e questo è un vantaggio enorme. Quanto alla diffusione della conoscenza, direi proprio di no, che si va nella direzione opposta. La potenzialità del libro elettronico è enorme, ma all’atto pratico la gente smetterà di leggere (è quello che ha sempre desiderato) e questo avrà ripercussioni anche in politica, più gravi ancora di quello che è capitato in questi anni.
Un altro pericolo grave del libro elettronico è questo, un pericolo che chi scrive su internet già conosce da tempo:
«(...) Prendiamo in considerazione la scannerizzazione di un libro in forma digitale. Lo storico George Dyson ha scritto di aver sentito dire una volta da un esperto di informatica di Google: «Noi non scannerizziamo tutti questi libri perché siano letti dalla gente, ma perché siano letti da un'intelligenza artificiale». Se dobbiamo ancora vedere in che modo funzionerà il lavoro di scannerizzazione dei libri da parte di Google, una visione macchino-centrica del progetto potrebbe incoraggiare l' uso di un software che tratti i libri come acqua per il proprio mulino, alla stregua di frammenti decontestualizzati inseriti in un unico grande database, invece di espressioni separate di singoli autori. Con un simile criterio, i contenuti dei libri saranno ridotti ai loro elementi base costitutivi, a informazioni aggregate, e gli autori stessi, i sentimenti delle loro voci, le loro prospettive differenti, andranno irrimediabilmente perduti.
Tutto ciò in conclusione ci porta all' idea stessa che l' intelligenza artificiale ci fornisce una pretesto per evitare di essere chiamati a rispondere del nostro operato sostenendo che le macchine possono accollarsi sempre più responsabilità umana. (...) »
(da SE IL COMPUTER DIVENTA UN DIO di Jaron Lanier – pubblicato su Repubblica, 11 agosto 2010 )
Un problema che già esisteva, per esempio con i libri di aforismi: gli aforismi sono belli ma rari, e non è detto che quello che leggete sia davvero un aforisma. Più facilmente, è un pezzettino ritagliato da un discorso più ampio, una battuta di un personaggio da un’opera teatrale, un arbitrio più o meno grave rispetto alle intenzioni dell’autore. Per esempio, si legge spesso questa asserzione: che Shakespeare abbia detto “fragilità, il tuo nome è femmina”. Sbagliatissimo: non lo dice Shakespeare, lo dice Amleto, un suo personaggio. E Amleto non si riferisce a tutto l’universo femminile, ma ad una donna sola, sua madre: che dopo aver collaborato all’uccisione del marito si è subito risposata. Ma per sapere queste cose bisogna proprio aver letto l’Amleto di Shakespeare, non ci sono scorciatoie.
«L’Amleto? Ah sì, l’ho scaricato...Ho scaricato tutto, di Shakespeare. »

