domenica 29 gennaio 2012

Balabiòtt

Gli insulti milanesi, quelli di una volta, non erano quasi mai veri insulti ma piuttosto epiteti, metafore, giochi di parole; anche e soprattutto perché il carattere dei milanesi, quelli veri, era molto aperto e accogliente, ben diverso da quello che si vuol far credere oggi. Le cose cambiavano più a nord, verso Varese, verso Como, dove c’era gente più chiusa, anche per motivi puramente geografici. A Milano, in un posto situato proprio in mezzo alle principali vie di comunicazione, non si guardava più di tanto alla provenienza e al colore della pelle, all’accento “strano” ci si faceva l’abitudine, l’importante era la persona in sè e come si comportava; e su queste basi si è costruita la fortuna della città. Va da sè che poi le cose cambiano, che conta molto come si dice una parola piuttosto che la parola in sè: una volta ho visto una donna arrabbiarsi moltissimo con un collega che l’aveva definita “Miss Italia”. La donna era molto bella e sempre elegante, ma non era più giovane; e quella frase, «va là, Miss Italia», detta in quel modo era davvero pesante, e aveva colto un nervo scoperto. Magari, in un’altra occasione, la signora ci avrebbe riso sopra; ma non in quel momento, non in quel modo, e soprattutto non da quella precisa persona.
Tornando a noi e al discorso sul dialetto, un epiteto che era molto comune e che oggi non si ascolta quasi più è “balabiòtt”. Quando da giovane si cominciava a scherzare con i più vecchi, sul lavoro, era facile sentirsi rispondere così: «Va là, balabiòtt». Non è propriamente un insulto: “ballabiotto” si può infatti definire un abitante di Ballabio, che è un paese vicino a Lecco; e Ballabio è anche un cognome piuttosto comune, nel lecchese e in Brianza. Magari gli abitanti di Ballabio tra di loro si chiamano ballabiesi, o ballabini, non lo so di preciso; sta di fatto che “ballabiotto” in dialetto milanese (e un po’ in tutta la Lombardia) si può scomporre in due parole, “balla” e “biotto”. Dato che “biotto” significa nudo, ecco dunque evocata la figura del danzatore nudo: uno che balla nudo è un matto, quindi se ti dicono “balabiòtt” ti stanno dando, con maggiore o minore delicatezza, del matto. Fino alla riforma Basaglia, negli anni ’60 (e purtroppo molto spesso ancora oggi, come si vede nelle cronache) i matti nel manicomio venivano spesso lasciati nudi; e comunque non c’era l’abitudine di andare in giro svestiti, nemmeno d’estate. Anche le minigonne e i pantaloncini corti, come si sa, cominciano a vedersi e ad essere cosa normale solo a partire dagli anni ’60.

La figura del danzatore nudo, del “balabiòtt”, mi ha fatto venire alla mente un altro insulto quasi scomparso: “pelabròkk” (scritto come lo avrebbe scritto Gadda). E’ un insulto scomparso, e difficilmente traducibile con precisione, per mancanza di materia prima: non tanto i milanesi in sè (siamo sinceri: chi lo parla più, il dialetto, a Milano? c’è qualcuno che ci prova, o che fa finta, ma parlare in dialetto è un’altra cosa) quanto i rami di gelso e la bachicoltura, cioè l’industria della seta. Infatti le brocche, anche in lingua italiana, sono i rami delle piante: “O Valentino vestito di nuovo...” (una volta la si studiava a memoria a scuola, è di Giovanni Pascoli, dai “Canti di Castelvecchio”)
Pelabròkk, o “pelabrocch” (stessa pronuncia) è dunque il pelatore di rami, i rami con le foglie presi dalla pianta del gelso e “pelati” per dar da mangiare ai bachi della farfalla Bombyx mori, che produce la seta. Fino agli anni ’50 era ancora possibile trovare in Lombardia qualcuno che allevava i bachi da seta, quand’ero bambino io c’erano ancora moltissimi gelsi per le strade e nei campi, ma da decenni la seta arriva tutta dalla Cina o dall’India, non si pelano più le brocche in Lombardia ma qualcuno ancora usa quest’epiteto che sta a significare “fannullone, persona da poco”: è un lavoro che può fare anche un bambino, e che non richiede nessuna particolare abilità. Si può però aggiungere che è un lavoro che va fatto tutti i giorni, con continuità, perché i bachi da seta nella loro fase di crescita mangiano moltissimo; e quindi raccogliere e “pelare” i rami del gelso non è proprio una cosa da poco, ma il significato ormai è quello e non lo si può cambiare.
Devo queste informazioni (oltre che alla lettura di Gadda e di Delio Tessa) a Nanni Svampa, a Dario Fo, a Piero Mazzarella, a Roberto Brivio, e a tutti quegli attori e cantanti che tengono ancora vivo il dialetto milanese; in particolare la sequenza “danzatore nudo scorticatore di rami”, detta con estrema pacatezza, l’ho sempre trovata molto divertente ed è un vero peccato che non la si possa quasi più ripetere.

Anche l’insulto milanese più famoso, il celeberrimo “pirla”, non è propriamente un insulto. “Pirlare” significa ruotare, roteare sul proprio asse come fa la trottola – e anche la trottola ormai temo che sia un giocattolo quasi scomparso, ma che è stato molto comune per secoli. Si dice ancora oggi comunemente, dalle mie parti, “pirlare in giro”: andare in giro senza costrutto. Per esempio, quando ti mandano da un ufficio all’altro e si perde tempo: “mi hanno fatto pirlare in giro per tutta la mattina”. Pirlare, ruotare come una trottola: la trottola si muove, e molto, ma è un movimento che non porta da nessuna parte.
A Como, dove sono nato, fino a pochi anni fa però l’insulto più comune era un altro: non “pirla” ma piuttosto “bìgul”, cioè “bìgolo”, una parola che usano molto anche i veneti. Per i veneti, “bìgolo” è qualsiasi cosa che abbia un aspetto più o meno cilindrico, compresi gli spaghetti. Anche gli spaghetti, se li guardate bene, sono infatti “bìgoli”, dei cilindri. La base è molto piccola rispetto all’altezza, ma sono pur sempre dei cilindri.
Però se si va sulle somiglianze e sulle metafore questo post rischia di diventare un po’ troppo osceno, ed è infatti vero che il perno della trottola è anch’esso, alla fin dei conti, come dire, un autentico bìgolo – ma qui mi fermo, ho già scritto troppo e non vorrei che poi qualche motore di ricerca finisse col censurarmi.

PS: quando morì Luchino Visconti (milanesissimo) chiesero un ricordo a Walter Chiari (veronese di Milano, di origini pugliesi), che aveva recitato per Visconti in “Bellissima” del 1953, con Anna Magnani. Walter Chiari disse (esiste il filmato) che quando Visconti gli fece leggere la sceneggiatura di “Rocco e i suoi fratelli” non potè fare a meno di dire: «Ma qui c’è un immigrato del Sud, c’è il pugilato, questa è la mia storia...perché non lo fai fare a me?». E Visconti gli rispose così, con estrema gentilezza e misurando bene le parole: «Perchè tì, balabiòtt, te set tropp vècc.». Walter Chiari sorrideva nel ricordarlo: eh sì, era vero. Nel 1960 Chiari aveva già quarant’anni, troppo vecchio per quella parte, che poi andò al ventenne Alain Delon.

