sabato 29 settembre 2012

Saluto romano

Dopo la sentenza di un tribunale (l’ennesima, sempre nella stessa direzione: qualcosa significherà) si è stabilito che il saluto romano accompagnato da esaltazione del fascismo continua ad essere reato. Curiosando su internet, anche senza volerlo, ho trovato molti commenti di persone che se ne stupiscono; e di solito aggiungono: “perché il saluto romano è reato, e il saluto col pugno chiuso no?”. La risposta è molto semplice, e mi meraviglio sempre che ci sia qualcuno che ancora non sappia rispondere, sinistra compresa; in questo non saper rispondere vedo molta malafede, e purtroppo anche molta ignoranza. La ragione è questa: il fascismo è quello di Mussolini, un fenomeno limitato agli anni che vanno dal 1920 al 1945, un regime che ha portato dopo vent’anni di governo alla disfatta totale dell’8 settembre 1943 (sorvolo su tutto il resto, ma come è andata a finire bisogna pur dirlo). Quando si fa il saluto romano e si fa l’apologia del fascismo ci si riferisce a quello, e solo a quello. Diverso è invece il caso dei simboli “comunisti”, che coprono un percorso temporale lungo più di un secolo (dal 1848 o forse ancora prima) e che per questo motivo hanno molte differenti interpretazioni. Nel saluto col pugno chiuso e nel simbolo della falce e martello si possono far rientrare movimenti molto diversi, dalla socialdemocrazia al laburismo, dall’anarchia al regime militare dell’Unione Sovietica. Si tratta dello stesso motivo per cui non è vietata la svastica: usata in senso positivo, è un simbolo antichissimo che ha molti significati, sia europei che asiatici. La svastica è anche un importante simbolo buddhista, se cercate una foto del Dalai Lama (in veste ufficiale) c’è quasi sempre una svastica vicina a lui. Nazismo e fascismo sono invece limitati a un periodo molto breve, poco più di vent’anni nella prima parte del Novecento.
E’ il caso di ricordare che la rinascita economica della Germania è dovuta in gran parte alla socialdemocrazia: Willy Brandt e Helmut Schmidt furono a lungo cancellieri, sempre nel segno del pugno chiuso e della falce e martello. E’ anche il caso di ricordare i regimi socialdemocratici scandinavi (sessant’anni di pace e di benessere), dei laburisti inglesi, e anche il lungo periodo di presidenza americana per Franklin Delano Roosevelt, che non salutava col pugno chiuso ma che fu definito “comunista” dai suoi detrattori (F.D.Roosevelt portò gli USA fuori dalla crisi del 1929 e pose le basi per una supremazia economica durata per tutto il Novecento). Ancora oggi, il Partito Socialista Europeo è ben presente nel Parlamento della UE. Insomma, limitare i simboli “comunisti” ai gulag e a Stalin è storicamente inesatto; limitare il saluto romano al periodo nazifascista è invece corretto.
Il saluto romano in sè, quello col braccio teso, ha origini dubbie. Innanzitutto perché dicendo “romano” si intende un arco di tempo lunghissimo, quasi un millennio; gli storici dicono che probabilmente i romani si salutavano mettendo una mano all’altezza del cuore (che è un bel modo di salutare, a me piace ma purtroppo non si usa più), ma anche qui bisognerebbe intendersi sul periodo (Giulio Cesare o Numa Pompilio? Costantino o Caligola?).
Una storia in proposito, e che circola da molto tempo, è che probabilmente il saluto romano come lo intendiamo oggi sia di origine cinematografica: uno dei primi Quo vadis, negli anni ’10, dove il regista fece fare questo saluto alle comparse perchè rendeva molto bene l’idea dell’omaggio al Capo. Non sono un esperto e non saprei dire di più; da quello che ho capito e che sono riuscito a leggere, pare che le fonti in proposito siano piuttosto scarse.
In conclusione, bisognerà pur dire che di per sè, senza contorno di slogan e senza sbattimento di tacchi, il semplice saluto con mano alzata e braccio teso è abbastanza banale; lo facevano anche gli indiani nei film western degli anni ’40 e ’50, lo abbiamo fatto tutti per salutare qualcuno che passa dall’altra parte della strada. Sempre nei film degli anni passati, era abbastanza facile vedere guerrieri (romani, indiani o del tempo di Riccardo Cuor di Leone) che si salutavano stringendosi reciprocamente il braccio, a metà strada fra il gomito e il polso: un saluto virile, si dirà; ma il vero significato per tutti questi gesti è un altro, dimostrare che non si hanno armi in mano.
nelle immagini, tre fotogrammi da “La marcia su Roma” di Dino Risi e il saluto a pugno chiuso di due atleti delle Olimpiadi del 1968: è un’immagine famosa, il pugno chiuso non indica il comunismo ma l’orgoglio di avere la pelle nera.

