martedì 31 maggio 2011

Chrysopidae

Un altro insettino molto bello, e molto comune, è il crisòpide. Del tutto innocuo per noi (non è una zanzara!) è invece un nostro grande alleato: come altri animaletti graziosi, come la libellula e la coccinella, è infatti un vorace predatore, sia da larva che da adulto. Insomma, il crisòpide si mangia gli afidi, i pidocchi delle piante: quando vedete uno di questi insettini delicati in casa vostra, prendetelo con delicatezza e rimandatelo all’aperto, da dove è venuto.
Crisòpide, dal greco, significa più o meno “insetto d’oro”: il perché di questo nome non l’ho mai capito. E’ qui sul mio dito, è un insettino quieto e quindi lo giro e lo rigiro e lo osservo meglio che posso, lo trovo verde e trasparente, magari dietro quel nome c’è una qualche storia, vuol dire che mi informerò.
da http://www.wikipedia.it/ :
I Crisòpidi o Crisòpe (Chrysopidae SCHNEIDER, 1851) sono una famiglia di Insetti dell'ordine dei Neurotteri, comprendente specie predatrici, alcune di grande interesse nel campo della lotta biologica. Sono gli insetti più rappresentativi, per l'importanza e per la morfologia, dei Neurotteri propriamente detti.
L'adulto dei Crisopidi ha un corpo esile e delicato, di medie dimensioni, con livrea di tonalità variabile dal giallo al verde, facilmente riconoscibile. Il capo è ipognato, con antenne lunghe e filiformi, apparato boccale masticatore tipo, occhi piccoli ma prominenti e vistosi, spesso con riflessi metallici. Le ali sono ben sviluppate, trasparenti, con riflessi idirescenti, ripiegate a tetto in fase di riposo, percorse da una venulazione fittamente ramificata anche presso il margine.
Le larve sono terrestri, campodeiformi, provviste di zampe cursorie, con il corpo generalmente depresso in senso dorso ventrale e più o meno slargato posteriormente, nella regione addominale. Come in tutti i Planipennia hanno l'apertura boccale chiusa e si nutrono per mezzo di un apparato boccale pungente-succhiante conformato a forcipe. Questa funzionalità è dovuta al fatto che, in entrambi i lati la mandibola, e la lacinia mascellare sono allungate e ricurve verso il lato ventrale e conformate in modo che appressandosi delimitano un canale di suzione attraverso il quale viene aspirato l'alimento. L'apparato boccale a forcipe è sfruttato per bloccare la preda e contemporaneamente iniettarvi la saliva e aspirarne i liquidi interni.
Il dorso è spesso percorso da rilievi dell'esoscheletro più o meno sviluppati e in alcune specie la larva si mimetizza rivestendosi con frammenti delle spoglie delle loro vittime. Le pupe si sviluppano entro un bozzolo di seta secreto dai tubi malpighiani delle larve. A maturità abbandonano il bozzolo, prima della muta.
Gli adulti dei Crisopidi hanno regimi dietetici differenti secondo la specie. In generale possono essere distinti in tre gruppi: in alcune specie sono predatrici, con regime dietetico entomofago, altre sono fitofaghe (ma di nessuna importanza in fatto di dannosità) oppure si nutrono di liquidi zuccherini o polline, altre non si nutrono affatto. Hanno abitudini notturne e sono discreti volatori, in grado di percorrere anche un centinaio di chilometri; tuttavia il volo è irregolare e intervallato da pause sulla vegetazione. Sono facilmente attratti dalle fonti luminose.
Le larve sono predatrici fondamentalmente polifaghe, anche se manifestano specifiche preferenze. In generale sono attaccati Acari, uova, Afidi o altri Rincoti, larve di microlepidotteri. Sono piuttosto mobili, molto attive e voraci e, in condizioni di carenza di vittime, facilmente dedite al cannibalismo. Cacciano prevalentemente nelle ore notturne, mentre di giorno in genere riposano protette in nascondigli.
L'elemento più caratteristico dei Crisopidi è la particolare forma dell'ovatura: le uova sono infatti portate da sottilissimi filamenti, prodotti da secrezioni ghiandolari dell'apparato genitale della femmina. Anche se di piccole dimensioni, si possono individuare facilmente sulle foglie, spesso in prossimità di colonie di Afidi.
La famiglia comprende diversi generi, di cui circa una decina presenti in Italia, con una trentina di specie. I generi di maggiore imporanza sono Chrysopa e Chrysoperla.
(Le immagini vengono dal sito di wikipedia)

lunedì 30 maggio 2011

Effimere

Ho trovato un insettino sul vetro della finestra, e l’ho aiutato a uscire. Siccome ormai sono una vecchia volpe (si fa per dire, non è mica vero!) mi sono guardato un attimo in giro e ho trovato subito, sul muro bianco, il suo gemello. Un soffio, e via, finito in polvere.
Quand’ero piccolo mi chiedevo sempre, magari vedendone uno sul soffitto: “ma come fa quell’insetto lì a stare fermo immobile come una statua per giorni, mesi, settimane?” Sapevo che per gli insetti stare fermi immobili fa parte della loro vita, ma qui si stava esagerando.
La soluzione era semplice ma anche complicata: l’insetto era volato via da un bel po’ di tempo, ed era un’effimera. Quella che era rimasto sulla parete era solo la sua pelle più esterna, l’ultima muta prima del volo finale: le effimere (efemerotteri) si chiamano così perché da adulti vivono pochissimo, giusto il tempo di accoppiarsi e di fare le uova.
(due foto vengono dal sito http://www.lucianabartolini.net/ che è uno dei miei preferiti in assoluto; la terza, quella dello specchio, viene da http://www.flickriver.com/ )
da http://www.wikipedia.it/
Gli Ephemeroptera sono un ordine di insetti emimetaboli terrestri che vivono nei corpi d'acqua dolce superficiali negli stati preimmaginali. Sono cattivi volatori a causa delle ali posteriori molto ridotte (a volte possono addirittura mancare), con un conseguente sviluppo del mesotorace. Le dimensioni sono spesso esigue, con un'apertura alare mediamente sui 12 mm. Le ali sono spesso trasparenti, ricche di nervature solo nella forma adulta, e non sono mai ripiegate sul proprio corpo: a riposo sono sempre tenute in posizione verticale, cosa che negli altri insetti avviene solo dopo una muta ninfale o pupale. Altra caratteristica è la presenza di cerci filamentosi (due) posti al termine del corpo, a volte accompagnati da un terzo filamento mediano. Dopo lo stadio ninfale, gli Ephemeroptera sono immediatamente in grado di volare.
Unico caso tra gli insetti, gli Ephemeroptera possiedono una ulteriore muta dopo lo stadio alare: il primo stadio adulto rappresenta infatti una subimmagine dai colori più opachi e sessualmente immaturo. L'insetto raggiungerà l'immagine completa solo dopo poche ore (in alcune specie dopo solo pochi minuti). A partire dallo stadio adulto gli Ephemeroptera smettono di alimentarsi a causa dell'atrofizzazione dell'apparato boccale. Non a caso in greco ephemeros significa "che vive un giorno". Raggiunta l'immagine alare, la loro vita rimane infatti di breve durata: il più delle specie vive meno di un giorno, mentre solo alcune arrivano massimo a una settimana. Avendo così poco tempo a disposizione, gli insetti sono immediatamente alla ricerca di un partner. L'accoppiamento avviene in volo, sempre nelle vicinanze dell'acqua. La femmina, che può deporre le uova di natura ovale singolarmente o in massa, predilige lasciarle cadere sulla superficie dell'acqua poche ore dopo l'accoppiamento. In alcuni generi, le femmine si adagiano invece su rocce, steli o foglie; o addirittura, come nel caso del genere delle Baetis, nuotano sott'acqua per trovare un riparo sicuro.
La brevità della vita degli adulti è compensata da un lungo processo di sviluppo larvale. Alcune larve arrivano ad impiegare 2 anni per raggiungere la prima muta (Ephemera danica), anche se la media rimane quella di un anno. Le larve di alcune specie posseggono ben 27 mute. Il loro sviluppo avviene completamente in acqua, o comunque nelle vicinanze della superficie. Si nutrono di piante ed alghe, e si ipotizza che alcune siano in grado di cibarsi di composti organici animali. Respirano grazie a branchie laterali appiattite, dette tracheobranchie (di solito 7) disposte lungo l'addome, anche se non mancano specie con branchie situate alla base delle coxe. In alcune specie le branchie possono essere in grado di vibrare agitando l'acqua intorno, in modo da supplire ad un'eventuale carenza d'ossigeno o addirittura in modo da generare una piccola spinta propulsiva nel mezzo acquatico. La maggior parte degli Ephemeroptera possiede tre appendici caudali, anche se nella rispettiva forma adulta ne possono manifestare un numero diverso.
In Europa sono presenti 14 famiglie (su 19 distribuite in tutto il Globo, eccetto che in Artide e in Antartide) suddivise in circa 200 specie, di cui 80 vivono in Italia. A prima vista possono essere facilmente scambiati con esemplari di Plecotteri, Tricotteri o Planipenni. Un utile elemento di distinzione sono le antenne, cortissime negli Ephemeroptera, le ali posteriori molto più sviluppate nei Plecotteri, il minor numero di nervature trasversali nei Tricoteri e la forte somiglianza delle ali posteriori ed anteriori nei Planipenni.
Gli Ephemeroptera prediligono acque non inquinate, esenti da grandi quantità di residui organici. Non a caso sono spesso considerati indicatori ecologici utili a ricavare immediatamente informazioni sulla salute dell'ambiente circostante. Sia le forme adulte che le larve rappresentano un'importante ruolo nella catena alimentare, particolarmente per i pesci carnivori come le trote nei torrenti agitati o per i pescegatto nei fondali più bassi, ma anche per libellule, uccelli o pipistrelli.
Le effimere vengono anche raggruppate, insieme alle libellule e ad altre specie, nel più grande gruppo dei Paleoptera, insieme di insetti caratterizzati dal possedere strutture alari meno evolute.
Alcune persone ipersensibili, nell'assistere al volo di grandi sciami di effimere, manifestano sintomi di febbre alta e asma a seguito dell'inalazione di microframmenti dei corpi degli insetti. Si suppone che la causa sia una proteina contenuta nella chitina (sostanza che riveste interamente gli insetti, e che quindi può disperdersi in piccolissime particelle allo scontro di questi, o ancora più facilmente durante le mute) a causare allergie respiratorie. Si tratta comunque di casi molto rari e comunque non mortali, dovuti soprattutto a un'alta ipersensibilità del soggetto e a un gran numero di insetti.
Negli Stati uniti gli Ephemeroptera prendono il nome di Mayfly (pl. Mayflies), ovvero letteralmente "mosche di maggio" (nonostante sfarfallino anche in altri periodi).

