domenica 26 luglio 2020

Oltre il muro

Il primo post di questo blog, del 9 ottobre 2009,
era dedicato a Delio Tessa.
Lo riporto qui come chiusura, De là del mur...

Voeurom on coo de gatt
per podé liberass
di penser...andà in oca,
voeurom desmentegass
del Roveda, di Edison
che tracolla... la gent
balenga, i scagg de guerra
tutto òo lassaa de là.
(vogliamo aver la testa come un gatto, per poterci liberare dai pensieri...andare in oca. Vogliamo dimenticarci del Roveda, dell’Edison che tracolla... la gente balenga, le paure della guerra, tutto lasciar di là) (scagg si pronuncia con le g dolci, è il plurale di "scaggia", paura, una parola che oggi usano ormai in pochi)
Una mattina di un giorno di festa, nel 1913, l’avvocato milanese Delio Tessa prende la sua bicicletta nuova e va a fare un giro, un giro piuttosto lungo che lo porta all’estremo nord della provincia di Milano, che più o meno corrisponde all’estremo sud dei miei giri personali in bicicletta (non sono mai stato un gran ciclista).
A un certo punto, Tessa si trova davanti a un gran muro, che riconosce: è il muro dell’allora manicomio di Milano, il proverbiale Mombello, vicino a Limbiate. E, di là del muro, cantano. E’ una sorpresa inaspettata: «al de là del mur, cantàven...»

Da quel giro in bicicletta nasce “De là del mur”, poesia scritta nel 1913 e rielaborata (o, meglio, completata) molti anni dopo, nel 1931. Le riflessioni di Tessa sono molto belle e molto profonde, ma non posso riportarle qui per esteso, la poesia completa è troppo lunga, ed è in dialetto milanese: per chi volesse leggerla per intero, rimando ai due volumi pubblicati una decina d’anni fa da Einaudi a cura di Dante Isella.
Foeura de Porta Volta
de paes en paes
a la longa di sces
pedalavi in la molta
de la Comasina vuna
de sti mattinn passaa:
me seri dessedaa
con tant de grinta, in luna
sbiessa e in setton sul lett
pensavi: «cossa femm
incoeu?...l’è festa... andemm...
(fuori di Porta Volta, di paese in paese, lungo le siepi, pedalavo nel fango della Comasina, una di queste mattine passate. Mi ero svegliato col broncio, con la luna a rovescio, e seduto sul letto pensavo: cosa facciamo oggi? andiamo, via, fuori da queste federe!)
“Di là del muro cantavano”: canzoni semplici, rime e filastrocche popolari, ma cantavano. E c’era una grande serenità.

Allora i matti facevano paura, il manicomio era ancora quello ottocentesco, non solo Basaglia ma anche Freud e Jung erano figure ancora lontane, che cominciavano appena a farsi conoscere. Il manicomio incuteva terrore solo a nominarlo, ma ecco che davanti a quel muro spaventoso il poeta Delio Tessa sente nascere quasi un’invidia per quella condizione, vorrebbe anche lui “avere un coo de gatt”, la testa (cioè i pensieri) di un gatto, ignorare gli scandali finanziari dell’epoca (il Roveda, l’Edison), dimenticarsi della possibilità di una guerra devastante, e anche della “gente balenga” che sembra approvare guerre e violenze. Ma tutto questo non è possibile, rimonta sulla bicicletta e inizia il percorso verso casa, verso Milano. L’arrivo nella grande città è annunciato dalle locandine dei cinema: danno un film western, “Trader Horn”.
Il milanese era la lingua materna dell’avucàtt, che era persona di grande e raffinata cultura: ma allora il dialetto lo parlavano tutti, ed era ancora una lingua viva. Delio Tessa è uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, la sua scrittura deve molto alla grande musica, ed è un peccato che siano ormai in pochi a conoscerlo.
E’ un peccato, soprattutto, che chi oggi si erge a paladino del ritorno dei dialetti ne ignori completamente il nome. Ma ignorare i nomi dei grandi è una caratteristica di questi nostri strani tempi: e pensare che Milano, il dialetto milanese e quello di area padana, sono stati di recente insigniti del maggiore premio letterario a livello mondiale: il Premio Nobel.