venerdì 21 settembre 2012

Gimbutas

Un mondo senza guerre: è mai esistito qualcosa di simile?
Se lo era chiesto l’archeologa Maria Gimbutas, stanca di trovare sempre nei suoi scavi quasi soltanto armi e corazze, imperiali e belle, sì, ma sempre quelle. Questa civiltà è esistita veramente: cercando meglio, sono stati trovati molti insediamenti, vere e proprie città, che non avevano traccia né di guerre né di combattimenti. Non c’erano fortificazioni; non c’erano fortezze; le uniche armi rinvenute erano quelle necessarie per la caccia, le uniche mura di cui c’era traccia erano recinti costruiti per evitare le incursioni di animali selvaggi. Dunque, un tempo senza guerre era veramente esistito.
Marija Gimbutas, nata in Lituania e poi diventata cittadina americana, è vissuta fra il 1921 e il 1994; suoi sono alcuni fra gli studi più importanti sulle civiltà preistoriche. Quando mi è capitato di parlare di Maria Gimbutas e delle sue osservazioni, ho incontrato spesso ironia e scetticismo; che aumentano quando si nominano i Kurgan, il nome che diede al popolo delle steppe che invase la pacifica Europa neolitica. Il nome dei Kurgan fa tanto “Star Trek”, bisogna convenirne; ma io ho imparato a conoscere la Gimbutas attraverso alcune conferenze trasmesse dalla tv svizzera negli anni ’90, e posso assicurare che il suo aspetto era tranquillo e rassicurante, l’aspetto e il modo di parlare di una persona seria e affidabile. E, del resto, basta ragionarci sopra un po’ per capire che aveva ragione: nei tempi di cui si parla, l’Europa era quasi disabitata, le vie di comunicazione erano inesistenti, e potevano passare molte generazioni prima che una tribù ne incontrasse un’altra diversa. Ci saranno stati sicuramente i reati comuni che vediamo ancora oggi, furti e omicidi, e magari anche dei tribunali; ma non le guerre, non ancora. La violenza, e la guerra, sarebbero arrivate da fuori: molto probabilmente, stando ai reperti rinvenuti dagli archeologi, una popolazione che arrivava dall’est. I Kurgan, per l’appunto. Maria Gimbutas collegava queste civiltà pacifiche al matriarcato, e al culto della Dea Madre del quale abbiamo numerose prove nelle civiltà europee. L’ipotesi è affascinante e ha molti appigli dal punto di vista scientifico, ma io qui mi fermo per non appesantire troppo questo post; mi accontento di aver posto la questione, perché è sempre bene parlare di queste cose. Un mondo senza guerre è possibile, e non solo nel matriarcato: in questa parte d'Europa viviamo in pace da più di sessant’anni, l’impegno è di continuare sulla strada iniziata dai nostri padri. Non sarà facile, ma l’unica strada giusta è questa: un mondo civile è un mondo senza guerre.
Ovidio, da Le Metamorfosi, libro I
...forse la giovane terra, da poco separata dall'alto etere, conservava in sé il seme del celeste parente: allora il figlio di Giapeto prese un po' di questa terra, la mescolò all'acqua piovana e la plasmò a immagine degli dei che tutto governano. Mentre gli altri animali guardano proni alla terra, l'uomo ebbe in dono un viso rivolto verso l'alto e il suo sguardo mira al cielo e si leva verso le stelle. Fu così che la terra, fino ad allora rozza e informe, fu volta ad assumere figure umane mai prima conosciute. Per prima fiorì l'età dell'oro che, senza alcun controllo e senza bisogno di leggi, spontaneamente, rispettava la fedeltà e la giustizia. Non esisteva la paura delle punizioni né si leggevano incise nel bronzo formule minacciose: la gente non era costretta a supplicare, nel timore del verdetto di un giudice, perché non aveva bisogno di chi garantisse la sua sicurezza. I pini non erano stati ancora recisi dai loro monti e trascinati sulle onde del mare per andare alla scoperta di terre straniere: gli uomini non conoscevano altri lidi oltre i propri. Le città non erano ancora cinte da scoscesi fossati; non esistevano trombe, né forgiate diritte nel bronzo, né ricurve a forma di corno; non c'erano elmi o spade: ignorando l'arte militare, la gente viveva senza preoccupazioni in un blando clima di pace. La terra poi, libera da costrizioni, non lavorata dal rastrello o ferita dall'aratro, produceva tutto spontaneamente; gli uomini, accontentandosi dei cibi che crescevano senza bisogno di coltura, raccoglievano i corbezzoli, le fra gole selvatiche, le corniole e le more tra le spine dei roveti, nonché le ghiande che cadevano dall'ampia chioma dell'albero di Giove. Regnava un'eterna primavera: i placidi Zefiri dal soffio tiepido accarezzavano i fiori sbocciati spontaneamente; e subito dopo la terra produceva anche le messi senza essere stata arata; i campi, senza bisogno di riposarsi, biondeggiavano di spighe colme; scorrevano fiumi di latte e di nettare; biondo miele stillava dal verde leccio. Quando Saturno fu confinato tra le tenebre del Tartaro e Giove assunse il comando del mondo, alla stirpe aurea subentrò quella argentea, di valore inferiore alla precedente ma superiore a quella dell'età del bronzo. Giove abbreviò il tempo dell'antica primavera e divise l'anno in quattro stagioni, cioè un inverno, un'estate, un instabile autunno e una fugace primavera. Allora per la prima volta l'aria, bruciata dall'ardore della canicola, diventò incandescente e per la prima volta apparvero stalattiti di ghiaccio modellate dai venti. Allora per la prima volta gli uomini andarono alla ricerca di un riparo: le loro case erano caverne e densi cespugli e capanne di verghe intrecciate. Allora si cominciò a tracciare i solchi e a nascondervi la semente del grano e i giovenchi gemettero oppressi dal peso del giogo. All'argentea successe la stirpe di bronzo, d'indole più feroce e più incline all'uso funesto delle armi, tuttavia non scellerata. L'ultima stirpe fu coniata nel duro ferro. E subito, nell'era di quel metallo deteriore, fece irruzione ogni tipo di empietà: mentre il pudore, la verità e la fede fuggivano, al loro posto subentrarono la frode, l'inganno, l'insidia, la violenza e la turpe avarizia. Il navigante si diede a sciogliere le vele ai venti senza ben conoscerli e le navi, fatte di alberi cresciuti sui monti, si lanciarono a sfidare i flutti ignoti; la terra, che prima era proprietà di tutti come il sole e l'aria, fu misurata e delimitata con lunghi solchi dall’uomo, divenuto sospettoso; ad essa non si chiese più soltanto di produrre a profusione le messi e gli alimenti consueti, ma la si penetrò fin nelle viscere per estrarne quelle ricchezze che in sè nascondeva nei luoghi più remoti, vicino all’ombra dello Stige – ricchezze che sono stimolo al male. Ormai erano venuti alla luce il ferro e l’oro, del ferro ancor più nocivo; e fece la sua comparsa la Guerra (...)
Ovidio, da Le Metamorfosi, libro I (pagine 51-53 ed. BUR Rizzoli, traduzione di Giovanna Faranda Villa)

PS: i libri di Maria Gimbutas pubblicati in Italia sono questi: I Baltici (ed. Il Saggiatore, 1967), Il linguaggio della Dea – Mito e culto della Dea Madre nell’Europa Neolitica (Longanesi, 1990) e Le dee viventi (Medusa 2005), dal quale ho tratto queste informazioni. La trasmissione tv di queste conferenze di Marija Gimbutas (sottotitolate) è probabilmente reperibile sul sito della Televisione Svizzera Italiana; ne metto qui sotto due fermo immagine. Nelle altre immagini, la famosa Dormiente di Malta (neolitica) e una spada rinvenuta a Neuchatel e risalente al 60 a.C.