venerdì 27 gennaio 2012

L'allenatore dell'Inter, e altre storie

Molti non lo sanno, ma il grande calcio moderno ha origini ungheresi: “danubiane”, come diceva Gianni Brera. Il gioco a zona, il pressing, queste cose qui, arrivano all’inizio degli anni ’70 con i grandi successi dell’Ajax di Amsterdam, che aveva per allenatore proprio un ungherese: Lajos Kovacs. L’Ungheria ha una grandissima tradizione calcistica, e se non se ne trovano tracce negli albi d’oro del football è per una questione che con il calcio ha poco a che vedere: l’invasione sovietica dell’Ungheria, avvenuta nel 1956. Il 1956 è proprio l’anno in cui ha inizio l’albo d’oro dell’odierna Champions League: ma i grandi tecnici e calciatori ungheresi, come Kovacs e Puskas, andarono a giocare all’estero, e la grande tradizione danubiana potè continuare solo fuori dalla patria d’origine. Tutto questo ha un precedente illustre nella persona di un allenatore ungherese che vinse in Italia tre scudetti: uno con l’Inter nel 1929-30 e poi due con il Bologna; e porterà il Bologna anche a grandi successi europei, purtroppo oggi dimenticati.
Questo signore, autore anche di un manuale sul gioco del calcio che è stato per decenni una lettura obbligata per gli allenatori e per i giornalisti sportivi, si chiamava Arpad Weisz, e dovette lasciare l’Italia nel 1938. Il motivo è facilmente immaginabile, e non ha bisogno di spiegazioni anche la data della sua morte, gennaio 1944, e anche il luogo dove avvenne: Auschwitz. La storia personale di Arpad Weisz, e della sua famiglia (la moglie Elena, i figli Roberto e Clara di 12 e 8 anni) è di quelle che spiegano la Storia (con la S maiuscola) molto più di tante altre parole: ed è qualcosa che non si può negare.

Un’altra storia è quella del direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, uno dei più grandi del Novecento, un’autentica leggenda per gli appassionati della grande musica tedesca. Furtwängler, figlio di un grande archeologo e uomo di grande cultura, fu uno dei pochi a rimanere in Germania anche nel periodo nazista: ci sono diversi filmati e fotografie che lo ritraggono mentre dirige i Berliner Philharmoniker davanti a tutto lo staff nazista, Hitler, Göring, Göbbels. Dopo la guerra, Furtwängler fu indagato: risultò (ed era ovvio) che non aveva fatto nulla di male, e a parte la beata ingenuità e ignoranza di molti artisti e musicisti che non riescono a vedere a cosa succede a un palmo dal loro naso, non c’era nient’altro da rimproverargli. A salvare definitivamente Furtwängler, e a fargli riavere la direzione dei suo amatissimi Filarmonici di Berlino (la più importante orchestra del mondo), che poi terrà fino alla sua morte nel 1954, furono le lettere che spedì alle alte gerarchie naziste in difesa dei suoi orchestrali. Molti, moltissimi, erano ebrei: ma prima che essere ebrei erano grandi violinisti, violoncellisti, musicisti impareggiabili... “Saranno anche ebrei – scriveva Furtwängler – ma se mi portate via i migliori, poi io come faccio a far suonare bene i Berliner?”. E, nella sua beata ingenuità, si diede da fare per salvare il posto non tanto all’ebreo in sè, quanto al musicista che non era pensabile rimpiazzare in modo adeguato. E, detto per inciso, questa ostinazione nel mandar via i migliori – anche gli scienziati, e non solo gli artisti – fu la principale causa della sconfitta nazista.

Di fronte al negazionismo io non so cosa dire, mi sembra stupidità pura. Anche discutere sul numero dei morti, che siano un milione o due o tre o cinque milioni, anche se fosse un morto solo (il vostro vicino di casa che sequestra e ammazza una persona e poi la brucia nel forno di casa: vi pare normale?), la follia non cambia. Non so cosa dire anche perché a me è bastato aver visto una foto su un giornale, una foto sola, da bambino, per capire cos’era successo: che cos’erano mai quei corpi, era qualcosa di spaventoso, si vedeva bene che era una cosa vera... Pensavo che fosse così per tutti, e che bastasse poco per rendersi conto di quell’orrore, e invece mi sono presto reso conto che non era così. Anzi, addirittura mi è toccato sentire i paragoni con le foibe, dette con l’aria e con il tono di voce di chi sottintende: adesso siamo pari. Invece no, un morto di qua e un morto di là non si annullano, fanno due morti. Un milione di morti di qua e cento morti di là non fanno zero morti, fanno un orrore senza fine; ed è responsabilità grave di molti governi, in Italia e in Europa, aver lasciato crescere questo orrore, aver concesso sedi e finanziamenti a questi movimenti. Continuare a concedere loro spazio e sostegno è qualcosa che finiremo per pagare tutti, e che anzi abbiamo già cominciato a pagare, come insegna il caso Breivik, quest’estate, in Norvegia; e come insegna il caso dei morti di Firenze, poche settimane fa, sempre ad opera di qualche esaltato da quest’ideologia negazionista. Ma “gli ebrei” sono questa cosa qui, i violinisti di Furtwängler, o magari l’allenatore dell’Inter: che cosa pensavate che fossero?
PS: un libro recente su Weisz è “Dallo scudetto ad Auschwitz” di Matteo Marani, editore Aliberti; su Wilhelm Furtwaengler (uno dei grandissimi del Novecento) la bibliografia è immensa, e numerosissimi sono i suoi dischi.

mercoledì 25 gennaio 2012

Il Maroni ridens, e altre storielle recenti

Il deputato leghista Roberto Maroni è invitato dal Rotary Club di Lurate Caccivio (Como); ricorda di essere passato spesso da quelle parti,c’è una cena, lo spumante, insomma una ridente rimpatriata. Il quotidiano “La Provincia” di Como ne dà notizia in data 21 gennaio 2012, e termina il resoconto della serata con queste righe: «Sono soddisfatto del lavoro fatto - ha concluso Maroni - Nessun ministro del lavoro, prima di me, aveva fatto, contemporaneamente la riforma del lavoro e delle pensioni. Nei tre anni e mezzo al Viminale, sono stati catturati 28 su 30 boss latitanti e sequestrati 25 miliardi di euro, di beni alla mafia».
Vale a dire: Maroni è contento. Che sia contento lo si vede bene anche dalla foto pubblicata (ve la risparmio), dove sorride paciosamente davanti alla tavola imbandita, nella più classica delle foto ricordo. Beato lui che è contento, verrebbe da dire: se non fosse per il fatto che proprio lì vicino, a Olgiate Comasco frazione Somaino, sta chiudendo una delle più importanti fabbriche metalmeccaniche del comasco: in pochi anni si è passati da 600 occupati a poco più di duecento, e la produzione è già stata in gran parte spostata in un Paese dell’Est Europa. «Seguo da vicino le vicende della Sisme; la mia esperienza come ministro del Welfare mi ha sensibilizzato su questi temi», dice Maroni (è una frase riportata nell’articolo).
Che dire, beato lui che è contento (chiedo scusa per la ripetizione, ma mi serve per evitare altre parole). Maroni è stato Ministro del Lavoro, e il Lavoro è finito (le nostre fabbriche qui al Nord si sono trasferite tutte tranquillamente e serenamente in Romania, in Serbia, in Cechia, qualcuno perfino in Cina e in Malesia). Maroni è stato Ministro del Welfare e l’età pensionabile è salita da 50 a 65 anni (per tacere dei tagli e delle tasse-ticket sulla Sanità e sulla Scuola emanate dal governo di cui faceva parte). Infine, Maroni è stato Ministro degli Interni e si sono arrestati tanti latitanti: peccato che basti girare pagina, su quel numero della Provincia di Como, per trovare la cronaca di una rapina, proprio a Olgiate Comasco. E, soprattutto (ci tengo molto) un pensiero riconoscente a tutti quei magistrati e poliziotti e carabinieri che hanno condotto in prima persona le indagini su mafia, camorra e ‘ndrangheta: per esempio la signora Ilda Boccassini, che su questi temi ha condotto le principali inchieste milanesi e lombarde, e che è stata lungamente e ripetutamente insultata proprio dal governo di cui faceva parte Roberto Maroni.