lunedì 13 settembre 2010

Inti Illimani

Gli Inti Illimani arrivarono in Italia nel 1973, dopo il terribile colpo di Stato in Cile. Furono accolti con molto affetto, così come altri esuli politici cileni: che sarebbero rimasti volentieri nel loro Paese, ma le stragi del dittatore Pinochet non glielo avevano permesso. Moltissimi giovani cileni e argentini, in quegli anni ’70, persero la vita a causa delle dittature militari; chi poteva, si rifugiava all’estero.
Gli Inti Illimani, in Cile, stavano studiando e riproponendo la tradizione musicale del loro Paese; essendo dei bravi musicisti gli si chiese di fare dei concerti, e in poco tempo la loro musica divenne conosciuta anche da noi, e molto eseguita. E’ musica piacevole, in quel periodo pochissimo conosciuta, che si incontrò anche, in modo del tutto casuale, con il successo di film come “Aguirre furore di Dio” di Werner Herzog: che si svolgeva non in Cile ma in Perù, comunque sulle Ande, dove i confini tra gli Stati sono spesso solo un’invenzione dei politici.
Un’operazione simile a quella degli Inti Illimani la stavano facendo in molti, in quegli anni, un po’ in tutto il mondo: da noi c’era la Nuova Compagnia di Canto Popolare, che esplorava il grande repertorio napoletano guidata dal musicologo Roberto De Simone (in seguito direttore del Conservatorio di Napoli); in Francia c’era il bretone Alan Stivell a ripescare le cornamuse e l’arpa celtica; in Inghilterra e in America il recupero delle tradizioni popolari c’era da molto tempo, a partire da Woody Guthrie e da Bob Dylan, passando per gruppi come i Pentangle e i Fairport Convention, e molti altri. Queste operazioni di recupero della cultura popolare e della tradizione, in contrasto con la musica napoletana e sudamericana “di maniera” , commerciale, erano molto ben accette e anche molto belle, in quegli anni sono stati registrati dischi diventati famosi e ancora oggi validissimi, ben conosciuti anche fra gli appassionati del rock e del blues (il rock e il blues hanno le loro radici nella musica popolare dell’Africa nera, detto per inciso).
E’ quel fenomeno che in seguito si sarebbe chiamato “musica etnica” o “world music”, ma che negli anni ’70 non si aveva paura di chiamare con il suo nome giusto, musica popolare, folklore, folk music. In Italia, la ricerca sulla musica popolare la portavano avanti persone diversissime tra loro, come Roberto Leydi (grandissimo musicologo) e Virgilio Savona (musicologo attento anche lui, ma più famoso nel repertorio leggero come membro del Quartetto Cetra), e tanti altri, compresi il Duo di Piadena, e molti altri ancora.
Di tutto questo, cosa è arrivato? Già allora, già negli anni ’70, gli Inti Illimani vennero da molti trattati come se fosse musica qualsiasi; non come qualcosa da conoscere ma come qualcosa da giudicare con i “mi piace / non mi piace” da festival di Sanremo o da radio commerciale. Per molti, ancora oggi, gli Inti Illimani sono legati unicamente alla politica; e anche questo è un fraintendimento doloroso.
Di recente, ed è questa la ragione per cui ne parlo adesso (ma gli Inti Illimani ci sono ancora, e sono ancora in giro a far concerti come quarant’anni fa), capita di ascoltare frasi come “negli anni ’70 stavano lì ad ascoltare gli Inti Illimani”, battute superficiali che rivelano solo l’ignoranza di chi le fa – ed è purtroppo un’ignoranza voluta e coltivata con cura da adulti della mia generazione, in questo caso non mi sento di incolpare i giovani se non riescono a inquadrare bene quegli anni ormai lontani, perché è stato quasi impossibile, negli ultimi vent’anni, ascoltare e conoscere qualcosa che non sia musica commerciale (spesso di bassa qualità). Gli Inti Illimani sono semplicemente un gruppo musicale che propone musica andina, e negli anni ’60 e ’70 ognuno ascoltava quello che gli pare: a molti la musica andina piaceva (me incluso), altri la trovavano noiosa; ma, soprattutto, c’era una vastità di scelta e di novità (novità vere, musica nuova e non facce e corpi nuovi) che in seguito non c’è più stata. Risolvere tutto con i “mi piace / non mi piace”, o peggio ancora con i “kepalle” non è un bel segnale, e non soltanto per quanto riguarda la musica.