domenica 29 maggio 2011

Merli e lombrichi

Quando piove tanto, come succede in questi giorni, sono tempi duri per i lombrichi. Il lombrico è un Verme, non è una larva o un bruco; e, in quanto verme, non si trasforma mai in qualcosa d’altro ma rimane sempre lombrico per tutta la sua vita.
Quanto al respirare, il lombrico è molto simile a noi: nel senso che se va sott’acqua rischia di annegare. Sotto terra, nella terra morbida dove vivono i lombrichi, c’è sempre un po’ d’aria da respirare; ma se piove, se piove tanto, il lombrico rischia di annegare e deve mettere fuori la testa, magari anche con tutto il corpo. E qui sta il pericolo, perché fuori, quando piove, ad aspettare i lombrichi c’è un terribile mostro: il merlo.
Non che sotto si sia proprio al riparo: ci sono le talpe, per esempio, e ci sono le galline, che raspano e scavano. Ma, fuori, quando piove, si è del tutto indifesi: il merlo lo sa e ne approfitta. Quando piove, fate caso ai prati e alle aiuole (dove ci sono, s’intende; ormai, prati e aiuole sono sempre più rari, in via d’estinzione): in mezzo all’erba è facile vedere un merlo con la testolina alta e lo sguardo attento, in attesa dei lombrichi.
Il merlo è un gran chiacchierone: quasi tutti gli altri uccelli ripetono sempre la stessa frase, ma il merlo no. Il merlo chiacchiera, quelli fra due merli sembrano davvero discorsi compiuti, come quelli che facciamo noi, uno che parla e l’altro che risponde.
Che cosa si diranno mai, i merli? Cos’avranno da chiacchierare così tanto? Mi sembra d’intuire: stanno parlando di lombrichi, è ovvio. “Ne ho trovato uno lungo così”, dice il primo merlo; e l’altro (sua moglie, suppongo) risponde: “Davvero? Dimmi dove, che vengo anch’io”.
A me i lombrichi piacciono, mi sono sempre stati simpatici. Sono bestie quiete, innocui, intenti solo a scavare e a rivoltare la terra, che è il loro unico nutrimento. E’ incredibile quanto lavoro svolgano i lombrichi, e quando ne vedete uno vuol dire che non ci sono veleni in giro, perché i lombrichi sono sensibilissimi ai veleni: con quella pelle rosea e sottile, così indifesi, basta poco per farli star male. E non sarà certo un merlo a farli estinguere: la Natura fa il suo corso, l’unico pericolo siamo noi umani, per la Natura; solo noi siamo i veri nemici dei lombrichi e dei merli, solo noi umani rischiamo di farli scomparire. Altrimenti, fosse per loro, lombrichi e merli, talpe e galline, ne avremmo sempre in abbondanza.

Questo qui che ho davanti, per esempio: ha nel becco un gran lombrico, che se ne sta però agganciato a terra. Il merlo tira, il lombrico si aggancia più che può e diventa sottilissimo; però poi il merlo si accorge di me, molla il lombrico e scappa via. Ma non troppo lontano: appena io me ne vado (non volevo interferire, stavo solo passeggiando), il merlo nero torna giù e ricomincia la lotta. Ed eccolo lì, che vola via, col lombrico nel becco: di sicuro ha il nido da qualche parte, magari su quell’albero là in fondo. Però prima di andare al nido fa un giro largo, non vuole farsi scoprire: metti caso che io sia un qualche malintenzionato, meglio prima fermarsi un po’ qui e un po’ là, depistarmi, ma sempre con la sua preda ben ferma nel becco.
(le immagini dei merli vengono da http://www.wikipedia.it/ , la vignetta del magnifico Gary Larson viene dal mensile Linus, anni '90)

giovedì 26 maggio 2011

Piumini e Buzzati

IL TRENO ELASTICO
Per chi vuole partire, ma anche un po’ restare,
c’è il treno elastico:
il primo vagone giunge a destinazione
ma l’ultimo rimane alla stazione.
Per chi vuole partire ma anche un po’ tornare
c’è il treno elastico.
Si siede in testa al treno e va lontano
e poi se ha nostalgia
attraversa i vagoni fino in coda
e torna alla partenza piano piano.
( Roberto Piumini )

Il treno per me era come stare in famiglia, mio zio era ferroviere, avevo molti amici in ferrovia e molti ne ho ancora. Si faceva il biglietto, si saliva in carrozza, e via: se trovo chi ha riempito le stazioni di tornelli, di obliteratrici, di spot e di televisori implacabili, di prenotazioni obbligatorie, di "diverse tipologie di treni"... Mah, meglio non pensarci. Tra l'altro, la cosa non sembra interessare a nessuno: forse avete ragione voi, voi che ve ne fregate, e ho torto io, io che mi divertivo a viaggiare in treno.
Anche le montagne, i boschi, perfino la linea dell'orizzonte, sono diventate cose da eliminare e da distruggere. Se vi guardate attorno e c'è un albero, fosse anche in campagna, state sicuri che verrà abbattuto quanto prima.

La solitudine, i posti senza case e senza strade,
i boschi, le montagne, diventeranno cose preziosissime.
( Dino Buzzati )

mercoledì 25 maggio 2011

Le donne e la guerra

“Se il mondo fosse governato dalle donne non ci sarebbero più guerre” è un altro luogo comune che ricorre spesso. Beh, magari fosse vero: e certamente sarebbe così se il mondo fosse governato da mia mamma e dalle sue sorelle (le mie zie), ma mi basta guardare Margaret Thatcher e Condoleeza Rice per avere immediata smentita di questo luogo comune.
Margaret Thatcher, quand’era primo ministro, dichiarò guerra all’Argentina per il possesso delle isole Falkland, o Malvinas. Qualcuno di voi sa dove sono? Tempo scaduto: un piccolissimo arcipelago di scarsa importanza strategica o economica. Di Condoleeza Rice, ministro della Guerra (pardon, della Difesa) del presidente Bush, metto una foto qui sotto, penso che basti.
Anche nel mondo del lavoro, non è che le donne si dimostrino caratterialmente migliori degli uomini, anzi: ma qui non porto esempi perché non si tratta di persone famose, ognuno si faccia gli esempi che vuole, capi ufficio, capi reparto, vicini di casa, amicizie, parentado.
E dunque, che dire? Come concludere? La solita cosa, cioè che è bene dubitare dei luoghi comuni e che – soprattutto – non si valutano le persone per categorie, ma singolarmente e dentro il contesto in cui operano. Non esistono i giovani, i vecchi, i meridionali, i settentrionali, gli uomini, le donne, eccetera: esisto io, esisti tu, ognuno di noi ha una sua personalità. E anch’io, a guardar bene, non sono mica sempre lo stesso: alle volte sono un bel po’ aggressivo anch’io, e poi magari mi dispiace, ma ormai è fatta. Il me stesso delle 9:30 non è il me stesso delle 15:30, magari sono stanco, non ho mangiato, mi è venuto mal di pancia, mi hanno dato una brutta notizia, o magari (all'opposto) mi sono alzato di cattivo umore e poi gli incontri fatti in giornata mi hanno reso più tranquillo e cordiale. E anche questo dovremmo ormai saperlo tutti; invece no, siamo ancora qui a discutere se le donne sono meglio degli uomini. E la risposta è: dipende. Dipende: chi è l’uomo, chi è la donna, di chi stiamo parlando di preciso?
Gran brutta cosa, il generalizzare. Alle volte generalizzare può essere utile, comodo, sbrigativo: ma insomma, meglio valutare passo dopo passo, e stare bene attenti a cosa succede e a dove si mettono i piedi: come facevano i miei nonni contadini, dei quali sono molto orgoglioso (e so per certo che mio nonno sapeva farsi rispettare, ma era una persona che non avrebbe mai e poi mai dichiarato guerra a nessuno).

martedì 24 maggio 2011

Privatizzazione

Siamo reduci da un ventennio (anche di più) in cui si sono magnificate le privatizzazioni a scapito di tutto ciò che è pubblico, statale, regionale, comunale. Con l’ideologia dominante, “Statale” è diventata una brutta parola, “Privato” è diventato la parola magica, e guai a chi contraddice il dogma. In teoria, tutto funziona bene: si impara fin da piccoli che se una cosa è mia la terrò da conto, se invece è di tutti vuol dire che magari ci penserà qualcun altro e mi abituerò a lasciar andare le cose come vanno.
Ma siamo sicuri che vada proprio così? Proviamo a fare qualche confronto con la realtà, magari a fare qualche nome di privati: che so, partire da Michele Sindona per arrivare a Calisto Tanzi, a Cragnotti, a quel Tronchetti Provera che ha usato la Telecom per spiare i concorrenti (c’è un processo importante in corso, con accuse precise; e c’è anche già stato un morto), al Fiorani che è stato il banchiere della Lega Nord, eccetera eccetera: l’elenco dei bancarottieri è sterminato, e ci sono personaggi meno famosi che hanno accumulato fortune comperando a poco prezzo i beni “privatizzati”, soprattutto palazzi e terreni che erano di proprietà di enti pubblici – ma tutto questo, si sa, è di una noia mortale, gli italiani preferiscono parlare di calcio e di pettegolezzi e in questo sono stati generosamente accontentati.

Non che all’estero le cose vadano meglio: in USA un certo signor Madoff si è bevuto tutti i soldi dei fondi pensione privati, e non è certo stato il primo. Adesso Madoff è in galera, ma gli anziani americani non ne hanno tratto gran giovamento: i loro risparmi ormai se ne sono andati, e per sempre. Va invece ricordato che le pensioni statali, qui in Italia, furono sempre pagate regolarmente, anche dopo la catastrofe del fascismo: mio nonno, classe 1882, ebbe puntualmente la sua pensione nel dopoguerra; se avesse pagato i contributi a Madoff, o un altro privato, non so bene che fine avrebbero fatto quei soldi.
Va anche fatto notare che i privati, oggi, in Italia, non sono più quelli delle generazioni precedenti: oggi le aziende qui chiudono e licenziano, e spostano la produzione all’estero dove si pagano di meno i dipendenti e dove ci sono meno tutele. L’ultimo della serie (per ora) è Bialetti, ma prima ci sono stati fior d’imprenditori a seguire questa strada, tutti i big comaschi della seta per esempio, o il Fumagalli della Candy (che oggi produce in Turchia), eccetera eccetera.
Questi sono dunque i privati con cui abbiamo a che fare oggi, con qualche felice eccezione; e per non allungare troppo il post sorvolo (però facendo il segno della croce tre volte) sulla delinquenza che si è infilata un po’ dappertutto.