Ma in questi giorni non c’è stato solo il Maroni ridens (beato lui, che è contento...), che potremmo anche cominciare a pensare come parte del nostro passato (sperèmm...). Qui sotto metto altri due interventi che mi hanno colpito, purtroppo compresi fra presente e futuro:
- Il viceministro ventottenne Michel Martone, clamorosamente figlio di papà, che ha rivolto una frase infelice sugli studenti che non si laureano prima dei 28 anni. Che dire, magari non siamo proprio d’accordo col governo Monti, ma quantomeno abbiamo tutti detto “se non altro è finita l’epoca delle cazzate quotidiane”, quelle rilasciate un giorno sì e l’altro pure dai Calderoli, Berlusconi, Gelmini, eccetera. Invece no, eccoci qui da capo: e non vale il paragone con l’altra frase sui giovani, quella di Padoa Schioppa, perché un conto è un uomo di settant’anni che viene interpellato sulla sua vita personale e dice “bamboccioni” in una conversazione televisiva riferendosi a quando andò a vivere da solo a diciott’anni, un’altra cosa è quando uno che non ha mai lavorato in vita sua e deve ancora dimostrare se vale qualcosa viene a dire “sfigati” a persone che lavorano e studiano da una vita.
- Il potente ministro Corrado Passera, del quale ogni giorno si ricorda che “ha risanato le Poste”. A forza di sentirlo ripetere, mi è venuto spontaneo pensare: e dunque, le Poste non funzionano più, non consegnano più la posta, poche settimane fa c’è stato un blackout clamoroso di quattro giorni consecutivi... Se non consegnano la posta, o la consegnano fra mille disguidi, che Poste sono? Il ministro Passera è un esponente di quella generazione di manager che gestiscono le Poste smettendo di consegnare la posta, che gestiscono le Ferrovie tagliando treni corse e stazioni, che gestiscono la Sanità chiudendo gli ospedali e facendo correre i malati e i loro parenti in ospedali distanti magari decine di chilometri invece di averli vicini a casa, che gestiscono le Scuole chiudendo le Scuole...(eccetera, eccetera, eccetera, ma già faccio post troppo lunghi, e poi a che cosa serve? Alle prossime elezioni, saranno ancora tutti lì).

lunedì 23 gennaio 2012

Essere di sinistra, oggi

Cosa significa essere di sinistra, oggi? A me sembra che ci siano in giro idee molto confuse, e soprattutto che ci siano molte persone che si dicono di sinistra ma che mancano di qualsiasi punto di riferimento, un po’ per colpa propria e un po’ per le martellanti campagne di disinformazione fatte da vent’anni in qua. Per cercare di spiegare cosa succede, almeno in minima parte, mi vien buona questa pagina recente di Michele Serra – e chiedo scusa a Serra caso mai passasse di qui, ma ho scelto lui perché lo leggo sempre e mi trovo quasi sempre d’accordo. Stavolta, però, mi sembra proprio che manchi qualcosa.
I NEGOZI SEMPRE APERTI, UN'IDEA « PULSANTE» MA UN PO' RISCHIOSA
Gentile Serra, ma abbiamo davvero bisogno dei negozi sempre aperti? Oltre ai problemi dei piccoli negozi che non potranno reggere la concorrenza della grande distribuzione e ai disagi per i dipendenti del commercio - che saranno costretti a lavorare su turni sempre più lunghi - la domanda che dobbiamo porci è: migliora la nostra vita poter acquistare e consumare 24 al giorno, domeniche comprese? O questa opportunità non finirà, soprattutto la sera e nei giorni festivi, per distrarci da altre attività fondamentali come lo stare in famiglia, con gli amici, giocare, fare volontariato, trovare tempo per la riflessione personale? Ci sono giorni, in particolare la domenica, che è bene siano veramente liberi. All'insegna della gratuità e non del commercio. L. B.- email
Buona domanda. Non si vive solo per consumare, anche se l'orrida definizione di «consumatori» ha preso quasi stabilmente il posto della ben più civile e completa definizione di «cittadini». Sarei ipocrita se non le dicessi che i negozi sempre aperti, come nelle grandi metropoli di tutto il mondo, mi danno comunque un'idea di vita pulsante, di libertà e di adrenalina. Il vero problema dello shopping compulsivo (e della complessiva bulimia delle società occidentali) è culturale. Sta nella scala dei valori e delle priorità personali. Chi ha di meglio da fare, è perfettamente in grado di fare a meno dei negozi, anche se sono sempre aperti. Chi invece vive solo per acquistare, non sa che cosa altro fare di se stesso anche quando i negozi sono chiusi. La questione, per come la vedo io, assomiglia a quella della droga, e delle dipendenze in generale. I proibizionisti pensano che si possa migliorare la situazione solo vietando. Gli antiproibizionisti pensano che i divieti servano a poco e che si possa guarire dalle dipendenze solo crescendo, come società e come individui. Tendenzialmente, nonostante gli anni mi abbiano levato molte delle convinzioni e delle illusioni della gioventù, resto un antiproibizionista: che i negozi siano aperti o chiusi, l'importante è decidere noi come servircene, anziché essere al loro servizio.
(Michele Serra, rubrica della posta, Il Venerdì di Repubblica 20 gennaio 2012)
Che dire? So bene che questo non è un saggio di trecento pagine, e nemmeno un articolo di fondo, ma nella risposta di Serra (che vota a sinistra e scrive su un giornale almeno in apparenza orientato a sinistra) c’è un solo punto di vista, quello del consumatore. Una persona di sinistra dovrebbe invece pensare, in prima battuta, ai lavoratori. Le domande da farsi, per una persona di sinistra (e non solo) sono queste: chi lavora nei negozi? Da dove nascono le norme che si vorrebbero abolire, quelle sugli orari di chiusura e sul riposo nei giorni festivi?
Chi ha un negozio di proprietà e sta chiuso, rischia di vedersi portar via la clientela dal negozio vicino, e questo mi sembra ovvio. Ma anche chi ha un negozio di proprietà è una persona, prima che un lavoratore: non lo si può costringere ventiquattr’ore filate in negozio, avrà pure degli interessi, dei bisogni, una famiglia. Il rispetto degli orari di apertura e chiusura, e dei riposi nei festivi, è in primo luogo una norma di civiltà: orari uguali per tutti, o turni di chiusura ben programmati, consentono ugualmente la concorrenza e permettono una vita decente anche a chi gestisce un negozio.
Se invece si parla di lavoratori dipendenti, credete davvero che i supermercati assumeranno più personale? Forse non si è capito che aria tira: il personale rimarrà ridotto all’osso, non si pagheranno gli straordinari, si aumenterà la precarietà. E se qualcuno non ci crede, consiglio di guardarsi in giro: il prossimo passo sarà l’abolizione (cioè il licenziamento) delle cassiere. Il conto alla cassa lo faremo direttamente noi clienti, tecnicamente è già possibile e in molti supermercati stanno già cominciando.
PS: aggiornamento ad aprile 2012: una serie di servizi gioiosi ai tg sugli "studenti che vengono assunti per lavorare la domenica e così possono contribuire alle spese familiari". Ammesso che sia vero, quanto gli danno? E, soprattutto, perché solo gli studenti e non le madri di famiglia, o i disoccupati in generale? Semplice: gli studenti si accontentano di poco, li mandi via quando vuoi, non rompono con le storie dei figli da accompagnare o dei figli che hanno il morbillo, non sono sindacalizzati, e soprattutto - mi ripeto, ma è qui il punto importante - li mandi via quando vuoi. Se provano a dire mezza parola, per esempio: se non ti va bene, lì c'è la porta. (ammesso che sia vero, che assumono gli studenti: questa è un'altra bufala, magari ne assumono una ventina, come spot funziona).
(La vignetta di Massimo Bucchi è del 2004, e viene da www.repubblica.it dove Bucchi pubblica da sempre, ogni giorno o quasi)