Grief in my soul


Quando l'amico Larry Beckett scrive il testo di "Grief in my soul", pensando forse a un blues classico, Tim Buckley non trova di meglio che cantarlo in maniera allegra, e così doveva essere, anche perché i due (era il 1966, più o meno) erano così giovani che andavano ancora a scuola.
qui per l'ascolto

Grief In My Soul
(Larry Beckett - Tim Buckley)
I've got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got heartaches, I got stingin' water fallin' out of the sky.
I got a long lost lover, got a reason to die.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got sorrow.
I'm in a storm that'll spare no travelin' man.
I fear tomorrow.
Got a love that died long before it began.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
Got a cold chain.
I got rain fallin' on my head from above.
I got a bad pain.
I got a gal don't know the meaning of love.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.
I got heartaches, I got stingin' water fallin' out of the sky.
I got a long lost lover, got a reason to die.
I got ten thousand troubles, a million woes.
I got grief in my soul nobody knows.

sabato 25 luglio 2020

Certe cose si pagano


«Quello lì è un rabbino», mi dice M. con una smorfia: e intende dire che è tirchio. Le lascio finire la frase, poi le chiedo per favore di non usare più quella parola in quel senso. Mi risponde stupita e anche un po' irritata, "ma se lo dicono tutti!". Io le rispondo che non l'avevo mai sentita usare in quel modo, e che so da tempo che un rabbino è di regola una persona di grande cultura, quantomeno in ambito religioso. Un altro ricordo recente: qui su questo blog hanno avuto un discreto successo, che dura da ormai più di dieci anni, i miei post sul "piccolo chimico", cioè la spiegazione, o il tentativo di farlo, di cosa contengono i prodotti che usiamo ogni giorno, dal cibo al detersivo. Tutto bene sul blog, dunque, ma quando ho provato a raccontare qualcosa (ma poco, sia ben chiaro) a un parente di mio cognato, incontrato al supermercato, quello mi ha guardato con aria spaventata e poi le volte successive è svicolato via vedendomi da lontano. L'espressione era proprio quella: "questo pazzo mi sta attaccando un bottone terrificante, dove posso fuggire?". A parte la questione delle simpatie personali (liberissimo di non trovarmi simpatico), era proprio l'argomento a dar fastidio: la composizione degli alimenti. Mettersi a ragionare di chimica e di alimentazione, quando al mondo esistono la formula uno, l'Inter, le canzoni di Claudio Baglioni, Valentino Rossi e Vasco Rossi? Suvvia, solo un pazzo potrebbe farlo. 
Anche un altro dei miei argomenti su questo blog, "l'entomologo-storie naturali", continua ad avere un discreto numero di lettori (soprattutto quelli sulle effimere e sul cervo volante, per chi fosse curioso) ma nella mia vita quotidiana mi tocca da sempre ascoltare aggressioni più o meno isteriche sul ribrezzo per le lucertole e per qualsivoglia altro animale che troviamo in casa, e mi guardano appunto come se solo un pazzo potesse interessarsi queste cose, come se non fossero mai esistiti Fleming, Pasteur, Lorenz, Linneo, gli scopritori della malaria e della penicillina