Ma, soprattutto, vorrei contestare duramente la seconda parte di questo luogo comune, cioè “che se una cosa è di tutti vuol dire che magari ci penserà qualcun altro e mi abituerò a lasciar andare le cose come vanno” : e se invece provassimo a dire in giro che le cose di tutti vanno rispettate e fatte funzionare, che se le aziende sono di tutti significa che sono anche mie e tue, che a lavorare insieme si fa meno fatica e si spende meno, eccetera? Tutte cose tremendamente noiose e fuori moda, si sa: ma ragionare così è da bambini, non da adulti.
Provo a spiegarmi con un piccolo esempio personale: ero sul lavoro (un laboratorio chimico), e siccome c’era tempo ho detto a un mio collega: “Adesso mettiamo in ordine i reagenti, e facciamo un po’ di pulizia”. Mi ha risposto che era una cosa noiosissima, che preferiva andare a fumarsi una sigaretta. E così ha fatto: col beneplacito del capo, perché anche il capo trovava lui tanto simpatico e me tanto noioso. Così anch’io quel giorno (mi dispiace dirlo) mi sono seduto e non ho fatto più nulla di nulla, e mi sono un po’ depresso perché a me avevano insegnato (ed è verissimo) che non fare manutenzione è la cosa peggiore, perché poi ti trovi a lavorare il doppio, a lavorare male, e a lavorare con l’affanno – tutte cose che portano ad errori e anche a catastrofi.
Era un’azienda privata, tengo a sottolinearlo: incompetenti, raccomandati e fannulloni esistono ovunque. Viene dunque da chiedersi come mai le cose vadano avanti lo stesso: semplice, ci sono persone che lavorano doppio, che lavorano anche per gli incompetenti, i fannulloni, i raccomandati. Fessi o volenterosi? Non saprei dire, ma ci sono e non sono pochi. Come si fa a riconoscerli? Semplice anche questo: sono quelli che non fanno carriera. Se lavori tanto, se sgobbi, se ci dai dentro anche nei lavori più umili, allora sei un servitore: questa è una legge non scritta, ma ferrea. Chi è più simpatico fa carriera, e se non siete simpatici non importa come lavorate e quanto lavorate: vale per il pubblico, per il privato, per la carriera militare, per tutto.

lunedì 23 maggio 2011

Gli italiani e l'automobile

Uno dei luoghi comuni più diffusi, negli anni passati, era quello sulle autostrade e i trasporti su gomma anziché su rotaia: la colpa era della Fiat e degli Agnelli, si diceva, perché a loro interessava vendere camion e macchine. E’ per questo (l’ho sentito ripetere infinite volte) che il trasporto delle merci e delle persone viaggia tutto sulle autostrade e sulle strade normali, intasando il traffico e creando il problema: tutta colpa della Fiat e degli Agnelli. Mah. Ne siamo sicuri?
Questo discorso poteva avere senso cinquant’anni fa, quando le autostrade erano ancora poche e tutte da costruire. Ma, oggi che la Fiat si è molto indebolita, oggi che i cavalcavia e le superstrade hanno preso nel nostro paesaggio il posto delle pianure e delle colline, oggi che più della metà delle nostre auto sono giapponesi o tedesche o coreane, che discorso è? La verità probabilmente è questa: che gli italiani amano svisceratamente l’automobile, e che tutti fin da piccoli vogliamo soltanto fare brum-brum con la nostra macchinina, è l’unica cosa che veramente desideriamo. Gli Agnelli, e la Fiat, hanno solo approfittato di questa nostra mania.

Che dire? Stamattina ho fatto cinque chilometri in automobile e ho trovato subito cinque piloti di rallies o di formula uno decisissimi a sorpassarmi: in un centro abitato piccolissimo, con una strettoia ancora a misura di mulo, cento metri scarsi di rettilineo, case e passi carrai ovunque. Ma sorpassare bisogna, altrimenti si perdono punti al mondiale. O no?
Basta prendere questi miei cinque chilometri di stamattina ed estenderli a tutta la rete stradale, si vedrà bene cos’è successo.
La politica, poi, ha peggiorato le cose: invece di investire sui mezzi pubblici ha investito in autostrade, strade statali, superstrade, svincoli, rondò. Il risultato è che non si circola più, ma si dà sempre la colpa al vecchietto di ottant’anni che va a quaranta all’ora: e se la colpa fosse invece delle BMW, delle Mercedes, delle Ferrari, della Maserati?
Va ben, basta, mi fermo qui, so già che ragionare su queste cose non serve a niente: diamo pure la colpa agli Agnelli, come se fossimo nel 1965, e non parliamone più. Intanto però spiego perché io stamattina andavo così piano: svoltando per fare quei cento metri prima della strettoia fra le case disegnata pensando alla carrozza a cavalli, ho intravisto poco più in là una macchina agricola (modernissima). Vuoi vedere che è il mio amico P., mi sono detto, che nonostante la giovane età si ostina a voler fare l’agricoltore in terra lombarda? E così ho rallentato, tanto che senso ha: il limite qui è di cinquanta all’ora, io vado a quaranta, poi P. metterà la freccia e girerà a destra (era proprio lui, quanto tempo che non vado a trovarlo! chissà i bambini come sono diventati grandi), e io potrò poi sfrecciare all’infinito su strade deserte, come negli spot in tv.
Invece no, non mi ero reso conto di essere sulla pista di un gran premio: una, due, tre, velocissime, mi sorpassano immediatamente su quei cento metri, con striscia continua per terra e una macchina che arriva in senso opposto, ma che importa: e poi tutti in fila a passo d’uomo dietro alla mietitrice del mio amico P.
Il caso ha voluto che anche il semaforo immediatamente successivo fosse rosso: quando dopo due minuti è diventato verde ho fatto ciao con la manina all’omino sulla Maserati decappottabile (davanti a me ormai da una decina di minuti), ho messo la freccia a sinistra e l’ho lasciato al suo destino. Avrà recuperato qualche punto nella classifica del mondiale? Vorrei tanto saperlo...
PS: Non so distinguere una Maserati da una qualsiasi altra macchina, ho tirato a indovinare. (a dire il vero non so neanche se il mio amico P. era davvero lui o non piuttosto uno dei suoi fratelli: si somigliano molto, me li confondo sempre uno con l’altro, e magari va a finire che era G., mio omonimo).

sabato 21 maggio 2011

Pubblicità 16

Michele Serra, La Repubblica 26.01.2007
Ho preso un treno Eurostar sponsorizzato: i divisori tra i sedili erano interamente occupati dalla pubblicità di una banca, con un effetto a catena, vagone dopo vagone, decisamente opprimente. Come se qualcuno ti ripetesse la stessa parola, sadicamente, fino a stordirti.
Nelle stazioni della metropolitana milanese la pubblicità, oltre che murale, è anche sonora: gli altoparlanti trasmettono imprecisati notiziari imbottiti di spot. Ascoltarli non è una scelta. È un obbligo.
Ogni percorso quotidiano è oramai una gimkana tra spot, gingle, tabelloni luminosi, totem girevoli (vedi la stazione Centrale di Milano). La pubblicità dilaga, occhieggia da ogni banda; tracima da ogni interstizio, tende agguati. Non la reggo più, e penso che solo la parola "regime" è in grado di descrivere la pervasività, l'onnipresenza, in ultima analisi la violenza di questo continuo stimolo a consumare, spendere, immolare il proprio tempo a una banca, diventare devoti di un'assicurazione...
Pazzesco come il lento, inesorabile stillicidio, divenuto col tempo un diluvio insopportabile, ci trovi oramai assuefatti. Nessuno che dica "basta, lasciateci in pace, mollate la presa". Tutti come pecoroni, chiniamo la testa e viviamo come ricettori passivi, rassegnati, di una litania che ci spappola il cervello.
(ringrazio Michele Serra per questo articolo, che conservo con molta cura: purtroppo la situazione è molto peggiorata, ormai la pubblicità obbligatoria è arrivata ovunque, anche nei posti più impensati. E quelli che dicono "basta, lasciateci in pace, mollate la presa" sono davvero pochi: gran brutto segno...)

venerdì 20 maggio 2011

Pubblicità 15

Due pubblicità dai giornali di questi giorni, tutte e due riguardanti scarpe e calzature. Una è bruttina, del genere “foto venuta male”, di quelle che in casa si guardano e si cancellano subito, ma è molto funzionale: il sandalo della ragazza è in primo piano, è ben visibile, si vede subito che dev’essere comodo e confortevole, ed è anche molto bello.

Un’altra è questa qui sotto, che sarebbe incomprensibile se non fosse per il fatto che si tratta di un prodotto comodissimo e ormai molto diffuso, così diffuso da essere ormai quasi proverbiale: invece dei sandali si vedono dei piedi nudi, e appesi ai piedi nudi dei pupazzi molto grossolani. Che cosa pubblicizza questa foto? Difficile capirlo, a prima vista...