lunedì 17 settembre 2012

Il toro in Galleria

Sul pavimento della Galleria, a Milano, c’è il disegno di un toro: un toro rampante, con le zampe davanti alzate. La Galleria, che collega Piazza Duomo a Piazza della Scala, è dedicata a Vittorio Emanuele II, che divenne re d’Italia ai tempi del Risorgimento e dell’unificazione del nostro Paese; di conseguenza, basta guardarsi un po’ in giro (anche alzando la testa, aiuta) per trovare segni e simboli di Casa Savoia, alla quale apparteneva il nostro primo re. Il toro, simbolo della città di Torino, fa parte di questi segni e simboli sabaudi.
Quando ho cominciato a frequentare la Galleria, a metà degli anni Settanta, mi hanno spiegato che c’era l’usanza di strofinare la suola delle scarpe su quel Toro, perchè si diceva che portava fortuna. Per la precisione, l’area su cui strofinare le suole è quella corrispondente ai genitali dell’animale: che in effetti era un po’ sbiadita, leggermente consumata. Di solito non ci passava sopra nessuno, ma chi conosceva l’usanza ed era un po’ superstizioso si fermava a sfiorare leggermente quella piastrella.
Le cose sono cambiate dagli anni ’90 in poi: non solo i milanesi, ma intere carovane di turisti, scolaresche in gita d’istruzione, giapponesi e americani, poi russi e cinesi, o magari fiorentini e romani, sono venuti a strofinare le suole sull’effigie di quel povero animale. Non solo strofinare, a dire il vero: calcare profondamente, insistere, fare piroette sul tacco, più volte, con accanto qualcuno che ti dice “ma no, non devi fare così, fallo bene”.
Il risultato, da una decina d’anni in qua, è che i genitali del Toro non esistono più: al loro posto c’è quasi costantemente un buco piuttosto profondo, come se ci fosse passato sopra un trapano con la punta fatta a tronco di cono (i dentisti ne hanno di questo tipo, però a misura di dente, piccoli). Chi ci passa spesso sa che non sto esagerando: è proprio un buco, largo e profondo.
Ogni tanto il Comune risistema quelle piastrelle, ma il buco si riforma presto.
Che dire? Io lo considero un simbolo, non più dei Savoia ma della stupidità di questi nostri tempi. Prima, per decenni, il toro in quel punto era solo un po’ sbiadito, lievemente consumato; da qualche anno in qua c’è invece, costantemente, un buco tipo trapano. Possibile che nessuno se ne renda conto? Possibile che chi si esibisce nelle sue evoluzioni tipo trottola non si renda conto che “le palle del toro” non ci sono più, e che sta solo scavando nel pavimento?
Possibile sì, certo che è possibile. Se passate in Galleria adesso, fateci caso: di sicuro qualcuno che sta facendo la giravolta c’è, a meno che il Comune non ci abbia messo una transenna, e se non c’è basta aspettare cinque minuti, et voilà.
Non è che ne sia arrivata una gran fortuna, da tutto questo tormentare il toro; anzi, l’economia va sempre peggio, anche in Giappone e in America hanno avuto i loro problemi, secondo me l’attuale crisi passa anche da queste cose qui. Quando passerà l’ondata di stupidità collettiva, nata negli anni ’80 e mai finita, forse anche Milano riprenderà il suo posto fra le capitali culturali ed economiche d’Europa, e forse – chissà - riprenderà perfino ad essere un posto vivibile.
PS: per i milanesi antichi, quel movimento rotatorio sul proprio asse, teso ad imitare una trottola, è indicato con una parola precisa: “pirlare”.
(due delle immagini vengono da www.wikipedia.it  , la terza è un’immagine da una rivista di moda, datata 1953, che ho preso tempo fa in rete – purtroppo non mi ricordo da dove viene di preciso, l’ho messa qui per dare almeno un tocco di eleganza a questo post)

venerdì 14 settembre 2012

Pubblicità 28

«Io e il mio gatto siamo uguali» dice il ragazzo della pubblicità. Alla sesta o settima volta che vedo lo spot, cioè dopo due giorni (passa tantissimo, sempre in orario di punta; chissà quanto hanno speso) il pensiero mi sorge spontaneo: «Poveretto, anche lui castrato? Così giovane, che tristezza.»
Lasciando perdere il cibo per gatti (chissà cosa ci mettono dentro, meglio non pensarci), è comunque impressionante la quantità di stupidaggini che passano ogni giorno in tv e su internet. E non vale dire “cambia canale” perché non esistono canali senza pubblicità, prima o poi lo spot stupido devi vederlo, è ormai obbligatorio e li trasmettono a raffica anche in stazione e nelle sale d’aspetto, ovunque.
E non vale nemmeno dire “io non li guardo, io non compero i prodotti di cui fanno pubblicità”: è un atteggiamento lodevole che appoggio in pieno, ma se poi facciamo la conta si scopre che siamo in pochissimi a pensarla così. Per esempio, la pubblicità sugli schermi nelle stazioni: io non ci resisto, alla terza volta che parte il jingle della compagnia telefonica (o quello degli gnomi da giardino, “puzza puzza puzza”, eccetera) mi meraviglio sempre che nessuno protesti, e invece.
Ogni tanto qualcuno si alza e protesta, ma se è una persona che appare in tv o che scrive sui giornali si vede che lo fa per finta, senza crederci davvero. Per esempio, ho beccato una volta Alessandra Mussolini che protestava contro gli spot di assorbenti e carta igienica trasmessi regolarmente all’ora di pranzo (compresi quelli sul prurito nelle parti intime), e mi era venuta una gran voglia di dirle che lei è da molti anni in Parlamento dalla stessa parte del signore che ha imposto la pubblicità su ogni rete e ad ogni momento (cioè Silvio Berlusconi), ma poi si sa che non serve a niente, ci tocca accettare tutto.
Ci tocca accettare anche il cretino che dà nomi mitologici al caldo estivo (Caronte è nel regno delle ombre, dove c’è lui fa freddo), le cretinette che passano il tempo ad accarezzare i materassi (ma chi è che ha mai accarezzato un materasso? i materassi si sbattono...), i messaggi criminali del tipo “mangia quello che vuoi e poi prendi una pastiglia” (alla faccia delle campagne contro anoressia e bulimia!), perfino la pubblicità della chirurgia estetica alle adolescenti (vista, e più volte, su reti importanti), eccetera eccetera eccetera.
Una delle più fastidiose è quella che appare su una delle tv mediaset del digitale terrestre: «Iris, la tv a tutto cinema». Peccato che su quella rete il cinema venga maltrattato e spezzettato: i film più importanti vengono mandati in onda a orari impossibili, o tenuti in magazzino; nei film che vengono trasmessi la scure della pubblicità cade come una ghigliottina a intervalli regolari, tagliando dialoghi a metà, imbottendo di cretinate anche i momenti più drammatici o divertenti.