e dei vaccini, queste cosette qui insomma, pazzi che invece di andare a ballare al Tana o a prendere il sole a Rimini studiavano muffe, zanzare, zecche, e quant'altro. Un altro dei miei argomenti preferiti, Charles Darwin e i suoi viaggi e le sue osservazioni, incontra sempre lo stesso muro - non mi ci sono mai rassegnato, ma il muro alzato ogni volta dall'ignoranza sul DNA e su Darwin è mostruoso e temo inespugnabile. Abbiamo gli ogm e l'analisi del DNA è ormai cosa comune, ma quando fai il nome di Darwin spuntano i risolini dei furbi che sanno tutto di tutto: "c'è tutto on line" è stata l'ultima risposta, e qui ho smesso di importunare il prossimo con i miei libri.
Sono solo alcuni esempi di una vasta "crosta" più o meno sotterranea che ho incontrato da sempre, e che ho sempre trovato molto ruvida e molto dura da constatare. Insomma, è come l'asfalto quando vai in bicicletta: sai che c'è, sai che fa male, ma prima o poi è inevitabile caderci sopra.
Quando ho provato a fare questi discorsi, mi hanno quasi sempre risposto "ognuno ha i suoi gusti, non possiamo essere tutti uguali" e che io devo essere più tollerante, come se la Storia dell'Arte e le bestemmie che sento salire dal bar fossero la stessa cosa, come se il quartetto d'archi che ascolto adesso potesse dare fastidio a chi ascolta il rap a diecimila watt di potenza qui sotto la finestra. E ancora: dirsi cristiani ma non leggere il Vangelo, oppure leggere il Vangelo e non capirci nulla magari sapendolo a memoria, come Trump con la Bibbia o come i seguaci di monsignor Lefebvre; pensare che il buce mettesse in galera i criminali (non è vero, in galera metteva De Gasperi) e gridarlo scandendo le parole, dando per scontato che tutti i presenti siano d'accordo. In campo musicale, trovare una ragazza che ti piace, ma poi viene a sapere che sei uno "che gli piace la lirica", che brutta cosa; conoscere e riconoscere il Don Giovanni (compreso il vero significato della parola) e il Rigoletto, e rendersi per questo antipatico; ti guardano come se fossi malato, indegno, peccato, un così bel ragazzo però gli piace Beethoven.
Nel calcio, nei rutti, nel razzismo, nel qualunquismo del "sono tutti uguali", nei bar e nelle discoteche (dove sono finiti i bar di Guccini e di Nanni Svampa? i bar di oggi sono molto differenti), nella movida e nel rumore (io non reggo il rumore), avrei avuto una vita molto più facile se fossi stato così. Un'altra ragazza, che abitava non distante da Maranello, continuava a portare il discorso sulla Ferrari, ma a me non interessa la formula uno e lo sapeva da subito, ma se non ti interessa la formula uno sei strano e quindi ci tornava sopra spesso. Potrei andare avanti per ore, ma non è questo il discorso che mi interessa fare e poi si tratta di piccole cose che si potevano superare (non sempre).
Il discorso che mi interessa fare è questo: ogni tanto leggo l'elogio dei libri, amici blogger ne scrivono, ma anche i libri sono visti male. Leggi tanti libri, hai tanti libri in casa e tanti dischi, e prima o poi la dovrai pagare, soprattutto se non sono libri qualsiasi (magari Primo Levi, o Dostoevskij, o un libro di chimica) e capisci cosa c'è scritto e te ne ricordi.