giovedì 19 gennaio 2012

No grazie

A casa mia le cassette della posta sono dietro il portoncino d’ingresso, all’interno: per metterci dentro qualcosa bisogna suonare e farsi aprire. Siccome nel condominio c’è sempre qualcuno che apre, se mi suonano e io rispondo “no grazie” al citofono, poi quando scendo trovo sempre la cassetta della posta strapiena di carta inutile che butto via senza neanche guardarla. Non è un gran problema, e non ne avrei parlato qui se non fosse una perfetta metafora di quello che succede in questi anni. Non sono uno di quelli che vanno dietro alle mode, di alcune novità sono entusiasta, di altre penso “bello ma non mi serve”, e su tante altre cose nuove il mio giudizio è “no grazie”. Ora, la prima risposta è purtroppo diventata quella obbligatoria, in ogni caso. La seconda risposta (“bello ma non mi serve”) è guardata malissimo, la terza risposta (“no grazie”) è praticamente impossibile. Io dico “no grazie” e mi trovo nel piatto, o nella posta, o nelle mani, queste cose che non mi piacciono e non mi interessano; e io non sono una persona difficile, mi faccio andar bene tutto, se appena posso cedo volentieri il passo.
Rimanendo nel piccolo, per evitare discorsi troppo ampi e troppo personali, provo a sintetizzare qui sotto il mio pensiero, fermandomi soltanto a internet e alle comunicazioni.
Negli anni ’80 avevo un Vic16, vent’anni fa comperavo il primo pc, una quindicina di anni fa mi collegavo a internet (bisognava pagare, duecentomila lire oltre alle telefonate): tutto questo perché avevo scoperto che potevo informarmi, scrivere, avere notizie che non ero mai riuscito ad avere (apprezzo moltissimo wikipedia, e prima ancora i motori di ricerca in generale).
Dieci anni fa mi hanno coinvolto in un blog, ho pensato che si poteva fare e che avevo delle cose utili da dire, per dare il mio piccolo contributo all’accrescimento delle informazioni scritte in modo semplice (i miei post sulla chimica, per esempio). Ma, quando chiedevo: “Hai una mail a cui posso scriverti?”, tutti mi rispondevano “Ah no, io con il computer...”.
Oggi invece sono tutti su facebook, qualcuno anche su twitter. Tutti usano l’ipad (prima, il pc portatile: che oggi è clamorosamente fuori moda), tutti hanno skype, tutti hanno questo e quello. Ma a me non serve, parlo poco, per comunicare con il mio prossimo mi bastava il telefono a gettoni: invece mi avete obbligato a comperare il telefonino, e adesso mi state obbligando a questo e a quello. Io non uso l’automobile, un pieno mi dura sei mesi: e invece mi avete obbligato ad avere superstrade e autostrade e parcheggi invece dei posti dove andavo a piedi o in bicicletta. Devo continuare? No, mi fermo qui: ho perso il conto di quante volte ho detto “no grazie” e voi siete andati avanti lo stesso, magari anche con lo schiacciasassi.
Che altro dire? Tempi duri per il povero Bartleby...

(...) In tale esatta posizione sedevo, quando lo chiamai, spiegando in fretta cosa desiderassi da lui, ovvero, che esaminasse con me un breve documento. Immaginate la mia sorpresa, meglio, la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo privato, Bartleby con voce singolarmente mite, ma ferma, replicò: "Avrei preferenza di no." Rimasi per qualche istante seduto in perfetto silenzio, cercando di riavermi dallo sbigottimento che m'aveva preso. Lì per lì m'accadde di pensare che le mie orecchie non avessero udito bene, o che Bartleby avesse del tutto frainteso ciò ch'io intendevo dire. Ripetei la mia richiesta con voce più chiara che potei, ma, con tono altrettanto chiaro, mi giunse la medesima risposta dianzi udita: "Avrei preferenza di no."
"Preferenza di no?" gli feci eco, alzandomi in grande eccitazione, e attraversando la stanza d'un balzo. "Come sarebbe a dire? Cosa vi prende? Voglio che m'aiutiate ad esaminar codesto foglio, prendetelo," e glielo gettai. "Avrei preferenza di no," diss'egli.
Lo guardai impietrito. Il suo volto era smunto e composto, gli occhi grigi tranquilli e velati. Non un segno di turbamento lo animava. Vi fosse stata, nei suoi modi, la minima traccia d'inquietudine, collera, impazienza o impertinenza; in altre parole, vi fosse stato in lui alcun tratto d'ordinaria umanità, senza meno l'avrei cacciato di forza dai miei uffici. Ma, per come stavano le cose, non mi sarebbe parso altrimenti che cacciar dalla porta il mio pallido busto in gesso di Cicerone. Rimasi a scrutarlo per qualche attimo, mentre egli continuava a scrivere, indi tornai a sedermi al mio scrittoio.
Tutto ciò è molto strano, pensavo. Qual è la miglior cosa da fare? Ma avevo fretta di sbrigare il mio lavoro. Decisi di trascurare l'accaduto, per il momento, rinviando la sua considerazione ad un momento di tranquillità. Così, chiamato Nippers dall'altra stanza, lo scritto venne rapidamente controllato. Alcuni giorni dopo, Bartleby terminò la stesura di quattro prolissi documenti, il quadruplicato d'una settimana di testimonianze raccolte in mia presenza nell'Alta Corte di Cancelleria. Divenne necessario esaminarli. Si trattava di una causa importante, ed una grande accuratezza era indispensabile. Avendo tutto predisposto, chiamai dalla stanza attigua Turkey, Nippers e Ginger Nut, intendendo metter le quattro copie in mano ai miei quattro impiegati, mentre io avrei dovuto legger l'originale. Di conseguenza, Turkey, Nippers e Ginger Nut avevano preso posto in una fila di seggiole, con in mano ciascuno il proprio documento, quando chiamai Bartleby perché s'unisse a quest'interessante gruppo.
"Bartleby! Presto, sto aspettando."
Udii il lento stridere della sua sedia sul nudo pavimento, e presto egli apparve sostando all'ingresso del suo eremo.
"Cosa si comanda?" disse in tono mansueto.
"Le copie, le copie," diss'io in tutta fretta. "Dobbiamo esaminarle. Ecco..." e gli allungai il quarto dei quadruplicati.
"Avrei preferenza di no," diss'egli, e silenziosamente sparì dietro il paravento.
Per alcuni istanti fui trasformato in una statua di sale, in piedi alla testa della mia colonna di assisi impiegati. Riprendendomi, mi mossi verso il paravento, e gli chiesi ragione dell'inusitata condotta.
"Perché vi rifiutate?"
"Avrei preferenza di no."
Con chiunque altro sarei andato su tutte le furie; bandita ogni altra chiacchiera, l'avrei senza scrupoli cacciato via. Ma v'era qualcosa in Bartleby che, non soltanto stranamente mi disarmava, ma puranco, in modo assai sorprendente, mi toccava e sconcertava. (...)
(Herman Melville, Bartleby lo scrivano, ed. Feltrinelli, traduzione di Gianni Celati)

C’è una cosa in cui somiglio a Bartleby. No, non nell’aspetto fisico: io sono alto un metro e novanta e ho un fisico imponente (così mi dicono), e se mi facessi crescere la barba somiglierei piuttosto a Bud Spencer, o magari proprio a Herman Melville o a uno dei suoi balenieri. La cosa in cui assomiglio a Bartleby è questa: non mi piace essere obbligato a fare qualcosa, vorrei poter scegliere. E questo fa incazzare terribilmente tutti, prima o poi anche le persone meglio disposte finiscono con l’arrabbiarsi, e francamente non ho mai capito perché: Facebook non mi interessa, Twitter non mi interessa, prendere a ditate uno schermo mi fa un po' schifo, vorrei continuare ad avere un monitor bello grande e non uno piccolo e scomodo, e poi vorrei continuare a pagare in contanti e ad avere delle persone (e non delle macchine) davanti a me nei negozi e nelle banche e nelle biglietterie, mi dispiace ma non capisco: dov’è il problema?