Ed infine una domanda: ma se il vostro prodotto è così diffuso da essere ormai quasi proverbiale, che bisogno c’è di spendere soldi in pubblicità? Mah...Un bel mistero, e non lo dico solo per i sandali.

giovedì 19 maggio 2011

Pubblicità 14

Si sa che la scelta del nome, per un prodotto, è fondamentale. Per esempio, difficile trovare per le pulizie in bagno e in cucina un nome migliore di “Mastro Lindo” (l’originale è “Meister Proper”, "Mr. Clean" in inglese), accompagnato dal disegno del genio della bottiglia (preso dal film leggendario di Powell e Pressburger “Il ladro di Bagdad”: le Mille e Una Notte).
La stessa cosa succede in altri ambiti, ed è una riflessione che ha aspetti molto più interessanti di quello che può sembrare. Per esempio, ed è un discorso serissimo, la grande risonanza del nome “Brigate Rosse”: che non sono state l’unico gruppo terroristico in Italia, ma ormai sembra che abbiano fatto tutto loro. Potenza del nome, viene da dire: ed è in effetti difficile trovare qualcosa che colpisca di più l’immaginazione. Per esempio, negli stessi anni c’erano i neofascisti del NAR, “Nuclei Armati Rivoluzionari”, che hanno sulla coscienza molti morti, molte stragi, molte bombe nelle stazioni e sui treni, eccetera. Ma una sigla come “NAR” difficilmente rimarrà nella memoria. La stessa cosa accade per altre organizzazioni terroristiche di quegli anni: Prima Linea, o magari Ordine Nuovo. Di recente, ho letto che è stato fatto un piccolo test fra gli studenti bolognesi, ed è risultato che sono stati in molti che hanno attribuito la bomba alla stazione di Bologna del 1980 proprio alle BR, che invece sono completamente estranee a questa strage e non sono nemmeno mai entrate nelle indagini.
Un altro “marchio” (chiedo scusa per la leggerezza apparente di questo post, ma sto cercando di fare un ragionamento solo sui nomi e sulla loro memorizzazione) che ha avuto grande successo è quello della “pista bulgara” (per l’attentato a Papa Giovanni Paolo II) o all’editto “bulgaro” di Silvio Berlusconi (lanciato appunto dalla Bulgaria, nel quale chiedeva l’allontanamento di giornalisti ottimi ma a lui poco simpatici). Una “pista dalmata” o “pista ceca” o non avrebbero avuto lo stesso impatto, per non parlare, che so, di una “pista slovacca”, o “pista albanese”. Invece i Bulgari e la Bulgaria colpiscono molto il nostro immaginario, chissà poi perché.
Di recente, poche settimane fa, c’è stato il caso dei manifesti affissi da un politico milanese che paragonava i giudici alle BR: la notizia ha fatto scalpore (e anche un bel po’ di ribrezzo, va detto), ma è diventata subito “il manifesto delle BR”, anche nei titoli dei giornali più attenti l’ho vista abbreviare in questo modo. Ora, leggendo “Manifesto” e “BR” si pensa subito a qualcosa di sinistra, estremista, comunista: ma in questo caso la bestialità era tutta di destra, governativa, e si riferiva direttamente al premier Silvio Berlusconi e al sindaco di Milano Letizia Moratti. Potenza delle parole: forse è vero che “ne uccide più la penna che la spada”. Non è sempre vero, ma in molti casi sì. (l'immagine viene da http://www.repubblica.it/ )

Poi, per fortuna, non sempre succede così: ci sono esempi in cui il cittadino non si fa prendere in giro così facilmente, anche i prodotti con un nome bruttino o anonimo continuano ad essere venduti, se sono buoni; e i tifosi della Sampdoria continuano a voler bene alla loro squadra, nonostante il nome quasi impronunciabile (è la contrazione di Sampierdarenese a Andrea Doria, due squadre di calcio genovesi che si fusero insieme nel dopoguerra). Ed anche nelle persone, il nome di battesimo non è poi così importante come si vuol far credere: una delle donne più belle che ho visto passare in tv negli ultimi anni si chiama Vincenza Cacace, è ancora molto giovane, è arrivata seconda a un concorso di Miss Italia e secondo me avrebbe meritato di vincere. Ha anche una faccia simpatica: se incontro una ragazza così, che cosa vuoi che m’importi del nome e del cognome...

mercoledì 18 maggio 2011

Pubblicità 13

Ci sono delle pubblicità, non solo in forma di spot, che mi fanno impressione. Non tanto per la forma, per il “creativo” che se ne è occupato e per la cosa più o meno scema che ne è uscita, ma proprio per il soggetto trattato. La pubblicità per una clinica di chirurgia plastica, per esempio: con donne giovani e belle a trattare l’argomento, come se fosse questione di formaggini o di cera per pavimenti (tutte le sere su Canale 5, telepromozione con Gerry Scotti). Oppure quella per gli integratori alimentari e le creme snellenti: per forza che poi arrivano da noi così tanti immigrati, se vedono queste pubblicità, chi non vorrebbe andare a vivere in un posto dove la maggior preoccupazione è l’essere magri, e dove c’è la difficoltà ad andar di corpo invece delle devastanti malattie intestinali?

Ma, di tutte, due soprattutto mi lasciano perplesso: una è quella sulle acque minerali, che spendono cifre spropositate per farsi pubblicità. Addirittura, molte fonti e sorgenti sono sponsor di squadre di calcio: si tratta di milioni e milioni di euro che se ne vanno in niente, e – soprattutto - l’acqua dovrebbe essere pubblica, di tutti. Io non ho niente in contrario al commercio delle acque minerali, acquisto tranquillamente le mie due o tre cassette ogni quindici giorni (bottiglie in vetro), però tutti questi soldi buttati in pubblicità mi sembrano veramente uno spreco, tanto più che oggi va di moda licenziare. Fino a pochi anni fa non era così, il commercio delle acque minerali dava lavoro a migliaia di persone, invece oggi si chiude e si licenzia e si pagano sempre meno gli operai; in più, sono arrivate le “casette dell’acqua” dove il lavoro di imbottigliamento lo devo fare io (senza contributi e per di più pagando), e mi chiedo chi ci guadagna con queste “casette”, e se per caso avendo le “casette” smetteranno di fare manutenzione all’acquedotto dichiarando l’acqua non potabile, e tanti altri pensieri: ma per oggi mi fermo qui, e l’elenco delle fonti e sorgenti che spendono milionate per fare ricchi i calciatori lo lascio fare a voi (non solo quella, attenzione: ce ne sono tante).

Pensieri ancora peggiori mi vengono quando vedo la pubblicità della Manpower ai bordi degli stadi di calcio. Queste pubblicità costano, e tanto. Quando la Manpower, o la Metis, la Adecco, o altre società di lavoro “in affitto” fanno da sponsor a questo e a quello (e succede sempre più spesso), significa che sono soldi sottratti ai lavoratori.
Forse questi soldi si potrebbero impiegare meglio.

martedì 17 maggio 2011

Da Venezia a Chioggia

Un’altra caratteristica dei dialetti, su cui non si tornerà mai abbastanza, è che cambiano di molto anche a pochi chilometri di distanza. E’ un fatto notissimo a chi parla davvero il dialetto, ma a volte si preferisce ignorarlo (quasi sempre per ragioni nazionalistiche, politiche). Per esempio, Biagio Marin scriveva nel dialetto di Grado, che non è quello di Trieste: eppure Grado e Trieste sono vicinissime. Per esempio, il dialetto bergamasco è incomprensibile per tutti gli altri lombardi; per esempio, il dialetto di Napoli non è quello di Benevento; i Sardi di Alghero non sono gli stessi di Cagliari; eccetera.
Uno dei più grandi scrittori dialettali italiani, Carlo Goldoni, iniziava “Le baruffe chiozzotte” con questa nota per il lettore: Venezia e Chioggia sono vicinissime, lo erano anche nel ‘700, ma Venezia e Chioggia hanno dialetti diversi. Un veneziano e un chioggiotto facevano fatica a comprendersi: lo sapeva benissimo Goldoni, che a Chioggia si trovò a vivere e a lavorare e che ha riversato in questa commedia la sua esperienza di “straniero” (straniero a pochi chilometri da casa...) mettendosi anche in scena personalmente, con esiti molto divertenti.
L'AUTORE A CHI LEGGE
Il termine Baruffa è lo stesso in linguaggio Chiozzotto Veneziano, e Toscano. Significa confusione, una mischia, un azzuffamento d'uomini, o di donne, che gridano, o si battono insieme. Queste baruffe sono communi fra il popolo minuto, e abbondano a Chiozza piú che altrove; poiché di sessanta mila abitanti di quel Paese ve ne sono almeno cinquanta mila di estrazione povera e bassa, tutti per lo piú Pescatori o gente di marina.
Chiozza è una bella e ricca città venticinque miglia distante da Venezia, piantata anch'essa nelle Lagune e isolata, ma resa Penisola per via di un lunghissimo ponte di legno, che comunica colla Terraferma. Ha un Governatore con titolo di Podestà, ch'è sempre di una delle prime Case Patrizie della Repubblica di Venezia, a cui appartiene. Ha un Vescovo, colà trasportato dall'antica sede di Malamocco. Ha un Porto vastissimo, e comodo, e bene fortificato. Evvi il ceto nobile, il civile ed il mercantile. Vi sono delle persone di merito e di distinzione. Il Cavaliere della città ha il titolo di Cancelier Grande, ed ha il privilegio di portare la veste colle maniche lunghe e larghe, come i Procuratori di San Marco. Ella in somma è una città rispettabile; e non intendo parlare in questa Commedia che della gente volgare, che forma, come diceva, i cinque sesti di quella vasta popolazione.
Il fondo del linguaggio di quella città è Veneziano; ma la gente bassa principalmente ha de' termini particolari, ed una maniera di pronunziare assai differente. I Veneziani, pronunziando i verbi, dicono, per esempio, andar, star, vegnir (per venire), voler ecc. ed i Chiozzotti dicono: andare, stare, vegnire, volere ecc. Pare perciò che pronunzino i verbi come i Toscani, terminandoli colla vocale senza troncarli; ma non è vero, poiché allungano talmente la finale, che diviene una caricatura.
Io ho appreso un poco quel linguaggio e quella pronunzia nel tempo ch'io era colà impiegato nell'uffizio di Coadiutore del Cancelliere Criminale, come accennai nella prefazione del Tomo Ottavo di questa edizione, ed ho fatto una fatica grandissima ad instruire i miei Comici, affine di ridurli ad imitare la cantilena e l'appoggiatura delle finali, terminando i verbi, per cosí dire, con tre o quattro e, come se dicessero andareeee, sentireeee, stareeee ecc. Quando il verbo è sdrucciolo, come ridere, perdere, frigere ecc., i Veneziani troncano la finale, e dicono: rider, perder, friger ecc.; ed i Chiozzotti, che non potrebbero pronunziare, come negli altri verbi, ridereeee, perdereeee, f rigereeee, perché ciò sarebbe troppo duro anche alle loro orecchie, troncano la parola ancor di piú, e dicono: ridè, perdè, f rixè ecc. Ma io non intendo qui voler dare una grammatica Chiozzotta: accenno qualche cosa della differenza che passa fra questa pronunzia e la Veneziana, perché ciò ha formato nella rappresentazione una parte di quel giocoso, che ha fatto piacer moltissimo la Commedia. Il personaggio principalmente di Padron Fortunato è stato de' piú gustati. E’ un uomo grossolano, parla presto, e non dice la metà delle parole, di maniera che gli stessi suoi compatrioti lo capiscono con difficoltà. Come mai sarà egli compreso dai Leggitori? E come potrà mettersi in chiaro colle note in piè di pagina quel che dice e quel che intende di dire? La cosa è un poco difficile. I Veneziani capiranno un poco piú; gli esteri, o indovineranno, o avranno pazienza. Io non ho voluto cambiar niente né in questo, né in altri personaggi; poiché credo e sostengo, che sia un merito della Commedia l'esatta imitazione della natura.
Diranno forse taluni, che gli Autori Comici devono bensí imitar la natura; ma la bella natura, e non la bassa e la difettosa. Io dico all'incontro, che tutto è suscettibile di commedia, fuorché i difetti che rattristano, ed i vizi che offendono. Un uomo che parla presto, e mangia le parole parlando, ha un difetto ridicolo, che diviene comico, quando è adoperato con parsimonia, come il balbuziente e il tartaglia. Lo stesso non sarebbe d'un zoppo, d'un cieco, d'un paralitico: questi sono difetti ch'esigono compassione, e non si deggiono esporre sulla scena, se non se il carattere particolare della persona difettosa valesse a render giocoso il suo difetto medesimo. (...)
Carlo Goldoni, LE BARUFFE CHIOZZOTTE, prefazione dell’Autore, 1761.