Che dire, per oggi mi fermo qui. Tutta la mia solidarietà al giovane signore elegante così tristemente simile al suo gatto, e una citazione da un film non memorabile ma interessante:
«Se dovessi morire, non lasciare che io venga sepolto fra tutti questi cartelloni pubblicitari» (dal film “Le tre sepolture”, regia di Tommy Lee Jones, ambientato sul confine tra Usa e Messico).
(i gatti nelle immagini di questo blog sono rigorosamente non castrati; il gatto Felix è opera di Mr.Sullivan, nella foto qui sopra)

mercoledì 12 settembre 2012

Renoir, Rembrandt, Klee

Di Paul Klee ho già parlato qui , uno dei primi post che ho pubblicato su internet. Ogni volta che trovo qualcosa di suo mi fermo a guardarlo; per nostra fortuna Klee ha fatto un’infinità di disegni, quadri, scarabocchi (che meraviglia gli scarabocchi di Klee!), quindi non si finisce mai di scoprire qualcosa di nuovo.
Però poi mi sono accorto che di Klee so poco o niente, quindi sono stato molto contento di aver trovato questo suo breve ritratto fatto da un grande del cinema, Jean Renoir. (per i distratti: Jean Renoir era figlio di Pierre Auguste Renoir; nel 1914 il ventenne Jean Renoir combatteva nella Grande Guerra, contro i tedeschi).
Jean Renoir, da “La mia vita e i miei film”:
Sono un uomo del 1914 e come molti altri miei contemporanei, ex combattenti, sono attratto dal mondo tedesco. Devo molto ai tedeschi. A loro devo Carl Koch, senza il quale La Grande Illusion non sarebbe mai stata quello che è. Per me la Germania è il carnevale delle città renane: severi borghesi che si abbandonano alla più barbarica dissolutezza perché è carnevale, un clichè. Ma la Germania è anche il trittico di Grünewald a Colmar, in contrasto con le fantasie demoniache di Nietzsche, e questo invece è l'anti-cliché. La Germania per me era ed è ancora un'appassionante enigma. La sua facciata mi faceva indovinare una vita intensa e segreta.
Approfittai di un soggiorno a Berlino per fare la conoscenza di Alfred Flechtheim, il commerciante di quadri, artista e scrittore la cui personalità mi incuriosiva. Suonai alla porta della sua galleria e mi presentai ad un giovane dall'andatura curiosamente effeminata, in divisa da autista, che sembrava addetto all'apertura della porta. Mi fece ripetere il mio nome diverse volte, poi, esaminandomi con occhio sospettoso mi chiese di attendere. Scomparve sul fondo oscuro della galleria. Seppi più tardi che mi aveva annunciato in questi termini: «C'è uno alla porta che pretende di essere Renoir. La prossima volta ci sarà Rembrandt!».
Dopo aver superato la prova dell'equivoco cerbero, mi ritrovai davanti al padrone di casa (...). Stava conversando con un visitatore di cui mi colpì il contegno più che corretto. Era il pittore Paul Klee. Quell'unico incontro sarebbe bastato a giustificare il mio viaggio a Berlino. Lasciai Pierre Braunberger alle sue cene coi distributori cinematografici e con i miei due nuovi amici, Flechtheim e Klee, mi lanciai alla scoperta di una Berlino inaspettata. (...)
Quella serata mi persuase di qualcosa che sapevo già: la sconfitta aveva completamente destabilizzato quel popolo. E’ pericoloso l'orgoglio ferito! Una cosa certa è che i berlinesi dissimulavano il loro rancore sotto una maschera di assoluta indifferenza. Lo spirito berlinese di allora, sotto una verve sarcastica, mascherava accuratamente la sua immensa disperazione. Quella Berlino era un terreno fertile in cui poteva fiorire quanto c'è di meglio e quanto c'è di peggio.
Il meglio era una pittura come quella di Paul Klee, un teatro come quello di Bertolt Brecht, film come Caligari, La Rue sans joie o Nosferatu. Il peggio era la prostituzione femminile e maschile che arrivava a comprendere anche i rappresentanti della severa borghesia prussiana.
La sconfitta aveva corrotto la Germania, ma non di più di quanto avesse fatto in Francia la cosiddetta vittoria. Mi rendo conto adesso che, vittoria o no, le nazioni non possono sfuggire alla decadenza generata dalla guerra. Le guerre distruggono in pochi mesi ciò che una cultura lentamente assorbita ha costruito nel corso di secoli. «Non uccidere» è un comandamento in via di principio rispettato da tutti. Basta che scoppi una guerra e dall'oggi al domani diventa raccomandabile uccidere il prossimo col pretesto che appartiene a un gruppo umano diverso dal nostro. Questo inquietante spostamento dei valori morali investe soprattutto i giovani. L'età della cattiva condotta si abbassa pericolosamente. Ancora qualche guerra e saranno corrotti fin dalla culla. (...)
(Jean Renoir, La mia vita e i miei film, ed. Marsilio, pagg.82-83)
(le immagini provengono da vecchie riviste degli anni '80 e '90, probabilmente L'Espresso o qualche numero del Panorama pre-berlusconiano, prima della condanna per corruzione di Previti)