lunedì 16 gennaio 2012

Imprenditorialità

Nei giorni scorsi ho letto un’intervista al signor Würth, uno dei maggiori collezionisti d’arte al mondo: il suo nome sarà sicuramente familiare a molti, perché si tratta di un marchio molto noto nel campo della ferramenta. Essendo un collezionista d’arte, il signor Würth è ovviamente ricchissimo; e vale la pena di andare a vedere come ha cominciato:
Incontro con Reinhold Würth 
di Antonella Barina, il Venerdì di Repubblica 14 ottobre 2011
SALISBURGO. «Il commercio è il mio mondo, la mia vita: sono per il novanta per cento un mercante. Quando ereditai l'azienda da mio padre, nel '54, aveva due dipendenti; oggi ne ha più di 65 mila. Era confinata a Künzelsau, provincia rurale nel Sud della Germania, ora è in 84 Paesi». Tra i cento uomini più ricchi del mondo, secondo la rivista Forbes, Reinhold Würth è ben consapevole di avere la mercatura nel sangue, come tutti i più danarosi tedeschi, sostenuti nel business perfino dall'etica protestante. Chiodi, viti, bulloni, punte di trapano: la maggior parte della ferramenta che ci capita per le mani ha il marchio Würth, azienda leader nel commercio all'ingrosso di tutto ciò che serve a fissare e montare gli oggetti, con un catalogo, ormai, di centomila prodotti diversi. Reinhold Würth commercia, non produce: compra e rivende ai negozianti al dettaglio. E da anni ha anche un chiodo fisso: acquistare (senza mai rivendere) opere d'arte. Finora ha raccolto più di 14 mila 500 pezzi, con un debole per l'Impressionismo e le grandi avanguardie del secolo scorso, Picasso, Magritte, Munch, Chagall, Mirò, Moore, ma anche per molte star contemporanee, da Hockney a Baselitz, da Kiefer a Kapoor. Nel 2003 ha poi comprato l'intera collezione Fürstenberg, arricchendo la propria raccolta di antichi maestri del Medioevo e del Rinascimento, tra cui spiccano numerosi Cranach. Ultimo acquisto, qualche settimana fa: la “Madonna del borgomastro Jacob Meyer”, che Hans Holbein il giovane dipinse tra il 1525 e il 1528. Costo: top secret, ma si mormora di 70 milioni di euro. Il mercante che gli ha venduto il quadro lo ha definito il prezzo più alto mai pagato in Germania per un'opera d'arte. Il capolavoro sarà in mostra da metà gennaio in una chiesa dell'XI secolo che Würth ha convertito in museo nella cittadina di Schwäbisch Hall, a pochi chilometri da quella Künzelsau in cui l'azienda ha ancora il suo quartier generale (....)
Continuando a leggere l’intervista si viene a sapere che cos’era l’impresa di partenza del padre di Würth: un negozio di ferramenta. Non c’è da stupirsi: il negozio, anche piccolo, è stato il vero punto di partenza per molti imprenditori. Lavorando in un negozio, soprattutto se il negozio è nostro, si imparano tante cose, soprattutto a tenere in ordine i conti (entrate e uscite), a gestire un magazzino, a evitare gli sprechi (se si ha un negozio di frutta e verdura la merce va a male molto velocemente), magari anche ad avere dei dipendenti. Insomma, è da qui che si può cominciare ad avere un’attività.
Pensando al signor Würth, che oggi ha 76 anni, mi è venuto spontaneo pensare a cosa si è fatto in questi ultimi decenni in Italia. E la situazione è quasi dappertutto quella che espongo qui sotto.

La rete dei negozi è praticamente scomparsa. I grandi centri commerciali, aperti in numero enorme, hanno fatto il deserto intorno a loro. Oggi, è praticamente impossibile avere un negozio, mettersi in proprio: chi lo fa rischia seriamente il fallimento, non solo dell’azienda ma anche personale. Insomma, anche ad aprire una cartoleria (negozio tranquillo, niente merce deperibile) il rischio di vedersi aprire un ipermercato a cento metri di distanza è grande, e allora c’è una sola cosa da fare, chiudere e rendere la licenza in Comune. E’ già successo a tanti, ma proprio a tanti; bisogna proprio avere i paraocchi per non accorgersene.
Ora, i centri commerciali sono una bella cosa, divertente, c’è anche l’opportunità di risparmiare qualcosa; ma favorendo i centri commerciali si è praticamente uccisa la voglia di imprenditorialità; e questo proprio negli anni in cui si è più parlato di imprenditorialità e di piccole imprese.
Oltretutto, fateci caso: la merce che si vende negli ipermercati e supermercati non è quasi mai italiana. Cosa vuoi che importi, alle grandi catene commerciali, se la merce che vendono è italiana o cinese o di Kyssadove? L’unica cosa che importa è che la merce renda, e dal loro punto di vista è giusto così; ma così facendo si è fatto il deserto anche nell’altra via principale per creare imprenditoria, i piccoli artigiani e le piccole imprese – magari quelle che aprivano negli anni ’50 e ‘60 gli operai e i meccanici che si mettevano in proprio, la ferramenta che ha dato inizio alle fortune di Reinhold Würth.

Storie come quella di Reinhold Würth ci sono state anche in Italia, e non poche. Ma, oggi, anno 2012, sarebbero ancora possibili? A occhio e croce direi di no, nell’anno 2012 o sei padrone o sei servo. Al di là del servo e del padrone, come ai tempi del feudalesimo, oggi non c’è quasi più niente; però c’è ancora chi continua a parlare di ripresa, e anche di imprenditorialità. Che sia Italia o che sia Padania, il risultato di vent’anni di chiacchiere sull’imprenditorialità è proprio questo: o servi, o padroni. C’è chi ne è contento, beati loro.

giovedì 12 gennaio 2012

Pelliccioterapia

Comunicazione di servizio, per chi dovesse passare di qui: a causa di un conflitto fra Blogger e il mio browser non riesco a rispondere ai vostri commenti. Spero che passi, nel frattempo mi prendo una pausa e porto qui sopra una strip di Bill Watterson che mi rimanda a un mio momento particolarmente felice, cose del maggio 1997. (Come passa il tempo...)
(la strip viene da un numero del mensile Linus, anni '90)
PS: aggiornamento a domenica 15 gennaio: il problema persiste, riesco a fare tutto ma non appena provo a rispondere ai vostri commenti mi si blocca tutta la finestra del browser. Che fare? L'unica cosa certa è questa: a Blogger non si può mandare una mail e chiedere direttamente informazioni, bisogna buttare la bottiglia col messaggio nel vasto oceano dei forum di assistenza, e sperare in una risposta sensata (sì, ho già cancellato tutti i cookies, ho già fatto quello che potevo fare, è inutile insistere, avrei bisogno di una risposta sensata da uno che sa cosa fare - ma cosa lo dico a fare, tanto vale chiudere qui)
PPS: questa vicenda mi ricorda molto da vicino il blocco di quattro giorni consecutivi del computer delle Poste...attenzione che adesso il sistema computerizzato sta per arrivare ovunque, e poi se avete problemi con il bancomat o con la pensione o con la bolletta della luce, poi vi tocca seguire queste procedure assurde.