lunedì 16 maggio 2011

Fascismo e dialetto

I movimenti autonomisti della Catalogna e dei Paesi Baschi nascono e prendono forza, nel ‘900, dal divieto franchista di parlare basco e catalano. La dittatura fascista di Francisco Franco, durata quasi cinquant’anni, prevedeva pene severe nel caso in cui baschi e catalani fossero stati sorpresi a parlare nel loro idioma materno. Le dittature, e il nazionalismo, hanno infatti questa caratteristica: vogliono metterci tutti in uniforme, ma proprio tutti (e qui vale la pena di ricordare il significato primario della parola “uniforme”: uniforme perché ci si veste tutti uguali, in maniera uniforme, e guai a chi sgarra, soldati e servitori). Negli anni '70, poco prima della morte di Francisco Franco, queste disposizioni vennero ammorbidite; ma è solo dopo la caduta totale del franchismo che vennero aboliti tutti i divieti riguardo le autonomie e le lingue locali. Da noi, per nostra fortuna, la dittatura fascista era caduta già da molto tempo.
In questi giorni da noi si è anche discusso molto su una certa ritrosia alle celebrazioni per l’Unità d’Italia in Alto Adige; ho letto che addirittura gruppetti di militanti di Forza Nuova volevano “marciare su Bolzano” per rivendicarne l’italianità; non so se poi l’abbiano fatto per davvero ma spero di no. Non mi piacciono i localismi e i nazionalismi, ma va detto che non hanno tutti i torti a Bolzano a protestare contro le feste per l’Unità d’Italia, perché da loro il fascismo cambiò perfino i nomi a luoghi e persone: oggi i fascisti sono di nuovo al governo e loro dovrebbero esserne contenti?

Il fascismo proibì i dialetti, anche se non a livello ufficiale; e vietò severamente alle minoranze di cittadini italiane di lingua diversa di esprimersi nella loro lingua materna. Il divieto (non scritto ma ben presente) valeva anche per la letteratura; alcuni dei nostri scrittori più importanti, vecchi e giovani, erano dialettali. Per esempio, un nostro grande poeta che scriveva in friulano ebbe grossi problemi ad essere recensito durante il fascismo: era Pierpaolo Pasolini, all’epoca giovanissimo (Pasolini era del 1922).
Qui da noi, in Lombardia, molti leghisti si dicono anche fascisti, ed è un altro aspetto grottesco e ridicolo dei nostri tristi tempi, tempi in cui l’ignoranza è molto diffusa e coltivata: in Lombardia non è mai successo niente di paragonabile a quello che è successo nei Paesi Baschi, o in altri Paesi dove la lingua locale fu veramente repressa. Molti leghisti si atteggiano a vittime, ma non si sa bene di cosa: in Lombardia non esistono minoranze linguistiche perseguitate. Se vanno in Irlanda (da dove hanno copiato il verde) gli autonomisti li prenderebbero a calci in culo, lì sono quasi tutti anarchici o di sinistra – ma guai a dirglielo, l’ignoranza è una brutta bestia.

Un altro poeta dialettale (un grandissimo poeta) che ebbe difficoltà durante il fascismo fu l’avvocato milanese Delio Tessa, al quale ho dedicato questo blog. Delio Tessa morì nel 1939, quindi in tempo per conoscere Mussolini e i suoi fascisti. A loro ha dedicato una poesia, forse non delle sue migliori, in cui parte da un simpatico truffatore degli anni ’30, che si spacciava per capo di stato pur non essendolo e che fu ricevuto anche da Mussolini, dicendosi contento della sua caduta, e che sperava che la stessa sorte capitasse anche a qualche altro cialtrone. Su “Ripp Witt Elk, prinzep Tavana” tornerò più avanti, per intanto copio e incollo qui sotto la descrizione di Benito Mussolini fatta da Delio Tessa.
... mi vedéndet tramontà
- oh tramonto degli Dei! –
per qui coo de ravanei
ch'inn de sponda al capp de cà,
per stí stòmegh de balena
che ne ròsega a ruína,
pei lacchè del Mussolina,
mi per tutt sti dobbia s'cenna
che sbuellen, van in broeuda
quand el pissa e quand el squitta,
per sti can taccaa alla vitta,
che in virtù de quella roeuda
che la gira intant che scrivi
van in su per tornà giò,
mi Tavanna Rai al tò
tramont, guarda, speri e vivi:
vivi e preghi d'avegh tanta
vitta ammò de tirà là
fina al dì che vegnarà
l'ora granda, l'ora santa
e per ti Eja e per lor
Eja sbragi, o test de bigol,
perdi i staff, voo su de rigol,
cavalier, commendator;
alalà, grand'ufficiaj!
Al patron, ai noster capp
batti i man, i pee, i ciapp,
come a ti Tavanna Rai
buttonaa sul candilee,
ed infin poeu della fera
se la sort la ve petera
sul faccion, tra duu pollee,
roccolaa su ona pedanna,
mi ve mandi el mè alalà
e ve foo mej che poss fà
el salud alla Romana.
(Io, vedendoti tramontare - oh il tramonto degli Dei! -per quelle teste di rapanello che fanno da sostegno al capo, per questi stomaci di balena che ci rosicano fino alla rovina, per i lacchè del Mussolini; per queste schiene flessibili che si sviscerano e s'imbrodano quando lui piscia e quando ha la diarrea, per questi cani attaccati ai fianchi che, in virtú di quella ruota che gira mentre scrivo, vanno in su per tornare giú; io, Tavanna Rai, al tuo tramonto, vedi, spero e vivo, Vivo e prego di avere ancora abbastanza da campare fino al giorno in cui verrà l'ora grande, l'ora santa; e per te, «Eja! », grido, e per loro « Eja! », o teste di cazzo; perdo le staffe, non bado a mezze misure; cavalieri, commendatori, grandi ufficiali, alalà! Al padrone, ai nostri capi, batto le mani i piedi le chiappe, come a te, Tavanna Rai, sospinto fino in cima al candeliere e poi, alla fin la sorte vi spetezza in faccia, li tra due guardie, irretito su una pedana; io vi mando il mio alalà e vi faccio, il meglio che posso, il saluto alla romana.)
(Delio Tessa, dai due volumi dell’edizione Einaudi a cura di Dante Isella, pag.413)

domenica 15 maggio 2011

Moschee e minareti

Ogni volta che si parla di moschee e minareti succede un pandemonio. In Svizzera hanno fatto un referendum, qui da noi c’è una proposta di legge in Parlamento, importante perché viene da un partito che è al governo giù a Roma, la Lega Lombarda. Si tratta di regolamentare la costruzione delle moschee, e tra le varie norme ce n’è una che prevede un referendum tra i futuri vicini di casa della moschea. Se i cittadini votano no, la moschea non sarà costruita.

Metto da parte le reazioni più emotive e provo a ragionarci sopra. La motivazione ufficiale è che costruendo una moschea sorgerebbero molti problemi, per esempio i parcheggi, l’afflusso di persone, la delinquenza che ne seguirebbe, eccetera. Se è così, concludo, sono d’accordo: se passa questo principio, la legge si potrà facilmente estendere anche alle discoteche, agli stadi di calcio, ai grattacieli, alle autostrade, e magari anche alle costruzioni civili.
Qualcuno vuole costruire un palazzo di sette piani o un grattacielo davanti a casa vostra? Referendum. Qualcuno vuole costruire un centro commerciale dove adesso ci sono campi e prati? Referendum. Qualcuno vuole aprire una discoteca sotto casa vostra? Non sia mai, parcheggi selvaggi, baccano fino alle quattro del mattino, bottiglie rotte, adolescenti drogati e ubriachi. Referendum anche qui. Referendum, referendum su ogni cosa: perché mai limitarsi solo a moschee e minareti?
Se io fossi in Parlamento, riempirei di emendamenti questo progetto di legge. Mica perché credo che ci si possa fare qualcosa, ma così, solo per divertimento e per far passare il tempo.

sabato 14 maggio 2011

L'attrazione del vuoto

Ogni tanto capita, nei libri, di imbattersi in un personaggio e dire: "ma questo sono io". A me è andata bene: il mio ritratto l'ha fatto Achille Campanile. Questo qui sotto sono proprio io, mi chiedo ancora come avrà fatto Campanile a farmi un ritratto così perfetto, dato che non ci siamo mai incontrati  (un giorno o l'altro vado su a chiederglielo).