sabato 11 settembre 2010

L'amonica

1.
- T’ha cercato lamonica, dov’eri? – mi chiede il signor Agosta, un po’ preoccupato.
- Vado subito a cercarla – rispondo io.
Il signor Agosta è una persona gentile e attenta, siamo nella stessa stanza d’ospedale da diversi giorni (il tempo per le analisi, le diagnosi, eccetera) abbiamo fatto amicizia e ormai lo conosco bene, così come è successo con i miei altri due compagni d’avventura. Non ero andato lontano, non è mica facile andar lontani in un ospedale dopo un’operazione, per di più con tutto quel trespolo da portarsi dietro. Non un trespolo di pappagallini, ma un’alberatura di sacche, di flebo, di cose varie, montato su rotelline: è uno strumento molto utile e chi è stato in ospedale sa bene di cosa si tratta. Una volta non era così, si pensava che i malati dovessero starsene a letto immobili; poi si è scoperto che è meglio se ti alzi subito e fai una passeggiata, e così ho fatto.
- Adesso lei si alza e va a farsi un giro – mi avevano detto il giorno dopo l’operazione. Così, subito? Ma io sto male, mi gira la testa, mi fa male il pancino, non ho ancora smaltito l’anestesia...Non importa, c’è l’infermiera che ti assiste. E così vado, non lontano ma vado: tutto il corridoio fino alla sala d’attesa, poi magari trovi qualcuno con cui chiacchierare, si perde tempo, ma tanto non devi mica timbrare il cartellino.
E così sono stato in giro un po’ più del normale; però adesso, adesso che ci penso, ho un piccolo problema. Il signor Agosta, nato e cresciuto alle pendici dell’Etna, parla con uno spiccato accento catanese. Anzi, non è un accento: è quasi la sua lingua madre, appena un po’ attenuata. Per fortuna un po’ di catanesi li ho frequentati, e dunque quello che mi dice Agosta l’ho sempre capito senza troppa fatica; però adesso il problema è questo, chi mi ha cercato? Ho tre opzioni possibili: l’infermiera Monica, il dottor Lamonica (medico chirurgo, molto stimato), oppure la suora. Chi sarà mai che mi ha cercato? Vado e vedo, qui sono tutti gentilissimi e non si rischia di essere fraintesi.
2.
Un altro ricordo che mi lega all’infermiera Monica è questo: la maggior parte delle infermiere dell’ospedale erano piccoline e minute, Monica era alta e robusta, giovane e prosperosa. Così nei primi giorni successivi all’operazione mi si avvicina e mi dice:
- Su, si alzi, è ora della passeggiata.
E mi tende la mano, per aiutarmi.
- Sicura di volerlo fare? – le chiedo, perché io sono molto più grande e più grosso di lei.
- Si fidi – mi dice lei, con la mano tesa. E io mi fido, le prendo la mano e ci provo; ma il risultato è come me lo aspettavo io, la ferita mi fa male e mi blocco, non sono io che mi alzo ma è lei che finisce addosso a me, o quantomeno una via di mezzo fra le due cose. E io per un attimo mi trovo immerso in qualcosa di soffice e di bello, con un buon profumo: che sia forse un anticipo del Paradiso? No, ma era bello pensarci, ed è un peccato che i miei ricordi con Monica finiscano qui. Infatti ci riproviamo, stavolta riesce (temevo per la sua schiena, a dire il vero: è così che si prende l’ernia del disco), mi alzo e comincio la camminata. Insomma, non era il momento e forse non lo sarebbe mai stato, ma adesso so che anche una laparatomia può avere i suoi lati positivi.
3.
Un’altra infermierina, piccola ma molto graziosa, il giorno prima della mia dimissione. Ormai sto bene, ma c’è ancora bisogno di qualche iniezione di antibiotico.
- La facciamo a letto o preferisce alzarsi?
Scelgo di alzarmi, perché l’altro giorno l’iniezione fatta da sdraiato ha faticato a smaltirsi. E così lei esegue, ma la differenza di statura è davvero notevole, mi arriva poco più su dell’ombelico.
- Un’iniezione da cavallo, - commenta lei a mezza voce, ed esegue.
Fatto niente, quasi non me ne sono accorto. Una strofinata con l’alcool e via, verso nuove avventure.

giovedì 9 settembre 2010

Chi vota a destra è un imbecille? (n.1)