martedì 11 settembre 2012

Bullona

Sul treno da Como a Milano, l’inverno scorso, una donna chiede a due studenti universitari se la prossima è la fermata giusta; spiega che non ne è sicura perché non prende questa linea da molti anni, e adesso le stazioni sono diverse. I due confermano, gentilissimi, è la fermata giusta; ma poi, quando la donna è scesa, si consultano perplessi: le stazioni cambiate? Ma che significa? Mica si cambiano, le stazioni e le fermate dei treni...
Io ho ascoltato tutto senza volerlo, perché ero lì vicino: glielo spiegherei volentieri ma poi lascio perdere, non è questo il tempo delle spiegazioni e degli intermezzi culturali, sono sicuro che la mia spiegazione sarebbe accolta con fastidio.
La realtà è che sono passati meno di dieci anni da quando c’era la Bullona: Milano Nord Bullona, si chiamava così. Sulla tratta da Saronno a Milano, dove fa capo anche il treno per l’aeroporto della Malpensa, le ultime tre fermate erano Bovisa-Bullona-Milano, dove per Milano si intende Milano Cadorna, il terminale (o il punto di partenza, dipende da cosa state facendo voi in quel momento). E’ stato così per quasi cent’anni, la fermata odierna di Domodossola-Fiera (piazza Domodossola) ha preso il posto della Bullona solo dal 2003: meno di nove anni, ma per quei due ragazzi significa che loro facevano ancora le medie, forse le elementari. Si vede che nessuno glielo ha spiegato, e del resto l’assoluta indifferenza per il passato, anche quello recente e recentissimo, è ormai il vero tratto distintivo di questo inizio di millennio.
La stazione della Bullona, zona nord di Milano, era in via Piero della Francesca; via Bullona è lì vicino, probabilmente era il nome di una cascina poi scomparsa a causa della speculazione edilizia (anche la Malpensa prende il nome da una cascina). Fu inaugurata nel 1929, è stata chiusa il 15 maggio 2003. Aveva un aspetto un po’ strano, più simile alle odierne stazioni della metropolitana che a una stazione ferroviaria vera e propria: la stazione era infatti sopra ai binari, e si accedeva ai treni scendendo da due scalinate situate sui lati; guardando bene le fotografie qui sotto (prese da www.wikipedia.it e da ritagli di giornale ormai antichi) penso che si riesca a capire bene, o comunque meglio che dalla mia spiegazione.
La stazione fu eliminata per via dei lavori di allargamento della sede ferroviaria: qui c’era una strettoia, con solo due binari. Dato che si tratta proprio della via d’accesso e d’uscita dei treni dal terminale di Milano Cadorna, era un vero e proprio collo di bottiglia. I nuovi binari sono stati ricavati dalle banchine, qui corrono delle strade e altro spazio non c’era; di conseguenza la nuova stazione è stata costruita a piazza Domodossola, a poche centinaia di metri di distanza.
Non era una stazione particolarmente bella, e io non ho ricordi particolari legati alla Bullona: da qui sono passato poche volte, quasi sempre per caso. Però il pensiero della Bullona mi è arrivato per altre vie, legate non al ricordo ma a tutta una serie di considerazioni che provo a sintetizzare qui sotto.
Si tratta della Milano scomparsa, scomparsa come la Bullona. Non è nostalgia, non si può avere nostalgia di una stazione scomoda come la Bullona; magari un po’ d’affetto, qualche ricordo, ma la Bullona come stazione era ormai improponibile, e il quadruplicamento dei binari è stata una cosa utile e importante. La sensazione di cui parlo è invece molto vicina all’angoscia, sempre più angoscia ogni volta che vengo a Milano. La Milano che ho conosciuto io era una delle capitali d’Europa, magari discutibile per molti punti di vista, ma comunque una città importante, aperta, vivibile.
Di bello nel 2012 ci sono i locali notturni, la “movida”, ma queste cose ci sono sempre state, c’erano anche cent’anni fa; i nostri vecchi andavano al tabarin, la generazione che oggi ha dai sessanta ai settant’anni andava al cabaret, eccetera. Quello che non c’è più è la Milano accogliente raccontata da Dario Fo (provate a chiedere quanto costa oggi una stanza in affitto, e non solo a Brera), non c’è più Strehler, Claudio Abbado vive stabilmente tra Berlino e Ferrara, i negozi medio-piccoli sono tutti scomparsi, hanno chiuso cinema e teatri, e l’elenco potrebbe continuare. Luca Ronconi, che ha preso il posto di Strehler, ha ottant’anni. Dietro c’è il vuoto; magari brave persone e ottimi artisti, ma nulla di paragonabile. Una delle ragioni del cambiamento, forse la più importante, è questa: i nuovi mezzi di comunicazione si usano da soli, una persona alla volta. Il cinema e il teatro invece si fanno in tanti, erano mezzi per comunicare.
Una battuta che mi viene sempre più spontanea è questa: che le donne non vanno più in giro col rosario, come le nostre nonne, ma con l’ipad e con le cuffie nelle orecchie. Forse, una nuova forma di religione: o almeno così potrebbe sembrare a un osservatore esterno.
Tornando ai treni, e alle stazioni, il nuovo che avanza, la modernità, ha le sembianze di un’obliteratrice. Che sia elettronica o col timbro vecchio stile, la timbratura del cartellino è ormai un obbligo, e a me questo non piace, è un gran brutto segnale. Ogni volta che vengo a Milano (ci vengo sempre meno, e sempre meno volentieri) devo inchinarmi, fare le Forche Caudine, inchinarmi al vostro mondo di burocrati implacabili, fatto di plastica magnetizzata, di smart card e di tessere e di tesserine. Parlandone in giro ho scoperto che le tesserine piacciono, tutti pensano di essere entrati a far parte di un club esclusivo; e invece li schedano e li spiano a ripetizione, ma nemmeno se ne accorgono. Non è nostalgia, quindi: la stazione di piazza Domodossola è molto più bella di quella della Bullona, ma qui siamo di fronte a qualcosa di epocale, il 2000 è stato l’inizio di un mondo grigio burocratico, orwelliano. Tra muri, tornelli, telecamere, obliteratrici, viene da dire: questa non è la nuova Milano, siamo a Berlino ai tempi della DDR.
PS: molti di questi muri e tornelli hanno meno di due anni, sono opera della giunta Pisapia.