mercoledì 11 gennaio 2012

Edicolanti, notai e avvocati

Le edicole stanno chiudendo tutte; molte hanno già chiuso. Magari chi ha diciott’anni non se ne rende conto, a meno che non veda un film o una fotografia e possa fare un raffronto, ma dove c’era un’edicola spesso non c’è più niente, quelle che chiudono non vengono nemmeno sostituite. Gli edicolanti che continuano a lavorare lo fanno non con i giornali, ma con i gratta e vinci, la tabaccheria, i servizi tipo lottomatica, queste cose qui. Perché il dato di fatto, innegabile, è questo: i quotidiani sono in calo di vendite, e anche settimanali e mensili se la cavano malino. Cos’è successo è facile da capire: i giovani non comperano più il giornale. Da tempo, sotto i trent’anni è difficile vedere qualcuno che compera regolarmente un quotidiano. Dei motivi si può discutere, magari lo si può fare in uno dei prossimi post, ma provate a chiedere a un edicolante; salvo rare eccezioni è così dappertutto. Oppure guardatevi intorno quando andate a comperare un giornale, sempre più spesso vi trovate in coda dietro a gente che chiede i gratta e vinci e altre lotterie più o meno istantanee.
Scrivo questo perché quando vedo il ministro Monti, e anche tutti i mass media, nel loro empito liberalizzatore associare gli edicolanti ai notai, ai farmacisti e agli avvocati, mi viene da pensare che forse ministri e giornalisti non vivono nel nostro stesso mondo, non prendono il tram (dove comperi il biglietto se l’edicola è chiusa?), hanno un’idea fantasiosa e astratta del mondo che devono descrivere e governare. Forse non è proprio così, forse sto esagerando, ma questo mettere gli edicolanti, e i dipendenti dei negozi, nello stesso mazzo insieme a notai e farmacisti, mi sembra veramente una barzelletta.
La mia proposta sarebbe questa: discutere separatamente di farmacie, di tassisti, di orari dei negozi, di avvocati e di notai, eccetera. Non sono la stessa cosa, non sono le stesse categorie: fino a poco tempo fa mi sarebbe sembrato stupido dirlo, adesso vedo che è diventato necessario farlo.
Un’ottima cosa sarebbe tornare a ragionare sul luogo dove sorgono negozi e farmacie, per esempio come si faceva prima della prima ondata liberalizzatrice, quella voluta da Bersani: ci sono zone deserte, prive di negozi, altre con troppi esercizi commerciali vicini. Ma questo sarebbe andare contro la logica degli ipermercati e dei centri commerciali, e quindi sappiamo già che non si farà mai (in questo campo sono loro che comandano, le catene della grande distribuzione: ormai si sa).
PS: ho visto in tv nell’intervista con Fazio che Mario Monti si è un po’ tirato indietro sulla parola “liberalizzazioni”: si vede che quantomeno legge i giornali e i blog e ha capito che questa parola comincia a non piacere, così come “privatizzazione”. Spero che sia un buon segnale, anche se ormai temo che sia tardi, il disastro è già stato fatto e ne pagheremo il conto nei prossimi anni.

martedì 10 gennaio 2012

Equitalia e la Lega al governo

Ieri sera, facendo zapping in tv, sono finito su un canale dove il leghista Davide Boni ribadiva che la Lega Nord è all’opposizione: il soggetto era il governo Monti, in carica da meno di due mesi, e le sue decisioni recenti e future.
Veramente, ho pensato, Davide Boni è saldamente al governo, e da quindici anni (quasi venti): presidente della giunta regionale in Lombardia, se non sbaglio. Da governante di una delle regioni più importanti d’Italia, si è sempre seduto tranquillamente al fianco di assessori come il signor Nicoli Cristiani (lo scandalo dei rifiuti versati nell’asfalto delle strade, e non solo), del signor Prosperini (patteggiamento per tangenti, indagato per traffico d’armi con le zone in guerra dell’Africa), e – per tacer del resto e non tirarla troppo in lungo - non mi ricordo una sua decisa presa di posizione sullo scandalo delle firme false per la lista Formigoni.
Veramente, ho pensato, la Lega Nord è al governo in Piemonte (anche qui c’è uno scandalo di firme false, indagini ancora in corso). Veramente, ho pensato, la Lega Nord è saldamente al governo in Veneto (una spaventosa alluvione tra Vicenza e Padova, cose mai viste dal primo dopoguerra in qua). Veramente, ho pensato, il governo Monti fin qui ha solo ratificato decisioni già prese dal governo precedente, che era ancora in carica meno di due mesi fa e che aveva ministri leghisti importanti: Interni, Riforme, Semplificazione Legislativa.
Ed è appunto il pensiero che abbiamo avuto un ministro leghista per le Riforme (Umberto Bossi, nientemeno) e uno per la Semplificazione Legislativa (il signor Calderoli, che fin qui aveva fatto il dentista a Bergamo) a farmi arrivare ad Equitalia. Equitalia, cioè l’Agenzia di Riscossione, è sempre esistita e non se ne è mai parlato, o quasi mai. Adesso, invece, è stata oggetto di attentati e intimidazione: cos’è mai successo? Io fino a ieri non sapevo neanche che esistesse, l’Agenzia di Riscossione: e penso che sia stato così per quasi tutti.
Quello che è successo è questo: che è stato cambiato il nome alla Riscossione, rendendola più riconoscibile, e che – soprattutto – sono stati cambiate le norme e i regolamenti della Riscossione, rendendoli pesanti e perfino incivili, come nel caso delle ipoteche messe senza nemmeno avvisare l’interessato. Queste norme, recentissime e incivili, sono state firmate e approvate dalla Lega Nord, nei vari Consigli dei Ministri del governo Berlusconi, presenti Maroni, Bossi, Calderoli, Castelli, eccetera eccetera eccetera. Infilati in mezzo a uno degli infiniti e indecenti “decreti milleproroghe”, ci sono anche le norme recentemente approvate che hanno reso antipatica Equitalia.
Ora, gli attentati e le bombe esplosive sono cose spaventose; oltretutto, mettono tutti noi in pericolo perché se c’è in viaggio un pacco esplosivo può esplodere ovunque, anche senza arrivare a destinazione. E dunque mi associo anch’io alle condanne degli attentati lanciate da Monti e da Bersani, però vorrei anche suggerire: le norme e i regolamenti sono stati fatti da chi sapete, dateci un’occhiata per favore.
E un’altra cosa: il nome “Equitalia” è costato un sacco di soldi. Quando si cambia nome a una società, quando si cambia un marchio o un “logo”, si spendono un sacco di soldi. Il nome “Equitalia” è creazione della stessa agenzia che ha inventato l’ingombrante (e costosissima, per chi non lo sapesse) farfallina che faceva da logo alla RAI: sarebbe bello indagare su chi ha messo le firme sotto quei contratti, e magari nel frattempo tornare al vecchio nome, “Riscossione”, che rende tutto più chiaro e più leale. Questi cambi di nome sono tipici della mentalità dei pubblicitari: che su una confezione di lassativi ci scrivono che sono caramelle dolci, così i bambini le mandano giù senza protestare: ma sempre lassativi restano, e prima o poi anche il bambino più buono finisce per rendersene conto.