- Dobbiamo operare. - mi dice il dottore – Purtroppo bisogna operare, ma è più che probabile che con l’intervento chirurgico vada tutto a posto senza complicazioni.
Con questa diagnosi in mano, e con molti pensieri per la testa, il giorno dopo torno al lavoro e appena possibile vado dal mio capo; gli spiego che dovrò assentarmi per un mese, forse anche due. Con il mio capo vado d’accordo, mi conosce ormai da sette anni e anche se c’è stato qualche screzio in passato ormai abbiamo imparato a rispettarci, e a collaborare nel reciproco rispetto.
L’operazione va bene, tutto come nelle previsioni del chirurgo sia pure con qualche patema d’animo. Ma si tratta pur sempre di un intervento di chirurgia addominale, la ferita sulla pancia è importante (trentasei centimetri di taglio) e mi tocca stare a casa per due mesi. Al mio ritorno sul lavoro vengo accolto benissimo, perfino con affetto. Il Direttore mi chiede se me la sento di tornare a lavorare come prima, su tre turni, e io gli dico di sì, certo che me la sento, sto benissimo. La persona che mi ha sostituito per questi due mesi è contenta, ha guadagnato un po’ di soldi e adesso può tornare a studiare e a pensare a laurearsi, come avverrà effettivamente dopo qualche anno.
Insomma, tutto a buon fine. Ma intanto gli anni sono passati, sono successe parecchie cose nel frattempo (eravamo nel 1995), e io mi sono chiesto: «Ma, e se una cosa del genere mi accadesse oggi?». O, meglio: «Cosa mi sarebbe successo se nel 1995 ci fossero state le stesse normative sul lavoro che ci sono oggi?»
La risposta è semplice, e drammatica: avrei perso il posto di lavoro.
Oggi si viene assunti – tutti – tramite agenzie private, esterne alla Ditta; e quasi sempre con contratti a termine, un mese, tre mesi, sei mesi. E’ vero che non si può licenziare per una malattia, e men che meno per una gravidanza; ma licenziare non serve più, basta aspettare che finisca il termine del contratto di lavoro. Il tuo contratto è di tre mesi? Se ti ammali, o se sei una donna e aspetti un bambino, il contratto non verrà rinnovato. Anzi, in un caso come il mio potrebbe succedere una scena come questa: che la Ditta cerchi qualcuno per il lavoro che svolgevo io e telefoni all’Agenzia dicendo, in forma più o meno larvata: “...però non mi mandi quel signore là, che ha avuto il cancro e poi magari sta male e mi si mette in malattia e mi tocca sostituirlo.”
Conclusione: non è vero che tutti quelli che votano a destra sono imbecilli, ma quelli che si appoggiano solo sul salario e sul lavoro dipendente un pochino dovrebbero pensarci, prima di votare a destra. Perché fino al 1995 operai e impiegati erano molto tutelati, e potevano ammalarsi senza altro timore che quello di non guarire perfettamente; oggi ci sono in campo altri fattori.
Ed è vero che lo smantellamento dello Statuto dei Lavoratori inizia con un governo di centrosinistra, e con il ministro Treu: ma poi ci si era fermati lì, all’inizio. Altri sono andati avanti, molto avanti; e i ventenni di oggi non conoscono altri modi di lavorare se non il precariato.
Ma non è sempre stato così: anzi. Quella della “flessibilità” (orribile eufemismo) è stata una battaglia lunga e durissima voluta dalla destra, a partire dall’Inghilterra di Margaret Thatcher (anni ’70) e dall’America di Ronald Reagan (anni ’80). Insomma, eravamo stati avvertiti ma non siamo stati mica tanto attenti.
Buona fortuna a tutti, soprattutto a quelli che ne hanno bisogno ma non se ne sono ancora resi conto.

PS 1: Questo post è già stato pubblicato il 21 ottobre 2009. Lo rimetto qui oggi perché vedo che non è cambiato niente. So che anche a dirlo non serve, mi risponderanno che sono invidioso e prevenuto, e che ce l'ho con Silvio che è tanto caro: ma almeno mi sfogo un po'. E tanti cari saluti ai signori e alle signore che oggi hanno 54-58 anni, e che con le normative pre-Bossi e pre-Berlusconi sarebbero già a godersi la pensione da qualche anno, e invece.