domenica 9 settembre 2012

L’asciugamano di Robinia

Quella sull’asciugamano di Robinia è una battuta che tutti hanno ascoltato almeno una volta, qui a Milano e dintorni: una di quelle frasi impossibili da tradurre, o quantomeno che lo sono diventate, col tempo. Una cosa del genere, molto italianizzata per farsi capire da tutti (beh, quasi): “per quello lì...ci vorrebbe el sugamàn de robinia”. Purtroppo il dialetto non lo parla più nessuno, la vita quotidiana è ormai tutta fatta di oggetti di plastica, e di conseguenza oggi dovrò mettere giù un bel po’ di spiegazioni.
Si capisce al volo che il significato non va preso alla lettera: la robinia è una pianta d’alto fusto, quasi un albero. Come molte altre piante più o meno simili (il salice e il ligustro, per esempio) la robinia produce rami giovani che sono molto lunghi e flessibili: rami che una volta venivano usati per fare cesti, gerle, perfino bauli. Un ramo giovane di robinia, o di salice, può servire anche come sferza, o magari come bastone (dipende dal diametro e da quanto è flessibile): l’asciugamano di robinia è dunque una bastonatura, una sferzata. “Per quello lì ci vuole l’asciugamano di robinia” è dunque un’espressione rivolta a qualche giovane un po’ troppo – come dire – vivace. Per fortuna, lo si dice quasi sempre scherzando.
La cosa curiosa è che con la robinia si può davvero ottenere una fibra tessile, non molto diversa dalla canapa o dalla iuta; lasciando a macero i rami si ottengono delle fibre molto lunghe e molto flessibili, che possono essere filate e poi tessute. Il tessuto così ottenuto non è ovviamente paragonabile per morbidezza alla seta e al cotone, e quindi ecco un altro significato dell’espressione “sugamàn de robinia”, che era sicuramente noto ai nostri antenati.
Nei secoli più lontani da noi, fibre e tessuti erano molto difficili da ottenere e richiedevano molto lavoro, quasi sempre lavoro duro. E’ solo con la rivoluzione industriale, con l’introduzione di telai e orditoi meccanici, che i tessuti e i filati cominciano a diventare un po’ più facili da ottenere; oggi poi è diventato tutto facilissimo e a basso costo, e da una parte c’è da esserne contenti, dall’altra parte però (c’è sempre un altro lato della medaglia, mai dimenticarsene) con l’invenzione delle fibre sintetiche gran parte dell’industria tessile, soprattutto l’industria della lana, è andata in crisi; e si rischia di perdere l’arte e la conoscenza che vi sono connesse.
Invece fino a tutto il ‘700 si faceva di necessità virtù, e si filava tutto il filabile. Pochi sanno, per esempio, che non solo la robinia ma anche l’ortica può essere filata: le piante di ortica possono arrivare ad altezze anche superiori ai due metri, e il loro fusto contiene fibre lunghe e flessibili. Dopo macerazione e battitura, come per la canapa e la robinia, si ottengono le fibre. Ma ormai anche la canapa è diventata una rarità, e stavolta per una ragione curiosa: la pianta della canapa e quella dell’hashish (cannabis sativa e cannabis indica) sono molto simili. Per evitare dubbi, furono entrambe proibite; dato che nel frattempo sono state inventate le fibre sintetiche, il fabbisogno di canapa per l’industria è ormai quasi inesistente.
Da bambino avevo letto la fiaba dei fratelli Grimm, quella dei fratelli trasformati in cigni, dove si parla di camicie da tessere con l’ortica: pensavo che fosse un’invenzione poetica, e invece c’era probabilmente dietro questa verità storica. Una camicia fatta con l’ortica richiedeva sicuramente molto tempo e molta fatica, la ragazza deve cucirne addirittura sette per poter liberare i suoi fratelli: ecco dunque l’impervia prova da superare, che andrà comunque a buon fine.
Si filava tutto il filabile, dunque; e probabilmente qualcuno avrà fatto un pensiero anche sui fili dei cornetti, ma la fibra è troppo corta e comunque bisogna sicuramente essere un bel po’ disperati per pensare veramente a un tessuto fatto coi fili dei cornetti. Vorrei far notare: ho detto “cornetti” e non “fagiolini”. Qui in Lombardia dicono tutti “cornetti”, è quasi impossibile cambiare; per noi “fagiolino” è soltanto un fagiolo più piccolo degli altri, al massimo – e solo in Emilia – si può arrivare fino a Fasolein e Sandròn, ma è tutt’altra cosa. (Fagiolino, Sandrone, e la Polonia – che non è la nazione omonima, ma una contrazione del nome di Santa Apollonia, festa il 9 febbraio )
La robinia non è una pianta delle nostre parti: è americana, si chiama “robinia pseudoacacia” e prende il nome dal botanico francese Jean Robin, che iniziò a coltivarla nel 1601. Dato che è una pianta infestante e si riproduce molto velocemente, ha presto invaso tutta l’Europa, cambiando totalmente l’aspetto di molti dei nostri boschi. Qui c’erano i boschi di castagni, ma sono passati secoli e nessuno può ricordarselo: la robinia ha trionfato, ma ormai ha i giorni contati e verrà sicuramente sconfitta – non da altre piante, ma dalle autostrade e dal cemento della speculazione edilizia. La pianta originale, secondo quanto ne dice wikipedia, proviene dalla regione americana dei monti Appalachi.
Tornando all’asciugamano di robinia, ne ho trovato una variante divertente in un film di Ermanno Olmi (“La cotta”, o forse "Piccoli discorsi", girati nel 1965): il padre del ragazzo si lamenta perché lo trova svogliato, e dice che per lui ci vorrebbe “el sugamàn de robina”. Robina, e non robinia: robina, cioè roba fine, sicuramente un altro doppio senso più che una pronuncia dialettale diversa. Si dice “robina”, si intende tutt’altro.
Un ricordo di mia mamma è questo: suo cugino stava facendo dei piccoli dispetti alla prozia, seduta a recitare il rosario sotto il fienile. Poi aveva pensato di andarsene via senza farsi vedere, ma non aveva tenuto conto che la prozia, proprio per il suo fatto di essere prozia, non era mica nata ieri: aveva a portata di mano un lungo ramo flessibile di robinia, o forse di salice, e l’aveva usato centrando il bersaglio, ovviamente le gambe del ragazzo. Ne era uscita una sequenza che è divertente sentir raccontare, nella quale l’anziana donna si lamentava dell’essersi presa un accidenti dal ragazzo, cosa che peraltro poi si sistemò senza problemi. In casa di mia mamma si volevano tutti bene, erano altri tempi, e da questo punto di vista sicuramente molto più civili di quelli che stiamo vivendo.
(le immagini di Fagiolino e Sandrone vengono da “Novecento” di Bernardo Bertolucci; le foto della robinia vengono da wikipedia)