Un ricordo d'obbligo, a questo proposito, è per Umberto Eco: non l'ho mai conosciuto di persona ma io ho cominciato a pubblicare su internet proprio sulla sua rivista, Golem, quasi vent'anni fa. Eco è stato un pioniere di internet, ne ha scritto molto e ci sono molti articoli e filmati dove ne parla; ne era entusiasta e ne immaginava gli sviluppi possibili con entusiasmo. Ma poi come è andata? Golem era una bella rivista, ben fatta, con collaboratori eccellenti (non io, che ero poco più che un clandestino a bordo - ringrazio la redazione per il passaggio), ma non esiste più da anni. Non si può più nemmeno fare come si faceva con le riviste, andare a cercarle sulle bancarelle o in biblioteca: il mensile Golem è stato proprio cancellato, annichilito, dimenticato. Dimenticato con tutti i suoi articoli e tutti i suoi collaboratori, come se non fosse mai esistito; internet è andato da un'altra parte, quella che vediamo oggi, e il computer (oggi lo smartphone) è diventato di tutto, tranne che quello che auspicava Umberto Eco. E' diventato ufficio (pagare le bollette, home banking, pagare i biglietti, fatturare, eccetera) ma soprattutto internet è diventato il regno della pubblicità, delle spiate, delle fake news, dell'odio e delle cazzate. Svanito il bel sogno di Umberto Eco? Direi proprio di sì, certe cose te le fanno pagare e se ami i libri non sei una persona normale. Golem, dispiace dirlo, è stato un esperimento fallito: troppa qualità, troppe informazioni, troppo umorismo "da intellettuali", meglio una birra con cui farsi due rutti, e poi postare il video su un canale di grande successo.
Per chiudere, una notizia dalla Svizzera di un paio d'anni fa: fu negata la cittadinanza locale a un serio professionista straniero, residente da decenni nel comune, perché "non partecipa alle feste di paese". E' una persona quieta, schiva, non solo non dà nessun fastidio ma paga le tasse in maniera cospicua: perché mai negargli la cittadinanza? Essere quieti e riservati, dunque, è un grave difetto, lo è anche il non bere birra all'Oktoberfest, il non amare i cantanti di Sanremo, il non sapere chi ha vinto in formula uno, eccetera eccetera.

PS: un altro modo per rendersi antipatici, nella mia vita, è stato questo: "abbiamo scelto apposta la domenica così va bene a tutti", mi dicono parlando di una festa, ma io la domenica lavoravo, c'è tanta gente che lavora di domenica, non è che lo si faccia apposta - ma poi sei bollato, non vai alle feste, stai per conto tuo, eccetera. Eh sì, certe cose te le fanno pagare: fin da quando, da bambino, me ne stavo in disparte per leggere un libro. Sono cose che non si fanno, non fatelo fare ai vostri figli.

venerdì 24 luglio 2020

El nost Milan


El nost Milàn
"El nost Milàn" di Carlo Bertolazzi è un altro dei grandi spettacoli del Piccolo Teatro, tra i più famosi e celebrati; mi chiedo se oggi sarebbe possibile rimetterlo in scena e direi proprio di no, ma mi auguro di sbagliarmi. Rimetterlo in scena, intendo, non in una qualche maniera più o meno raffazzonata ma con quella perfezione e con quella forza: era uno spettacolo avvincente, con attori straordinari in ogni ruolo, anche il più piccolo e apparentemente insignificante.
Carlo Bertolazzi, nato in provincia di Cremona, visse fra il 1870 e il 1916; giovanissimo, a 23 anni, scrive "El nost Milàn" (La nostra Milano) che ha subito grande successo. Il testo è diviso in due parti, "La povera gent" e "I sciôri"; Strehler mise in scena solo la prima parte, dove una ragazza (Nina) è innamorata del clown di un circo, ma poi cede al Togasso, un mezzo delinquente, un duro insomma. Con il Togasso le cose non andranno bene, e per salvarla dovrà intervenire il padre di lei, Peppòn, in un finale molto drammatico.
Rileggendo il testo mi sono accorto di aver dimenticato molte cose, troppe, di questo spettacolo; oltretutto, non è disponibile neppure una registrazione in video e questo è un vero peccato. Di "El nost Milàn", come a tutti credo, mi sono rimasti nella memoria soprattutto Tino Carraro, che in scena era un titano, e Mariangela Melato. Tino Carraro aveva interpretato il Togasso nelle recite degli anni '50, e in questo nuovo allestimento aveva invece la parte del padre; il Togasso era affidato a Franco Graziosi, un altro grande attore, fedelissimo di Strehler e del Piccolo Teatro. Mariangela Melato non era soltanto brava (questo me lo aspettavo), era anche molto bella e Strehler sottolineava con sapienza con le luci e le ombre la sua figura, difficile dimenticarsela. Avrei rivisto e riascoltato Mariangela Melato qualche anno dopo, senza Strehler, in una (per me) deludentissima Medea; dimostrazione di quanto conti il regista in uno spettacolo.
"El nost Milàn" fa parte del percorso sui dialetti, e sulle lingue, fatto da Giorgio Strehler: comprende il teatro di Goldoni (Il campiello, Le baruffe chiozzotte), e un po' tutte le sue lingue madri o di adozione, dal tedesco al veneziano (Strehler era triestino di nascita), dal francese (memorabile il suo Corneille, "L'illusion comique") al milanese imparato in via Rovello, sede del Piccolo Teatro.
"El nost Milàn" andò in scena al Teatro Lirico, vicino al Duomo, che purtroppo è chiuso da un'eternità. Io ero presente il 3 febbraio 1980, e oltre alla bellezza dello spettacolo ricordo ancora una ragazza che era seduta vicina a me, con la quale ho fatto una lunghissima chiacchierata. Poi ci siamo persi di vista, la persona che l'aveva portata a teatro (un parente, penso fosse lo zio) se la portò via di corsa. Non era ancora il tempo dei telefonini e degli smartphone, insomma; e chissà cosa sarebbe successo, di sicuro ci saremmo lasciati un contatto, si pensava che ci sarebbe stato tempo ma così non è andata.
Con "El nost Milàn" termina la mia fase "di apprendistato" sul teatro; ero già stato alla Scala, per il "Boris Godunov" di Mussorgskij diretto da Claudio Abbado, e ormai sapevo muovermi per conto mio. Il mio interesse principale sarebbe diventata la musica, ma le chiavi del teatro ormai le avevo in mano, e sapevo come muovermi; ma solo da spettatore, sia ben chiaro.