domenica 8 gennaio 2012

La Maison Jaurès

...queste immagini, della fine del secolo XIX, mostrano gente pacifica di un Paese pacifico. Eppure questa pace, considerata come un facile possesso, sta lentamente fuggendo di mano a questa gente distratta.
Chi avverte il pericolo è trattato da pazzo: mancano ancora troppi anni al fatale 1914. Ma è proprio ora, sul finire del secolo, che l’opinione pubblica si culla in un ottimismo soddisfatto e orgoglioso, e che insensibilmente scivola su un cammino i cui passi si chiameranno nazionalismo, odio, desiderio di rivincita, spirito di guerra. Ma nessuno se ne accorge, e quando Jean Jaurès comincerà a tuonare contro un pericolo che nessuno vede, le sue parole piuttosto che profetiche sembreranno quelle di un allarmista o di un pazzo.
(da un documentario su Jean Jaurès, di Leandro Castellani, trasmesso dalla Rai nel 1968 e replicato di recente su Rai Storia, canale 54 del digitale terrestre)
Jaurès verrà ucciso nel 1914, il giorno prima dell’entrata in guerra. Il suo assassino non ha mai letto o ascoltato niente di suo, e non lo conosceva di persona; aveva però letto, per mesi e per anni, i giornali di destra (“Le Figaro” compreso) che avevano scatenato contro Jaurès una violentissima campagna di stampa, diffamatoria. Questa campagna di stampa durava da molto tempo, più di dieci anni, cioè dall’inizio di quello che fu definito “affaire Dreyfus”. Nel 1914, Jaurès era impegnatissimo a tentare di evitare la guerra, ma fu fatto passare per traditore. Al suo assassino è bastato un solo colpo di pistola, Jaurès era una preda facile.
Nel documentario, molto bello, ci sono molte interviste ad amici e conoscenti di Jaurès, che negli anni ’60 erano ancora in vita. Alla domanda: “Jaurès sarebbe riuscito ad evitare la guerra?” la risposta è ovviamente no, gli interessi in gioco (soprattutto quelli dei costruttori d’armi) erano ormai enormi, il nazionalismo era stato esasperato dalla stampa di destra. Ma Jaurès ci stava provando, contattando l’Internazionale Socialista e sperando nei cambiamenti portati dalle nuove elezioni; ma quei cambiamenti non vennero, la gente continuò a votare a destra, per quella destra, e fu la fine di trent’anni di pace.
Oggi la pace in Europa dura da tempo immemorabile, dal 1945: una guerra c’è stata, in Jugoslavia, ma si è intervenuti per cercare di evitare che il conflitto si espandesse. Dato che la pace dura da quasi settant’anni, bisogna dire – anche sfumando il giudizio nelle sue necessarie variazioni – che abbiamo avuto dei buoni politici, in questi settant’anni. Ma quella generazione ormai è finita: era fatta di persone che avevano visto la guerra, e dei loro figli. Oggi rinasce il nazionalismo, rinasce il razzismo, i mercanti d’armi premono, la stampa di destra (almeno qui in Italia) è molto simile a quella dei tempi di Jaurès, e quando nascono associazioni giovanili le si intitolano non a Gandhi o a Jaurès, ma a Marinetti, alla Repubblica di Salò, a D’Annunzio... Si faccia caso ai nomi: sono tutti fautori della guerra, o dei partiti che ci portarono alla guerra. Vediamo simboli bellici ovunque, abbiamo avuto (e abbiamo ancora) ministri e assessori che a queste ideologie si rifanno più o meno apertamente, si fa apertamente esaltazione del fascismo (ideologia bellica e militarista come nessun’altra, nazismo a parte), insomma se ce la caviamo anche questa volta possiamo dire che siamo stati fortunati.

lunedì 2 gennaio 2012

Il libro delle macchine ( VI )

Una mia amica aveva comperato un appartamento: le era piaciuto perché le finestre si aprivano su un giardino, cosa rara a Milano. Neanche il tempo di andarci ad abitare, e il giardino era stato trasformato in un parcheggio per i dipendenti di una banca. Era facile da prevedere: alle macchine un giardino non serve, servono invece strade larghe e ben asfaltate, e parcheggi. Orti e giardini servono agli umani, e non alle macchine: se in un condominio ci sono persone con due macchine e la moto grossa, si farà quel che vogliono loro; o, per meglio dire, quello che vuole la moto e quello che vogliono le automobili. Si può magari opporsi, contrastarli, ma torneranno sempre alla carica, e alla fine vinceranno loro. E’ inevitabile: e se non sono i vostri vicini a farlo, sarà il Comune, la Provincia, il Ministero degli Interni, ad espropriare o a militarizzare orti, prati, campi coltivati e giardini: come sta succedendo un po’ ovunque in questi nostri giorni. Via quindi i giardini, via il prato dove giocano i bambini, spazio a posteggi e box, ad autostrade, aeroporti e TAV: le macchine hanno la loro casa, e siamo stati noi a costruirgliela. I bambini d’ora in avanti giocheranno in casa, con nuove macchine: i videogiochi, per esempio. Ecco un’altra specie di macchina, non meccanica ma completamente elettronica. Forse le macchine stanno per manifestarsi nella loro vera e definitiva forma: come le larve parassite che mangiano il bruco o il ragno a poco a poco, così tra breve le macchine non avranno più bisogno di noi. Fantascienza? Non so, a volte leggendo Philip K. Dick, o H.G. Wells, e anche con Samuel Butler, mi sembra invece che sia la realtà. Più passa il tempo, e più mi sembra che questi autori (e altri) abbiano anticipato la realtà che stiamo vivendo oggi, anno 2012 e seguenti.

Samuel Butler, da “Erewhon“
E’ indubbio che, se una macchina è capace di riprodurne sistematicamente un'altra, si può dire che essa possiede un sistema riproduttivo. Che cos'è infatti un sistema riproduttivo, se non un sistema per la riproduzione? E quante sono le macchine che non vengono riprodotte sistematicamente da altre macchine? Ma, direte, è l'uomo che le fa riprodurre. Lo ammetto; ma non sono forse gli insetti che permettono a molte piante di riprodursi, e intere famiglie di vegetali non sarebbero forse destinate a sparire se agenti interamente estranei ad esse non le fertilizzassero? Chi può affermare che il trifoglio dei prati non possiede sistema riproduttivo solo perché per riprodursi deve avere come paraninfi l’ape e il bombo (e solo l’ape e il bombo)? Nessuno. L’ape e il bombo fanno parte del sistema riproduttivo del trifoglio.
Tutti noi deriviamo da animaletti microscopici, la cui identità era interamente distinta dalla nostra, e che agivano secondo le leggi della loro specie, senza curarsi affatto della nostra opinione in proposito. Quelle piccole creature fanno parte del nostro sistema riproduttivo; perché allora noi non potremmo far parte del sistema riproduttivo delle macchine?
Ma le macchine che producono macchine non producono macchine della loro stessa specie. Un ditale è fatto da una macchina, ma non è, né sarà mai, fatto da un ditale. Anche qui, se interroghiamo la natura, troveremo innumerevoli analogie, e ci accorgeremo che un sistema riproduttivo può funzionare perfettamente senza che la cosa riprodotta sia della stessa specie di quella che la produce. Le creature che riproducono la loro stessa specie sono molto rare; esse riproducono sempre qualcosa che ha il potere latente di assumere la forma di chi le ha generate. Così la farfalla depone un uovo, il quale uovo diverrà bruco, il quale bruco diverrà crisalide, la quale crisalide diverrà farfalla. E benché per ora, non ho difficoltà ad ammetterlo, non si possa dire che le macchine posseggano qualcosa di più del semplice germe di un autentico sistema riproduttivo, non abbiamo forse appena visto che solo di recente esse hanno acquistato i rudimenti di una bocca o di uno stomaco? Perché non potrebbero progredire nel campo della riproduzione vera e propria come hanno progredito ultimamente in quello della nutrizione? Può darsi che, una volta sviluppatosi, il sistema rimanga in molti casi un sistema di riproduzione indiretta. Solo alcuni tipi di macchine, forse, potranno essere fecondi, mentre gli altri avranno funzioni di meccanico, proprio come la maggioranza delle formiche edelle api non partecipa alla continuazione della specie, ma si limita a procurare e a immagazzinare il cibo, senza occuparsi della riproduzione.
Non si può pretendere che il parallelismo sia perfetto o quasi perfetto; certo non adesso, e probabilmente mai. Ma non vediamo già analogie sufficienti a destare in noi serie preoccupazioni per il futuro, e a farci ritenere doveroso l'arrestare il male finchè siamo in tempo?
Le macchine possono, entro certi limiti, produrre macchine di qualsiasi tipo, per quanto diverse da esse. Ogni specie di macchina avrà probabilmente i suoi riproduttori meccanici speciali, e quelle più complesse dovranno la loro esistenza a molti genitori invece che a un solo padre e a una sola madre.
Ci inganniamo quando consideriamo come una cosa unica ogni macchina complicata; in realtà è piuttosto come una città, o addirittura una società, dove ciascun membro viene generato secondo la sua specie. Noi vediamo la macchina come un tutto, e le diamo un nome e un'individualità; pensiamo alle membra del nostro corpo, che tutte insieme formano un individuo nato da un unico centro di azione riproduttiva, e ne deduciamo che non può esistere azione riproduttiva che non scaturisca da un centro unico. Ma questa conclusione non è scientifica: il fatto che una macchina a vapore non sia mai stata prodotta interamente da un'altra macchina a vapore, o da altre due, non ci autorizza affatto a dire che le macchine a vapore non posseggono sistema riproduttivo. In realtà, ogni parte della macchina a vapore viene prodotta dai suoi genitori particolari, che hanno la funzione di creare quella parte specifica, e quella sola, mentre la combinazione delle parti in un tutto unico forma un altro settore del sistema riproduttivo meccanico, oggi incredibilmente complesso e difficile da abbracciare nella sua interezza. Complesso per ora, ma quanto più semplice e più comprensibile nella sua organizzazione può diventare in altri centomila anni ! O anche solo in ventimila ! Perché l'uomo di oggi, credendo di fare il proprio tornaconto, spende un'incalcolabile quantità di lavoro, di tempo e di intelligenza per perfezionare sempre più la creazione delle macchine. E’ gia riuscito a fare cose che sembravano irrealizzabili, e apparentemente non vi sono limiti ai risultati che si possono ottenere con tanti e tanti miglioramenti, purché tali miglioramenti vengano trasmessi di generazione in generazione e le macchine si modifichino di conseguenza.
Non bisogna mai dimenticare che il corpo umano ha raggiunto la sua forma attuale grazie alle infinite modificazioni verificatesi in molti milioni di anni; eppure il suo organismo non si è mai perfezionato ed evoluto con la millesima parte della rapidità con cui si stanno perfezionando ed evolvendo le macchine. È questo il punto più preoccupante della situazione e mi si deve perdonare se ci batto e ci ribatto tanto spesso».
(Samuel Butler, da “Erewhon“, ed. Adelphi, trad. Lucia Drudi Demby, pag.172 e seguenti)
(nota: ho dovuto correggere un errore di traduzione, nel testo pubblicato da Adelphi si legge che il calabrone partecipa all’impollinazione; si tratta invece del bombo, una grossa ape pelosa molto comune. Il calabrone è una grossa vespa, e non un’ape: si nutre di frutta e di altri insetti, e non del nettare dei fiori)