Achille Campanile
L'ATTRAZIONE DEL VUOTO
Si narra di persone che, affacciate su un abisso profondissimo o da un'altissima torre, provano un senso di "attrazione del vuoto". Forse il pensiero che un atto tanto semplice e tanto grave, quale è il buttarsi giù, dipende da un loro piccolissimo gesto, sicché il farlo o non farlo è soltanto attaccato all'esile filo della loro volontà, riempie questi signori - spero che non sieno molti, in verità - d'un tale timore di "indursi a buttarsi giù", di non riuscire ad evitare un atto gravissimo il quale dipende unicamente da essi stessi, che finiscono con l'esser presi dal capogiro e col precipitarsi nel vuoto.
Giorgio era andato a visitare un autorevole personaggio a cui doveva chiedere un favore e che lo ricevé con molta affabilità. Era costui un uomo a cui l'autorevolezza non impediva d'esser cordiale. Col bel volto rasato, largo, aperto e sorridente, stette ad ascoltare Giorgio e si dimostrò molto ben disposto verso di lui. Quando questi ebbe finito di parlare, l'autorevole uomo gli disse che l'avrebbe aiutato molto volentieri e si diffuse a parlare del caso di Giorgio e delle possibilità che aveva e che avrebbe sfruttato a vantaggio di lui. Mentre egli parlava con la massima gentilezza protendendo il bel faccione roseo, rasato, autorevole, Giorgio era molestato da un pensiero: «Se all'improvviso, senz'alcuna ragione, gli dessi uno schiaffo?»
Cosa terribile. Che figura avrebbe fatto! E quale sorpresa per l'autorevole personaggio che certo non se l'aspettava, tanto più che stava parlando affabilmente a Giorgio e gli assicurava il proprio appoggio. Per quanto Giorgio ci pensasse, non arrivava a figurarsi quello che sarebbe accaduto se egli avesse dato uno schiaffo all'autorevole personaggio. La maraviglia di questo, insieme con l'indignazione. Ne avrebbe avuto ben d'onde. Giorgio pensava anche : «Danneggerei me stesso.»
E pensava contro di sé : «Soprattutto mi farebbe male al cuore; non me lo perdonerei, se gli dessi uno schiaffo; è un galantuomo, una persona così gentile.»
Il personaggio, continuando a parlare cortesemente, guardava Giorgio negli occhi, e questi pensava: «Non immagina mai che in questo momento io penso a quello che avverrebbe se gli dessi uno schiaffo. E come potrebbe pensarlo? Sarebbe proprio un atto ingiustificato, assurdo. Ma pensare, se si potesse leggere nel pensiero!» E al pensiero che l'altro non gli poteva leggere nel pensiero, provava quasi una gioia maligna. Gli pareva di stare al riparo mentre fuori imperversava il temporale. Atteggiava più che mai il volto a una sincera espressione di rispettosa ascoltazione e più che mai pensava: Ciàc! Su quel bel faccione. Che catastrofe! Resterebbe sbalordito e indignato; correrebbero gli uscieri; forse sarei arrestato; o messo al manicomio; non potrei in nessun modo giustificare un atto simile, che nulla in realtà giustificherebbe. Sarei un mascalzone.
Un'ilarità interna gli solleticava lo stomaco mentre ascoltava compunto l'autorevole personaggio. Poi pensava: «Mascalzone che sono, anche senza dargli uno schiaffo. Mi sta promettendo appoggi e io penso a quel che avverrebbe se gli dessi uno schiaffo. Sono pensieri che non dovrebbero nemmeno venirmi». E quasi rabbrividendo: «Che pandemonio avverrebbe! E che figura! Vorrei esser sotterra». Poi, mentre l'altro lo guardava negli occhi con occhi benevoli e del tutto ignari: Ciàc!, su quel bel faccione. Non t'immagini nemmeno lontanamente quello che mi passa per la testa. Basterebbe un piccolo gesto. Il faccione è a portata di mano. Ciàc! e il disastro. Non dipende che da me il non farlo. È un atto gravissimo e semplicissimo di cui l'evitarlo non dipende che dall'esile filo della mia volontà. E il farlo altrettanto: nessuno sforzo né fisico né di volontà; per farlo non mi occorrerebbe che compiere un piccolo moto della mano; con una spaventosa facilità creerei una situazione spaventosa per me. È un pericolo terribile. E se il filo della mia volontà, che mi trattiene e che potrei spezzare con un niente, si spezzasse? Non dipende che da me. Ciàc!
Ciàc! Ciàc!, rideva lo spiritello maligno nello stomaco.
Il faccione sorrideva benevolo, florido, proprio lì, a pochi centimetri di distanza. Non dipende che da me. Sono alla mercè della mia volontà. Che disastro sarebbe! Ciàc!
Lo schiocco secco risuonò all'improvviso nel queto salone. Il faccione era rimasto senza fiato, boccheggiante, per un attimo. Poi si rovesciò gridando su Giorgio che era diventato un cencio e si guardava la mano terrorizzato.
Giorgio si lasciò malmenare e trascinar via dagli uscieri. Udì voci indignate che gridavano «mascalzone», «delinquente» e «pazzo». Non oppose la minima resistenza. Capiva benissimo d'aver torto marcio e avrebbe voluto sprofondar sotterra per la vergogna; specie agli occhi di quell'uomo così gentile e benevolo verso di lui. Per lui provava una pena acuta. Avrebbe voluto riacquistarne subito la stima e la benevolenza. Dirgli che sapeva di averlo colpito ingiustamente e che ne era pentito.
Quando lo interrogarono non seppe proprio giustificare l'atto. E in realtà non c'era nessuna giustificazione possibile. Anzi, egli avrebbe avuto tutte le ragioni per trattare col massimo riguardo una persona gentile che lo aiutava. Oltre tutto egli aveva danneggiato se stesso. E questa era la miglior difesa per lui. Nessun risentimento. Al contrario. Ma allora perché lo aveva fatto? Proprio per questo; perché sarebbe stato assurdo, addirittura spaventoso fare una cosa tanto grave e tanto fuori luogo. Non lo capivano. Lo credevano pazzo. Ma dentro di sé, pur ammettendo che aveva torto marcio, che aveva fatto una cosa ingiusta e gravissima senza ragione, Giorgio sapeva benissimo di non essere pazzo.
(Achille Campanile, da “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”, 1978, ed. tascabili BUR Rizzoli)

venerdì 13 maggio 2011

De architectura

Gli architetti sono persone strane: costruiscono cose che ti trovi davanti e che sei obbligato a vedere, e con le quali sei obbligato a convivere; ma non ti chiedono mai cosa ne pensi.
Se nonostante tutto dici cosa ne pensi, ti guardano come se fossi un cretino: non hai capito, non puoi capire, scuotono la testa e non ti degnano più di uno sguardo. Possono farlo, perché gli architetti – i Grandi Architetti – sono sempre vicini a chi ha i soldi e a chi detiene il potere. Ed è ovvio: se ci tieni tantissimo a costruire un grattacielo, chi vuoi che te li dia i soldi e i mezzi per farlo? Via, non scherziamo, con i soldi che ho io si farebbe fatica anche a costruire un pollaio.
Quando leggo le interviste con i Grandi Architetti mi diverto sempre molto: ormai mi sono rassegnato, mi aspetto che giustifichino qualsiasi cosa, anche che si costruisca nei letti dei fiumi, sugli argini, nei parchi nazionali, tutto, e quindi prendo la cosa con sommo divertimento (beh quasi...). E non importa chi sia il Grande Architetto, se sia di destra o di sinistra, giapponese o australiano, svizzero o iraniano, prima o poi, con maggiore o minore durezza, con maggiore o minore educazione, ci si arriva sempre: «i miei progetti sono magnifici, e voi non avete il diritto di contestarli». Si fanno le domande e poi si danno ragione da soli, gli architetti: forse è vero che architettura e dittatura viaggiano sempre insieme, come diceva non ricordo più chi; e non a caso gli architetti ammirano sempre moltissimo Speer e Terragni, architetti di regime come pochi altri.

Per esempio (ma sono solo gli ultimi due esempi che ho trovato, ce ne sarebbero a bizzeffe):
“Coop Himmelb(l)au”, nata nel 1968, sta edificando gli edifici più radicali del pianeta. «Siamo ancora dei rivoluzionari – dice uno dei fondatori, Wolf D. Prix – ma abbiamo imparato che non si può avere tutto e subito».
FANTASIA AL POTERE? NOI, INTANTO, LA COSTRUIAMO
(...) - Il Comune di Parigi ha dato uno storico via libera alla costruzione di grattacieli. E anche Roma sta rompendo il tabù. Lei è d'accordo?
«Il grattacielo è diventato una sorta di archetipo dell'architettura. Credo che in una città multifunzionale non vada escluso a priori nessun tipo di costruzione» (...)
- Cosa spera che pensino e sentano i fruitori delle sue opere?
«Spesso, nei nostri edifici, noi progettiamo aree che non sono pensate per uno scopo preciso. Sono aree comunitarie che saranno poi le persone a decidere se e come utilizzare. Non progettiamo personal living spaces. Vogliamo anzi che tutti possano fruire nel modo più libero possibile delle nostre opere, noi non vogliamo imporre soluzioni». (...)
(di d.castellani perelli, il venerdì di repubblica 25.02.2011)
Insomma, si fanno le domande e si danno ragione da soli... Magari chiedono “cosa ne pensi” alle persone che frequentano, e così un giornalista, quattro ristoranti e due vetrine diventano “cosa ne pensa la gente”. Eppure le domande da porre sarebbero molte: per esempio, è possibile continuare a costruire grattacieli dopo Fukushima? Il terremoto in Giappone ha messo in crisi sia l’energia idroelettrica che quella nucleare, e i grattacieli richiedono moltissima energia elettrica per funzionare. E, inoltre, i grattacieli significano parcheggi, automobili, fognature, depuratori, acqua potabile, non mi sembra che si tenga davvero conto di tutto questo quando si dice “Il grattacielo è diventato una sorta di archetipo dell'architettura. Credo che in una città multifunzionale non vada escluso a priori nessun tipo di costruzione”.

Gli architetti (“archistar”) quando rispondono (se rispondono) dicono che usano le nuove tecnologie, e quindi il loro grattacielo è “ecologico”. Apriti cielo. Quante cave sono state svuotate per costruire un grattacielo? Basterebbe questa domanda per far drizzare i peli su per la schiena... Chiedo scusa per lo sfogo, ma questa è proprio l’arroganza inarrivabile dei potenti e dei fighetti, arroganza perché loro fanno quello che vogliono, e se uno di noi prova ad alzare un sopracciglio viene subito bollato a fuoco. Figuriamoci poi se si scrive, se si parla...
La domanda finale è però questa: ho messo in questo post un po’ di esempi di progetti effettivamente realizzati e mi chiedo se ci sia un senso in queste costruzioni, al di là del fatto puramente estetico. Come si vive in questi edifici? Cosa ne pensano le persone che ci vivono e ci lavorano? Quanto costa la manutenzione di queste strutture?
Per spiegarmi meglio: una volta sono andato con mia zia nel Palazzo della Pilotta, a Parma, e mia zia ha osservato che, con lo spessore di quelle mura, sul davanzale di una finestra della Pilotta ci poteva stare tutto il suo locale da bagno, vasca compresa. Ed era vero, i muri della Pilotta sono spessi anche due o tre metri: la Pilotta era una fortezza, e le mura dovevano reggere alle cannonate. Ecco dunque giustificata la spesa enorme e la grande fatica di costruire mura così spesse.
Si può dire la stessa cosa della casa a forma di binocolo costruita da Gehry, o dei grattacieli elegantemente curvi che sorgeranno a Milano? E’ funzionale per i musicisti lo scempio che è stato fatto da Botta dei palazzi dietro la facciata della Scala, a Milano? E che dire del quartiere ZEN a Palermo, di Punta Perotti a Bari, dei mostruosi edifici a Roma e a Napoli, tutte opere che portano firme importanti? Mah: io non ho mai trovato nessuna risposta a queste domande, sui giornali e in tv c’è spazio solo i politici e gli “archistar” che si dicono bravi da soli.
(nelle immagini ho messo soltanto costruzioni di Frank Gehry, ma avrei potuto tranquillamente estendere il lavoro a chiunque altro. Le fotografie vengono quasi tutte da varie riviste degli anni passati, soprattutto L'Espresso degli anni '90). (La casa a binocolo è a Venice, California).