PS 2: Questo post è già stato pubblicato anche il 6 aprile 2010. Lo rimetto qui oggi con dedica al sig. Bonanni della Cisl (o della Uil? beh, non vedo la differenza). Dedica particolare anche alla signora Marcegaglia di Confindustria, al signor Marchionne della Fiat, e a tutti i parlamentari e i commentatori vari che hanno approvato le leggi sul lavoro degli ultimi 15 anni, compreso qualcuno che si dice di sinistra. A tutte queste persone, l'auspicio che loro e i loro figli e figlie e parenti tutti possano trovarsi esattamente nelle stesse condizioni che, secondo quello che ci hanno spiegato con dovizia in tutti questi anni, vanno bene per il loro prossimo.
(ai signori della Lega, ai Maroni ai Bossi ai Calderoli, lo stesso auspicio con l'aggiunta di trovarsi magari a farsi una passeggiatina nel deserto della Libia, anche solo un paio d'orette, così per sapere cosa provano quelli che non arrivano più a Lampedusa - ma questo è un altro discorso, lo farò magari su un altro post).

lunedì 6 settembre 2010

Gary Larson


Gary Larson è americano, classe 1950. (una delle mie grandi passioni).
PS: Non so dire bene perché, ma nel ritrovare questa vignetta mi sono venuti subito in mente dirigenti del nostro principale partito d'opposizione.

domenica 5 settembre 2010

Il gol oscurato

L’altro ieri i tifosi di calcio non hanno visto un gol della Nazionale: oscurato dalla pubblicità. Posso dirlo? Ne sono felice, ed è un peccato che non capiti più spesso, magari con le moto e con i gran premi di formula uno.
Non servirà a niente, ma ne sono contento, così imparano. Così sanno cosa ho provato io, a metà anni ’80, quando iniziarono a tagliare i film con la pubblicità. Così impareranno cosa provò Fellini, a metà anni ’80, nel vedere i suoi film (pensati per il cinema, non per la tv) fatti a pezzi dalla pubblicità. Perché, a metà anni ’80, agli inizi delle tv commerciali, non era come adesso: c’erano tagli drastici, brutali, ogni dieci minuti zac, non importa se rimaneva un dialogo a metà e se si troncavano le parole. E se volevi vedere quel film lì, non c'erano alternative: lo trasmetteva chi aveva comperato i diritti, e amen. Fu necessario un intervento del Parlamento per mettere almeno un minimo d’educazione e di rispetto: uno spot ogni 15 minuti, e possibilmente in una pausa della narrazione e non a capocchia. Non ve lo ricordate, non l’avete mai saputo? Io c’ero e me lo ricordo, ho qui ancora una videocassetta del 1988 con un bel film ridotto a straccetti, l’ho conservata apposta – ma anche questo non serve. Spero dunque che capiti ancora, che capiti spesso e non solo alle partite di calcio. Spero che le tesserine premium vengano a costare un occhio della testa, e che si possano vedere le partite e i gran premi solo pagando caro e solo con le interruzioni pubblicitarie a capocchia.
Per chi non c’era, e per chi non si ricorda: nel 1995 ci fu un referendum sull’uso della pubblicità in televisione. Indovinate per chi votarono i furbissimi italiani?
PS: E indovinate un po’ da dove vengono i dirigenti odierni della Rai, da dove vengono, e chi li ha formati: ormai sono venticinque anni, un quarto di secolo, due generazioni. Che si possa fare tv anche senza pubblicità, o con poca pubblicità e meno invadente, non viene più in mente a nessuno; eppure così abbiamo vissuto per tanti anni, ma proprio tanti. Un altro mondo è possibile, o forse lo era...