domenica 1 gennaio 2012

Il libro delle macchine ( V )

Il ragionamento di Butler continua, e comincia a diventare un po’ impressionante: e devo dire che mi impressiona ancora, anche dopo tutta la letteratura e i film sui cyborg, e dintorni.

Samuel Butler, da “Erewhon“
Indubbiamente, determinate funzioni della macchina a vapore resteranno immutate per miriadi di anni: forse sopravviveranno persino quando l'uso del vapore sarà superato. Il pistone, il cilindro, la ruota motrice, il bilanciere e altre parti della macchina probabilmente ci saranno sempre, proprio come certi modi di mangiare, di bere e di dormire, che l'uomo ha ancora in comune con molti animali inferiori. Ci sono animali che hanno un cuore che batte come il nostro, e vene e arterie e occhi e orecchie e naso; che sospirano nel sonno e piangono e sbadigliano, come noi; che amano i loro figli; che provano piacere e dolore, speranza, paura, ira, vergogna; che hanno memoria e prescienza; che sanno che se accadono certe cose, moriranno; che temono la morte quanto noi; che si comunicano i loro pensieri e in certi casi sanno agire in accordo tra di loro.
La serie delle somiglianze è infinita: vi ho accennato solo perché si potrebbe obiettare che, siccome difficilmente la macchina a vapore verrà migliorata nei suoi elementi principali, ormai, con tutta probabilità, non si modificherà gran che. Questo è troppo bello per essere vero. Si modificherà e si adatterà a un'infinita varietà di scopi, proprio come l'uomo si è modificato fino a conquistare capacità negate ai bruti. Per ora il fuochista è, per la sua macchina, più o meno quello che è il cuoco per noi. Pensate agli uomini che lavorano nelle miniere e nei pozzi di carbone, pensate ai mercanti che vendono il carbone e ai treni che lo trasportano, ai macchinisti, alle navi da carico: che esercito di servitori impiegano le macchine! Non ci sono forse più uomini impegnati a curare le macchine che a curare i propri simili? Le macchine non mangiano forse perché servite dall'uomo? Non stiamo noi stessi creandogli esseri che devono prendere il nostro posto nel dominio della terra? Non stiamo perfezionando giorno per giorno la bellezza e la precisione del loro organismo, accrescendo quotidianamente la loro potenza e fornendo loro anche quella capacità di autoregolamento e di autonomia che varrà più di qualsiasi intelligenza?
Non è una novità che la macchina si nutra ! L'aratro, la vanga e il carro si nutrono attraverso lo stomaco dell'uomo; il combustibile che li mette ìn moto deve bruciare nella fornace di un uomo o di un cavallo. Per poter scavare, l'uomo deve consumare pane e carne; il pane e la carne sono il combustibile che fa funzionare la vanga. Se un aratro è tirato da un cavallo, la sua forza motrice è rappresentata dall'erba, dalle fave o dall'avena, che bruciano nel ventre dell'animale, dandogli la forza per lavorare; senza di esse il lavoro cesserebbe proprio come una macchina a vapore si fermerebbe se il fornello che l'alimenta si spegnesse. Uno scienziato ha dimostrato che "nessun animale ha il potere di produrre energia meccanica, ma tutto il lavoro da lui fatto finché era vivo, tutto il calore emesso dal suo corpo, nonché il calore che si otterrebbe bruciando le materie combustibili che il suo corpo ha perduto durante la sua intera esistenza, sommati insieme, rappresentano l'esatto equivalente del calore che si otterrebbe bruciando tutto il cibo da lui mangiato durante la sua vita, più una quantità di combustibile capace di sviluppare lo stesso calore sviluppato dal suo corpo che venisse bruciato immediatamente dopo la morte". Non so come abbia scoperto tutto ciò, ma è un uomo di scienza. Come si può allora negare la vitalità futura delle macchine basandosi sul fatto che attualmente, cioè nel loro stadio infantile, sono sottoposte a esseri di per sé incapaci di originare energia meccanica?
Ciò che preoccupa di più, tuttavia, è il constatare che, mentre un tempo gli animali erano il solo stomaco di cui le macchine potevano disporre, oggi ve ne sono molte con uno stomaco loro proprio, e che consumano il loro cibo da sole. Ciò rappresenta un grosso passo avanti nell'evoluzione che le renderà, se non animate, almeno talmente affini agli esseri animati da non essere molto più diverse da noi di quanto gli animali siano diversi dai vegetali. E ciò, benché l'uomo sia destinato a rimanere, sotto certi aspetti, un essere superiore, non è forse in accordo con i comuni artifizi della natura, che lascia alcune forme di superiorità ad animali nel complesso superati da tempo? Non ha permesso alla formica e all'ape di restare superiori all'uomo per l'organizzazione della loro comunità e dei loro sistemi sociali? O all'uccello per il volo? O al pesce per il nuoto? O al cavallo per la forza e la velocità? O al cane per 1'abnegazione?
Alcune persone con le quali ho avuto occasione di parlare di questo argomento sostengono che le macchine non potranno mai avere un'esistenza animata o quasi animata, in quanto non posseggono sistema riproduttivo e probabilmente non lo possiederanno mai. Se con ciò si vuol dire che non possono sposarsi, e che non ci sarà mai dato di vedere una fertile unione tra due locomotive, con i piccoli che giocano davanti alla porta del deposito (anche se la cosa ci piacerebbe tanto) lo ammetto senz'altro. Ma è un'obiezione molto superficiale.
Nessuno pensa che tutti i caratteri degli organismi attualmente esistenti possano esattamente ripetersi in una forma di vita del tutto nuova. Il sistema riproduttivo degli animali è molto diverso da quello delle piante, ma è pur sempre un sistema riproduttivo. Perché la natura dovrebbe avere esaurito le forme di questo sistema?
(Samuel Butler, da “Erewhon“, ed. Adelphi, trad. Lucia Drudi Demby, pag.172 e seguenti)
(continua)