mercoledì 5 settembre 2012

Caronte, Poppea, Nerone e Cacciaguida

Un concorso per i dottori della Guardia Medica, indetto dalla Regione Lombardia: ne servono 500, i candidati sono una novantina. Ecco dunque spuntare commenti sprezzanti, sorrisini, battute ironiche più o meno pesanti, e via tutto un fiorire di luoghi comuni, ripetuti da tutti i tg e tutti i mezzi d’informazione, sempre nello stesso modo e sempre senza fare il minimo filtro sulla notizia.
Dato che conosco un paio di medici giovani che fanno i turni alla Guardia Medica (basta poco, basta chiedere, informarsi), posso spiegare io cosa succede: non solo la paga è scarsa, ma quando ti chiamano poi devi usare la tua macchina per spostarti, e soprattutto devi spostarti da solo. Il che potrebbe andar bene per me, che sono un uomo grande e grosso; ma se siete una dottoressa giovane e carina, magari di fisico minuto, capirete che la cosa comincia assumere tutta un’altra prospettiva. Questo è solo il primo dei molti e giustificati motivi per cui molti giovani medici (soprattutto le donne) non si presentano ai bandi per la Guardia Medica: se c’è qualcuno che ci vuol fare sopra lo spiritoso, provi a metterci le sue figlie e fidanzate, in queste condizioni.
Della leggenda sui lavoratori introvabili ho già parlato qui, è uno dei miei post più letti e non mi va di ripetermi; passo quindi a un altro luogo comune, un vero tormentone estivo, che viene ripetuto a pappagallo da tutti i tg, sempre senza collegare il cervello.
Il caldo estivo c’è sempre stato, adesso è arrivato uno che si è messo a dare un nome ai periodi di caldo e di fresco. Si fa in America (ed è già discutibile) ma coi tifoni e gli uragani, non con l’afa e il caldo secco. Va bene che siamo in tempo di cambiamento climatico, ma per fortuna d’estate fa caldo e d’inverno fa freddo, almeno questo non è ancora cambiato. Perché mai dare un nome a cose che ci dimenticheremo tra due giorni?
Caronte è stato il primo, poi è venuto Lucifero, poi Nerone, Poppea, Beatrice, tutta una serie di assurdità e scemenze che sono state prontamente ripetute da tutti i tg. E devo dire che mi fa una certa impressione vedere che perfino Bianca Berlinguer ci si adegua, spara tranquilla i suoi “è arrivata Poppea”. Caronte a me dà l’idea del freddo, da sempre: un freddo da brividi su per la schiena, è il traghettatore delle anime nell’aldilà. Le anime, le ombre, il freddo: non siamo ancora nell’inferno, è il primo personaggio incontrato da Dante nel suo percorso. Voi associate le ombre della morte al caldo opprimente? Mi sembra strano, e soprattutto mi sembra strano che tocchi a un perito chimico come me andare a spiegare ai diplomati del liceo classico il significato dei nomi storici e mitologici. Poppea è una giovane donna molto bella, per lei Nerone abbandonò sua moglie: vi fa venire l’idea del venticello e della fresca brezza? Mah, non direi proprio. Caso mai, il contrario... Il discorso si potrebbe ripetere per tutti i personaggi tirati in ballo quest’estate, continuando a saccheggiare la Divina Commedia mi viene da chiedere come si chiamerà il prossimo caldo o freddo: magari Ciacco, Cacciaguida, Malacoda, Calcabrina, Conte Ugolino, Paolo e Francesca? E perché non Gianni Schicchi, o magari Virgilio in persona?
Tutta questa fesseria ha un responsabile, il titolare di un sito internet sulla meteorologia che si sta facendo pubblicità. Ovviamente, non ne metto qui l’indirizzo: visto che siamo in tema di scherzi, mi diverto anch’io col suo nome e da comasco-milanese ci trovo qualcosa di divertente che vi propongo: uno che non sa niente. Sa no, sa minga, sanagòtt: bei nomi per un temporale, o per una grandinata. Una grandinata non sa dove va a colpire, colpisce e basta: sa no dove la va, la va giò e basta.
E adesso, avanti il prossimo. Ormai si va avanti così, a colpi di scemenze e luoghi comuni: anche per questo siamo un Paese in piena crisi. Di idee, e non solo di soldi.
(nelle immagini, il Caronte settecentesco di John Flaxman, e madame Caron (Leslie Caron) che balla con Gene Kelly)
AGGIORNAMENTO al 16 ottobre 2012: l'alluvione di scemenza continua, adesso una perturbazione d'aria fredda l'han chiamata col nome di una regina egiziana (aria fredda in Egitto? mah...). Oltretutto, Cleopatra è famosa per i suoi amori, non penso che fossero amori freddi (quella è Turandot, caso mai).
AGGIORNAMENTO al 31 ottobre 2012: la maledizione colpisce ancora, stavolta la vittima è Cassandra: l'indovina che predisse la fine dei troiani. A quale evento meteorologico la volete associare? Ci sto pensando da dieci minuti, boh...
AGGIORNAMENTO al 29 novembre 2012: è il turno di Medusa, rimarremo tutti pietrificati all'uscita di casa, o anche solo affacciandoci alla finestra? Un'ipotesi che non mi dispiace, così la faremmo finalmente finita con queste scemenze. Comunque sia, Ovidio nelle Metamorfosi ricorda che Medusa era una ragazza molto bella che fu ridotta così dagli dèi, per invidia: metafora perfetta della Meteorologia in mano a chi sparacchia nomi e titoli senza senso. (o forse si intende la medusa, animale marino? nel qual caso sì, mi va bene: la medusa provoca irritazione...)
AGGIORNAMENTO al 3 dicembre 2012: arriva Attila, dice il Tg. Attila, dove passa lui non cresce l'erba...sì, ma siamo a dicembre, l'erba non cresce mica, d'inverno. Suggerimenti per il futuro: magari Tifone, gigante figlio di Gea e di Tartaro, che lottò contro Zeus. O magari Timone, Timone d'Atene, un dramma di Shakespeare...Anzi, no, ho trovato: Biancaneve. Bello, neh? magari per Natale, ovviamente coi sette nani.