sabato 4 settembre 2010

Christo Javacheff

L’acqua che si ripulisce passando attraverso la terra, da bambino, mi era sembrata una cosa incomprensibile. Come è possibile, mi chiedevo: caso mai, l’acqua nella terra si sporca, perché la terra è sporca; altrimenti, perché mi fanno lavare le mani dopo che ho giocato con la terra?
Questo era ciò che mi suggeriva la mia esperienza immediata, e so che era così (forse lo è ancora) per molti adulti; invece no, la terra filtra l’acqua e la depura. L’avrei imparato bene molti anni dopo, a scuola, studiando chimica: non tutta la terra filtra l’acqua, c’è terra e terra, ma se l’acqua che peschiamo dalle falde sotterranee e dalle sorgenti è pura e leggera è proprio perché passa attraverso la terra. La stessa cosa viene fatta oggi, artificialmente, con i depuratori e i demineralizzatori: che fanno passare l’acqua attraverso delle resine, ma quelle resine altro non sono che terra, terra opportunamente selezionata e trattata per aumentarne l’efficienza.
Ora, immaginiamo cosa potrebbe succedere all’acqua se stendessimo un enorme velo di domopak o di polietilene su tutta la superficie terrestre. L’acqua piovana non finirebbe più dove vuole lei, ma dove la incanaliamo noi: nelle fogne, nei tombini. Di conseguenza, l’operazione di filtraggio non avverrebbe più.
Non è una fantasia, è esattamente quello che abbiamo fatto negli ultimi cinquant’anni e che stiamo continuando a fare: asfalto e cemento impermeabilizzano il suolo, l’acqua viene incanalata nelle fogne, e di conseguenza i fiumi sono inquinati, le falde sono inquinate, e c’è bisogno dei depuratori (detto per inciso, anche i depuratori hanno un forte impatto ambientale: i depuratori sono delle enormi piscine, anch’esse fatte di cemento e di materie plastiche).
Seguendo questi ragionamenti, ho finalmente capito l’arte del bulgaro Christo Javacheff, diventato famoso per i suoi “impacchettamenti” ambientali, e che si è sempre fatto chiamare con il solo nome di battesimo, Christo.
Christo ha impacchettato di tutto, fiumi, isole, monumenti, palazzi e grattacieli. Non ho mai capito cosa ci fosse di artistico in questi impacchettamenti, adesso finalmente ci sono arrivato: più o meno consciamente, Christo (che ha iniziato a “lavorare” nell’epoca in cui nacquero le borse di plastica usa e getta) ha trovato il modo di esprimere la perfetta metafora di quello che l’uomo stava facendo al suo ambiente. Le generazioni future si ricorderanno di noi per queste cose, per aver distrutto completamente le aree coltivabili e per aver avvelenato aria e acqua; e Christo Javacheff ha rappresentato benissimo questo nostro incessante lavoro di soffocamento.
PS: Christo non è uno pseudonimo: in Bulgaria è d’uso normale chiamare i figli con il nome di Cristo, così come in Spagna si usa molto Jésus. Da noi non si usa, e anzi fa un po’ impressione: ma adesso che ci penso, trovo che l’idea delle sofferenze di Cristo inchiodato alla Croce siano perfette per esprimere le sofferenze di questa nostra povera madre Terra.
PPS: nelle foto, Christo con la moglie (coautrice delle sue opere); un impacchettamento sul mare vicino a Sydney, uno in Colorado, e un'isola che non ricordo più dov'è. (volendo, c'è anche qualcosa fatto a Milano, piazza del Duomo).