mercoledì 11 maggio 2011

Sempé

«L'ironia non deve mai trasformarsi in cattiveria. Un vignettista non deve infierire né prendersi troppo sul serio, pensando d'essere migliore degli altri. Al contrario, deve essere dotato di una certa autoironia. Nei miei disegni evito di fare la morale, preferisco far sorridere con leggerezza, una qualità che però domanda moltissimo lavoro. In fondo, mi sento come un trapezista che si allena per ore per poi volteggiare nell'aria per un brevissimo istante».  Per questo ricomincia le sue illustrazioni infinite volte, senza mai esserne pienamente soddisfatto, sebbene oggi sia più indulgente con se stesso di quanto non lo sia stato in passato:  «In fondo, cerco sempre la perfezione, anche se non so mai bene cosa sia».
Per ottenere un buon disegno occorre naturalmente saper osservare la società, cogliendone i dettagli che ne rivelano le debolezze e le contraddizioni, le incongruenze e le stranezze. E Sempé, seppure abbia spesso dichiarato d'essere poco interessato alla realtà, sa osservare benissimo il mondo che lo circonda.  « Se disegno una strada, non mi metto certo a disegnare cavalli e carrozze, ma automobili e camion. E così che la realtà entra nei miei disegni, benché sempre filtrata dal mio punto di vista», spiega, ricordando che la società contemporanea gli sembra «molto più dura, più violenta, più rapida, ma anche molto più monotona», di quella della sua giovinezza.  «Oggi tutto tende all'uniformità, tutto si assomiglia, quindi per un disegnatore è meno divertente rappresentare il reale. Ecco perché cerco di metterne in luce gli aspetti più buffi o stravaganti», conclude l'autore del Segreto di Monsieur Taburin, che, «di fronte ai grandi maestri del passato», considera un suo dovere restare «necessariamente umile».
E mentre ci saluta, accendendosi l'ennesima sigaretta, si lascia andare a un'ultima confidenza: «Sono sempre stupito dalla caparbietà degli uomini che cercano in ogni situazione di crearsi almeno un pezzetto di felicità. Che per me, poi, ha sempre qualcosa a che fare con la poesia».
(da un'intervista con Jean Jacques Sempé, La Repubblica 27 marzo 2011, f.gambaro)

(a casa mia avevamo una Dyane 6, non una 2CV, ma a questo disegno sono ugualmente molto affezionato perché i colori li ha messi uno dei miei nipotini, non dico quale) (Qui, Quo, Qua? ah, saperlo...)  (i marziani di Sempé vengono da un numero del mensile Linus degli anni '70; la buona notizia è che l'editore Donzelli sta ristampando tutti i libri di Sempé)

martedì 10 maggio 2011

De Chirico e il razionalismo

Mi piaceva molto De Chirico, e devo dire che lo ammiro molto anche adesso, ma davanti a quelle sue piazze vuote oggi sento crescere dentro di me uno strano malessere.
Le piazze vuote disegnate da Giorgio De Chirico (1888-1978), abitate solo da manichini di legno, sono quelle dei sogni. Nei nostri sogni notturni capita spesso di vedere piazze così, locali così, posti abitati da ombre oppure deserti, con luci innaturali, passanti misteriosi che non si fermano e camminano via rasente ai muri, senza mai sostare o sedersi. E’ dunque la rappresentazione di un sogno, il mondo di De Chirico: siamo vicinissimi al surrealismo. Nella realtà quotidiana, la cosa più vicina a un quadro di De Chirico, fino a pochi anni fa, era camminare in una delle nostre piazze all’alba, o magari nel primo pomeriggio in un giorno d’estate; altrimenti, le nostre piazze erano sempre piene di gente, e a me piaceva che le piazze fossero piene di gente.
Mai e poi mai avrei pensato che qualcuno avrebbe preso le piazze vuote di De Chirico e le avesse progettate e costruite sul serio. Le piazze senza gente di De Chirico sono belle solo nei quadri e nei rendering degli architetti: trasportate nel mondo vero producono città inabitabili, cimiteriali, abitate da gente frettolosa, spaesata, impaurita.
L’altro modello degli attuali governatori del nostro vivere quotidiano sono i marmi bianchi e funerei del Razionalismo, presi a modello soprattutto dagli studi del comasco Terragni. Il risultato sono luoghi come la piazza davanti alla Stazione Centrale di Milano: dove prima c’era un gran casino ma tutto sommato si stava meglio. Sono sparite le edicole, i bar, persino le fontanelle d’acqua se avevi sete, quelle che bastava premere una levetta e veniva su uno spruzzo fresco e gentile, ottimo anche per fare scherzi agli amici quando hai sedici anni e cominci a scoprire il mondo, partendo dalle Stazioni. Adesso bisogna pagare tutto, nelle Stazioni: anche l’acqua da bere, sissignore. Anche se ti scappa la pipì, bisogna avere le monete da un euro in tasca altrimenti sono guai (ai bambini scappa sempre la pipì, nelle Stazioni: fonte sicura di guadagno, quindi; quattro bambini quattro euro, e se la fanno sul posto ancora meglio, scatta la multa per i genitori e l’introito decuplica). Lo stesso criterio l’ho visto adottare a Como, e in altre città: il modello dominante oggi è quello, marmi bianchi, autobloccanti ovunque, fontane di metallo, via le edicole, via le panchine, via tutto, il mondo come un’enorme rendering, e al posto di noi umani tanti omini del Lego, che non sporcano e non rompono e non delinquono.
La Stazione Centrale al suo interno è diventata un enorme centro commerciale: la biglietteria è stata collocata in fondo in fondo, per arrivarci bisogna fare una bella camminata (provare per credere). Anche l’accesso ai treni è stato modificato: prima bastava salire la scala mobile, adesso devi fare un giro tortuoso che ti fa passare davanti a negozi e vetrine – ma beni di lusso, perché la Stazione Centrale non è mica un posto per gente qualsiasi e bisogna selezionare bene i clienti. Perché di clienti si tratta, e non più di viaggiatori: e gente che spenda, mi raccomando, e non straccioni con pochi soldi in tasca.
La Stazione Centrale, al suo esterno, è diventata una piazza di De Chirico: marmi ovunque, vuoto infinito davanti a te e in ogni dove, se provi a sederti il vicesindaco De Corato (De Corato, non De Chirico) prima ti multa e poi fa annaffiare i marmi, così se ti siedi ti bagni. E se hai preso una storta? Se sei anziano e hai bisogno di riposare cinque minuti? Se sei una mamma con dei bambini e hai bisogno di sederti un attimo per sistemare qualcosa che quei discoli ti hanno combinato? E se vuoi mangiare un gelato passeggiando?
Chi se ne frega, questa è una piazza del Razionalismo, marmi bianchi, spettrale e irreale come i palazzi dell’Eur; mica ci si siede e si fa schiamazzo, mica si mangia il gelato con la morosa, al Monumentale. Questa è una piazza di De Chirico, costruita su misura per i manichini: cosa ci fate qui, voi esseri umani?

(nella foto qui sopra, presa da La Repubblica edizione milanese del 6 maggio 2011, gli addetti dell’Amsa mentre bagnano i marmi davanti alla Stazione Centrale di Milano) (il primo dipinto di De Chirico ha per titolo “Malinconia”, il secondo è "Piazza d'Italia", del terzo qui sotto non so più il nome ma quello lì in mezzo potrebbe anche essere il Pirellone, nell'immaginazione di chi innaffia le piazze tutto è possibile)

lunedì 9 maggio 2011

Scuola di giornalismo

E’ il giorno dopo la fine di Osama bin Laden, e mi ritrovo su un canale tv dove se ne parla. Mi fermo ad ascoltare perché Giulietto Chiesa sta dicendo alcune cose interessanti, o almeno così sembra. Chiesa finisce il suo intervento parlando dei dubbi sulla versione fornita dal Pentagono, e a questo punto la conduttrice dà la parola a Sallusti, direttore del “Giornale”. E Sallusti, come fa sempre, la butta sul personale: dice che Giulietto Chiesa, essendo stato per molti anni corrispondente da Mosca per L’Unità, non è attendibile perché “non si è accorto di niente di quello che succedeva in Unione Sovietica”.
Ora, non è così che si fa giornalismo. Non è così che si informa, intendo dire: anche nei temi a scuola, se vai fuori tema prendi brutti voti e poi ti bocciano. Che poi in questo modo si facciano soldi o si vendano tante copie, e si diventi famosi in tv, a me non interessa. Io guardo la tv e leggo i giornali per imparare le cose che non so, per cercare di capire quello che non ho capito, queste cose qui. L’argomento era Osama Bin Laden, e su Osama bin Laden bisognava continuare a parlare: altrimenti tanto vale andarsi a cercare una qualsiasi trasmissione sul calcio, così si può andare felicemente in vacca e amen, tanto cosa vuoi che importi.

Questa storia di attaccare sul piano personale, invece di proseguire il discorso e di dare altre informazioni, è un’altra cosa che è stata introdotta dalle tv di Berlusconi. Il conflitto, l’essere “uno di qui e uno di là”, magari rende in termini di audience (non sempre), ma è una cosa che serve solo a far casino e impedisce di capire cosa succede. Una tattica precisa, insomma, che alla BBC o nella RAI degli anni ’60 e ’70 avrebbe portato alla decisione di non invitare più quel tale giornalista o commentatore. Non in diretta, quantomeno. E non perché sia scomodo o controcorrente (figuriamoci! Sallusti controcorrente non ce lo vedo proprio), ma proprio per il fatto di evitare di far confusione, di poter continuare seguire il filo del discorso.
Fin lì, da quel che ne ho capito, il dibattito era filato bene: Chiesa aveva esposto le ragioni dei dubbi sulla versione ufficiale, Sallusti aveva risposto difendendo la versione ufficiale e avrebbe potuto continuare a farlo, ma ha preferito tirar fuori la storia del terribile comunista mentitore.
Che dire? Giulietto Chiesa avrebbe potuto tranquillamente rispondere a Sallusti dicendo queste cose: che “Il Giornale” è il quotidiano del caso Boffo e delle mille bufale inventate da Vittorio Feltri (più volte sospeso dall’Ordine dei Giornalisti proprio per queste sue bufale e calunnie), e che – soprattutto – il signor Sallusti sta scrivendo da una ventina d’anni dell’Italia di oggi e “non si è accorto di niente di quello che succedeva in Unione Sovietica”, pardon: non si è accorto di niente di quello che succede nell’Italia dei Bossi e dei Berlusconi, e continua a diffondere veleni e veline, come se niente fosse.
Giulietto Chiesa è un signore, ha evitato di entrare nei dettagli. Gli si possono rimproverare tante cose, può ben darsi: ma la risposta che ha dato è stata questa: «Sono un grande amico di Mikhail Gorbaciov”. Come risposta, tra persone istruite, dovrebbe bastare.