domenica 2 settembre 2012

Un Paese senza memoria - Addio al passato

Nel 2011 e 2012, veder crollare alcuni muri di Pompei è stato molto più di un evento di cronaca: un archetipo, un simbolo, un presagio. In questo inizio di millennio, tra un taglio di finanziamento e l’altro, abbiamo visto chiudere o crollare molte di quelle cose che rappresentano, e forse sono davvero, l’anima di questo nostro Paese. Per gli stranieri, Pompei è l’Italia.
Archivi importanti, biblioteche antiche, teatri storici, perfino chiese e conventi, sono stati venduti o abbandonati a se stessi, senza più finanziamenti, ed è un altro simbolo del tempo che stiamo vivendo; curiosamente, tutto questo è successo mentre erano al governo partiti politici che si riempivano la bocca con parole come “tradizione”, “radici cristiane”.
In compenso, nel giro di un anno o due sono state erette ovunque, alte come minareti, le antenne dei telefonini: nessuno si è curato se fossero davvero sicure, lo si è fatto e basta. Nello stesso modo sono state fatte strade e superstrade, la linea TAV, grattacieli sede di Regione, e sono cose sorte come d’incanto, con la velocità riservata solo alle cose che veramente interessano.

Tutto questo è molto più di un semplice evento di cronaca, siamo di fronte a un cambiamento epocale. Il passato non interessa più, non conta più, non deve contare. Non è stato così nemmeno nell’epoca della contestazione, nel famoso ’68: allora il passato era ben presente, lo si contestava ma lo si conosceva, perfino i gruppi rock inglesi e americani erano ben dentro alle loro tradizioni, al blues, al folk, alle ballate popolari e alla musica dell’Ottocento e del Settecento.
Oggi, il passato è roba da sfigati. Bisogna vergognarsi di nonni e genitori, la modernità è l’ebook, il libro di carta è uno spreco e un orrore. Non credo a quello che si dice, che il libro di carta e quello elettronico siano destinati a convivere: semplicemente no, gli archivi scompariranno e con essi la nostra memoria, perché nessuno più vorrà far fatica a leggere un testo (figuriamoci poi se è scritto a mano, in calligrafie antiche...). Un esempio pratico? Qui nel Comune dove abito, a maggio 2012, con la nuova IMU, il catasto si è rivelato ricco di sorprese: dove ci sono case costruite da sessant’anni il catasto indica prati e campi coltivati, il mio orto è catalogato come proprietà di un ente scomparso da vent’anni, e tanto altro ancora. Siamo nell’epoca di google map e dei navigatori satellitari, queste differenze tra la realtà e il catasto sono inammissibili. Cosa può essere successo? La spiegazione, che nessuno vi darà mai, è probabilmente questa: gli archivi cartacei del catasto sono stati messi in qualche magazzino o cantina, nessuno li ha scannerizzati. Il catasto registra solo le operazioni fatte da quando esiste l’archivio informatico, cioè quelle più recenti. Scannerizzare e digitalizzare un archivio è un’operazione lunga e costosa, nessuno lo farà più. Se avete i documenti con le planimetrie della vostra casa e la certificazione che è vostra, conservateli con cura: non si sa mai cosa può succedere, come minimo vi arriva una multa. La stessa cosa succederà con gli archivi storici, con le pergamene, i documenti delle parrocchie: messi in uno scatolone e mai più consultati, finiranno in polvere e muffa.

Qualcuno mi dirà che non è così, e per noi è sicuramente vero: ma se ci contiamo si vedrà che siamo in minoranza, e sempre più vecchi. Magari siamo tanti, ma cosa volete che sia un milione di persone per gente cresciuta nel mito dell’audience e delle vendite? E se poi si va a vedere, magari siamo centomila, novantamila, altro che un milione. Insomma, ci stiamo prendendo in giro. La memoria delle generazioni future arriverà sì e no al 1999, il passato può davvero essere manipolato, e – a differenza di quanto racconta Orwell in “1984” – non serve nemmeno più stampare nuove edizioni e distruggere quelle vecchie. D’ora in avanti, per far scomparire il passato basterà un clic: anzi no, neppure quello, anche il clic appartiene al passato, basta un soffio, con un dito che sfiora, il passato è scomparso.
L'uomo è sempre vissuto nel mito, ma noi crediamo di poter nascere nell'oggi, e vivere senza mito, senza storia. E' una malattia, un'aberrazione, perché l'uomo non nasce dal nulla ogni mattina. Nasce una volta sola, in uno specifico momento storico, con specifiche qualità storiche, e di conseguenza è completo soltanto se ha una relazione con queste cose. Crescere senza legami con il passato è come nascere senza occhi e senza orecchie. E’ vero che dal punto di vista delle scienze naturali noi non abbiamo bisogno del legame con il passato e possiamo cancellarlo, ma questa è una mutilazione dell'essere umano.
(Carl Gustav Jung, pag.432 del volume “Jung parla – interviste e incontri con Jung”, ed. Adelphi)

AGGIORNAMENTO AL 19 settembre 2012: mi fanno notare che il catasto non funziona in automatico, che siamo noi a dover portare i documenti, a dover fare "la voltura". Mi sono preso anche dell'ignorante: ma siamo nell'epoca dei "controlli incrociati", a cosa serve un catasto fatto così? Possibile che i controlli incrociati servano solo per la spesa quotidiana e per il pagamento delle pensioni? Siamo dalle parti dell'ente inutile, direi.
Continuo a pensare che i documenti mancanti siano custoditi in qualche archivio, sepolti fra le scartoffie, come l'Arca dell'Alleanza al termine del film di Spielberg (il primo Indiana Jones, intendo: chi lo ha visto fino alla fine capirà cosa intendo).