giovedì 2 settembre 2010

Miele di timo

Le api, se le si lascia in pace, sono tra gli animali più pacifici del mondo. Disturbate, sfoderano il pungiglione; ma sono ben diverse dalle vespe (e so che molti non distinguono un’ape da una vespa, e lo sa il cielo come si fa a confondere due animali così diversi, ma passi). Le vespe sono molto più aggressive, sono quasi tutte carnivore, aggrediscono altri insetti e li usano come cibo; le api e i bombi invece si interessano solo dei fiori e del loro nettare.
E’ molto bello osservare le api al lavoro: questa qui per esempio, che sta sul mio balcone e gira intorno a un vaso con delle piantine di timo. Il timo fa dei fiorellini minuscoli, di un bel colore azzurrino-violaceo appena accennato, fiorellini molto piccoli, piccoli anche per un’ape; eppure l’ape insiste, li passa tutti in rassegna anche tre o quattro volte, va via un attimo, fa un giro e ritorna, li controlla di nuovo uno per uno, poi ripete l’operazione, fa un giro e torna, come se dicesse: “Chissà mai che me ne sia sfuggito uno e che andando via e tornando subito non lo ritrovi”. Faccio anch’io così, in libreria o al supermercato, perché al primo sguardo non è detto che si veda proprio tutto. L’ape è molto metodica, precisissima, nel dubbio torna sul fiorellino, ma no, non c’è proprio niente, che tristezza. Ripete l’operazione almeno tre volte, mentre io la guardo; ed è la stessa ape, perché io sono qui che la osservo e lei fa soltanto un piccolo giro a volo prima di tornare, quindi non ci sono possibilità di dubbio, l’ape è sempre la stessa. Su quei fiorellini così piccoli, l’altro ieri, ho trovato perfino un bombo: ed è incredibile, è come vedere un elefante che mangia le ciliegie una per una, cogliendole con estrema delicatezza e senza rompere i rami.
La piccola ape lavora molto e si lascia osservare, ha capito subito che io non le darò nessun disturbo; però ha una lamentela da fare e me la dice con educazione ma anche con molta fermezza e delusione:
- Poco timo, poco timo. La prossima volta, mettine qualche piantina in più.
A dire il vero, il timo nei vasi del balcone l’ha seminato mia madre: vado da lei, e le riferisco subito la lamentela. E’ mia madre che si occupa dei fiori e dell’orto, dice subito che è d’accordo con la piccola ospite, che l’ape ha ragione e che le dispiace di non aver fatto di più.
Ma intanto la piccola ape è andata via, forse tornerà domani per vedere se sono sbocciati nuovi fiori; e io intanto comincio a chiedermi come sarà il miele di timo. Dev’essere buonissimo, a giudicare da quello che ho imparato oggi.

mercoledì 1 settembre 2010

L'ape con la pelliccia

L’ape con la pelliccia, qui dalle mie parti, la si comincia a vedere verso ferragosto, e di solito segna la fine del caldo. Lo so che sembra uno scherzo, ma queste cose, quando si comincia a farci caso, poi non si dimenticano più. L’ape normale, quella che viene allevata dagli apicoltori, appare quando fa già abbastanza caldo; e il primo insetto impollinatore ad apparire, a marzo, è di regola il bombo, parente stretto delle api, anch’esso ben provvisto di pelliccia.
Una pelliccia magnifica, va detto: più la guardo e più mi piace. Verrebbe da dire: le api e i bombi hanno avuto vantaggio nell’essere così piccoli, altrimenti avrebbero fatto di sicuro la fine dei visoni e degli ermellini. Il bombo (che molti confondono con il calabrone, e lo sa il cielo come si fa a confondere due animali così diversi, ma passi) è molto grosso, buffo e simpatico, questa ape in pelliccia invece è grande come le api normali, ed è veramente elegante, bella, ben fatta come tutte le api ma con un tocco d’eleganza in più, le zampine nere brillanti, la pelliccia folta e ben disegnata, che si suppone calda e morbidissima, meglio di quella del visone. Se si va a cercare tra i nostri grandi pittori, tra Ottocento e Novecento, si trovano molti ritratti di donne vestite come la mia piccola ape: Dudovich, Tallone, Boldini, Hayez, Casorati... Nella moda femminile non si inventa niente, si osserva e si copia. In questo caso, complimenti per la scelta del modello da copiare: difficile trovare di meglio.
Non sono riuscito a trovare il nome scientifico giusto, di varietà di api ce ne sono molte (in Africa, e anche questo può sembrare uno scherzo ma invece è vero, le api sono quasi sempre nere). E forse non è propriamente un’ape, tra le api e i bombi c’è del resto una vasta zona di intermedi, bombi più grossi e bombi più piccoli, forse questa mia ape in pelliccia è classificata tra i bombi, ma in questo momento mi viene da dire “ape”, perché il suo comportamento è del tutto identico a quello delle api, e anche il suo aspetto fisico, pelliccia a parte.