Potrei però concludere in un altro modo, e cioè ricordando un giornalista vero, che ho visto al lavoro l’altra sera su Rai Storia (canale del digitale terrestre: qui in Lombardia è sul 54) mentre intervistava uno dei capi di Scientology. L’intervista era degli anni ’80, e al capo di Scientology a Milano, con voce pacata e voltando le spalle alla telecamera (l’importante era che fosse ben visibile l’intervistato, non l’intervistatore) Enzo Biagi chiedeva: «Quale è lo scopo della vostra organizzazione? E’ vero che voi chiedete molti soldi a chi entra nelle vostre organizzazioni?». Enzo Biagi non c’è più, e se voglio vedere un grande giornalista, oggi come oggi, butto via Sallusti-Feltri-Belpietro senza pensarci due volte, e caso mai mi scelgo una donna: Milena Gabanelli, per esempio. Ecco, con Milena Gabanelli (o magari con Riccardo Iacona) si può davvero ricominciare a ragionare sul giornalismo.

domenica 8 maggio 2011

«Non leggo un libro da vent'anni»

Qualche settimana fa, quando ancora si parlava dei tagli all’Università (oggi dimenticati e passati in archivio, come sempre capita), ho letto un articolo sui ricercatori italiani all’estero. C’erano alcuni profili (con foto) che raccontavano la storia professionale di alcuni di loro. Ne ricopio qualcuno perché, ragionando in termini di curriculum vitae, mi sembrano storie esemplari: del perché mi abbia colpito proverò a ragionarci dopo. Chiedo scusa se non metto i cognomi (nell’articolo c’erano) ma non so se ai diretti interessati fa piacere essere nominati qui, non ho chiesto il loro parere e visto che non si tratta di persone famose mi sembra giusto stare alle regole.
ANNALISA B. (1973), dirigente di ricerca all'istituto di matematica del Cnr a Pavia. Ha vinto un super finanziamento europeo per sviluppare tecniche di analisi matematica che rendano il Cad (Computer-Aided Design) un vero strumento per la realizzazione di prototipi virtuali. Con il Cad si realizzano al computer progetti architettonici, ingegneristici e di ogni genere di manufatti (dalle automobili agli stent).   CINZIA R. (1980), Istituto Mario Negri di Bergamo. Nel 2010 ha vinto lo Young Investigator Award che la rivista "Stem Cells" riserva ai migliori lavori sulle cellule staminali, ovvero in uno dei settori della ricerca biomedica a maggior tasso di competizione, sul quale, in altri Paesi, vengono versati fiumi di denaro. L'articolo vincente dimostra che, nei topi, le staminali prese dal sangue del cordone ombelicale riparano i danni al rene causati da un comune antitumorale, il cisplatino. Se lo stesso accade nell'uomo, le staminali potrebbero aiutare i malati di insufficienza renale causata da farmaci.    MARTA B. (1976), ricercatrice dell'istituto Nazionale di Astrofisica all'Osservatorio Astronomico di Cagliari. Si è aggiudicata lo Young Scientists Prize in Astrophysics della International Union of Pure and Applied Physics. La scoperta premiata è stata la più citata nel 2004 nelle scienze dello spazio: la prima coppia di pulsar, ovvero stelle pulsanti in rapidissima rotazione, un perfetto laboratorio cosmico per verificare la teoria della relatività generale.   ALESSANDRO B. (1976), ricercatore dell'istituto Nazionale di Astrofisica all'Osservatorio Astronomico di Torino. Ha vinto l'edizione 2009 del prestigioso premio internazionale JOSO, assegnato ogni due anni al miglior fisico solare under 35 del mondo. Con i suoi studi ha aperto nuove ipotesi sulle tempeste solari.
(profili tratti da L’Espresso 3 marzo 2011)
Mi sono chiesto: quante persone, tra quelle che conosco, sarebbero in grado di capire cosa c’è scritto in questi profili professionali? La domanda non è affatto banale, né inutile: quando andiamo a votare, quando c’è da decidere, è di queste cose che stiamo parlando. Si vuole discutere di nucleare e di genetica, del nostro rapporto con l’ambiente e di energie alternative, o di riforma della scuola e della sanità, senza capirci niente? Purtroppo sì, purtroppo così funziona. Non era così fino a qualche anno fa, i vecchi politici almeno un minimo di decenza la avevano: tutto questo è potuto succedere soprattutto grazie alla disinformazione operata dalle tv commerciali, all’inizio, e poi confluita ovunque, nella scuola e nel mondo del lavoro ma anche nelle nostre famiglie.  Vorrei soffermarmi in particolare sugli ultimi due profili: si parla di Astrofisica. E immagino la reazione di molti elettori: cazzate. L’astrofisica sono tutte cazzate: lo dicono ridendo, ma col telefonino in mano e magari con l’antenna satellitare e l’abbonamento a Sky. Lo dicono confortati e convinti, perché un loro ministro lo ha detto in tv, e un altro lo ha ribadito: la scienza e la cultura sono tutte cazzate. Pensano di essere molto furbi, per questo non capire; pensano che la cultura sia una cosa “da scuola”, quindi noiosa; e che il professore debba essere fatto fesso, l’unico pensiero è il brutto voto, si studia quel tanto e poi via. A cos’altro serve la scuola?
I furbi ridono contenti se il sapiente cade, credono che non essere esperti sia meglio che essere esperti, che il non politico sia meglio del politico, con i bei risultati che vediamo: fino agli ’80 l’Italia era una delle potenze economiche mondiali, oggi è meglio non parlarne. La crisi economica "viene da fuori": lo ripeteva anche ieri sera un ministro in tv (uno come Alfano, o magari Sacconi), ma non è mica vero. E' mancanza di idee, di cultura, di spirito di iniziativa. I nostri vecchi erano magari ignoranti, ma sapevano dare il giusto valore alla cultura: basti pensare ai fondatori della Rizzoli e della Mondadori, o ai piccoli imprenditori brianzoli degli anni '50 e '60. Senza la cultura e senza una vera preparazione tecnico-scientifica, non si va da nessuna parte: non come Paese, s'intende.

Insomma, se sai le cose, sei antipatico: come il primo della classe. E’ un sentimento molto naturale, ma col tempo, invecchiando, magari fin da bambino, lo si può contrastare. Vi fareste mai operare da un chirurgo che non sa? Affidereste la vostra automobile a un meccanico incompetente? Eppure, in Parlamento capita: capita che un’avvenente presentatrice televisiva discuta di Astrofisica, per l’appunto (l’on. Gabriella Carlucci, tanto per non fare nomi).
Siamo dunque dalle parti dell’invidia, un altro sentimento molto naturale ma che col tempo dovremmo imparare a riconoscere e controllare; a me dispiace molto di non sapere quasi nulla di questi argomenti, perché sono argomenti belli, anch’io provo invidia per chi ne sa più di me (magari non per mia colpa), ma poi anche se il medico è antipatico ma mi dà la cura giusta, mica mi lamento. Per molti invece (compreso l’attuale ministro per l’Economia, Giulio Tremonti, che l’ha dichiarato più volte pubblicamente) i libri da leggere sono cose astruse e noiose, ed è roba da deficienti perderci tempo.
L’esempio tipico per contrastare questi ragionamenti è quello dell’entomologo che studia le formiche: per i Tremonti e i Bossi è un deficiente, ma si tratta di un deficiente che magari scopre un antibiotico che salva la vita di tuo figlio o di tua sorella. Ho letto con raccapriccio, anche su giornali importanti, definizioni di Linneo (uno dei fondatori della cultura scientifica odierna) come se fosse uno spostato, e non a caso piace la foto di Einstein che fa la linguaccia: ma è una foto di Einstein a settant’anni, Einstein si era fatto un mazzo così studiando tanto, quando ne aveva venti.

Poi succedono cose come questa: che (oggi come nel 1986, è solo un esempio a caso) la cronaca ti costringe a parlare dei nano curie. I nano curie suscitarono ilarità, anche nei giornalisti e nei commentatori più anziani; si evocarono Dotto e Brontolo, eppure c’era di mezzo Chernobyl. A scuola, ricordo che l’ilarità durò meno di tre minuti: i nanometri, le lunghezze d’onda, il professore ci disse che erano nomi strani ma che si trattava di terminologia internazionale, e la cosa finì lì. Noi avevamo 16-17 anni, qualche scemenza poteva anche scappare; invece gli autorevoli commentatori continuarono a ridere dei “nanetti curie” per mesi, e forse qualcuno continua a farlo ancora oggi.
Ho incontrato spesso nella mia vita persone che pensano che se leggi un libro o se ti informi è solo perché vuoi far pesare la tua presunta superiorità, ti vuoi mettere sopra agli altri. Insomma, se hai letto quel tal libro o se hai visto quel tal film, non è successo perché ti piaceva o ti interessava (cosa per loro inconcepibile) ma è stato solo perché volevi far pesare sugli altri il fatto che loro non l’avessero letto o visto. “Vuol fare l’intellettuale”, ti dicono; e tu rimani lì come un baccalà, non è mica un insulto ma cosa puoi ribattere.


La cultura, insomma, è collegata soltanto alla scuola. I libri si leggono a scuola, si conoscono Dante e Manzoni “perché li ho studiati a scuola”, tutto ciò che è libro o cultura è collegato alla scuola, cioè all’obbligo di studiare per prendere la sufficienza. Tutto quello che viene in più è considerato un perditempo da idioti: una mentalità da sempre diffusa, e ben nota. La differenza con il passato è questa: che oggi queste persone sono ministri, sindaci, giornalisti, direttori artistici alla Rai.