martedì 21 luglio 2020

Super eroi


I fumetti della Marvel li trovavo dal barbiere: mi ci portava mio papà perché ero ancora piccolo, poi ho imparato ad andarci da solo e dovevo star lì anche se mi facevano aspettare un'ora, così mi ero fatto una cultura in merito. Erano nuovissimi, belli, colorati, disegnati bene, con trovate strane sul tipo del supereroe cieco che aveva un costume che usciva dall'anello, e altro ancora. Tutto bello, ma dopo un po' me ne ero stancato e mi sarei portato volentieri un libro da casa. Non è che ci fosse molto, in quei fumetti, dopo la trovata iniziale: anche i Fantastici Quattro, finita la sorpresa, rivelava poi trame appena passabili. L'impressione è che non sapessero più cosa fargli fare dopo i primi tre o quattro episodi, eppure andavano avanti e vanno avanti ancora oggi, con sequel, film, remakes dei remakes.
A casa mia circolavano altri fumetti, più vecchi o più recenti: tra i più vecchi, ristampati su qualche giornale recente come "Il Giorno dei Ragazzi" ricordo ancora L'ombra che cammina, cioè L'Uomo Mascherato, o magari Mandrake e Flash Gordon, roba degli anni '30. Erano fatti meglio, la sceneggiatura era migliore, le trame più belle, e anche i disegni mi piacevano molto di più. Sul Corriere dei Piccoli avrei poi trovato i primi episodi di Corto Maltese (Una ballata del mare salato) e prima ancora Hugo Pratt vi pubblicava riduzioni da Stevenson (Il ragazzo rapito). Insomma, tutta un'altra cosa; e con Hugo Pratt cominciavo a conoscere e a riconoscere Dino Battaglia e Sergio Toppi, e Mino Milani come sceneggiatore; tutto un mondo che mi si apriva davanti. Anni dopo, avrei cominciato a leggere Linus. Oggi quasi nessuno parla più di Battaglia, di Toppi, di Milani; si pubblicano i manga, in libreria trovo le graphic novel, li sfoglio un po' ma poi mi stanco e ritorno a pensare a me stesso bambino davanti ai fumetti Marvel, seduto dal barbiere in attesa del mio turno. Ricordo anche i fumetti Lancio Story: dopo averne letti un po' (io leggevo qualsiasi cosa) avevo imparato a lasciarli perdere, sembravano fotoromanzi.
I disegni erano e sono ancora belli, sono le storie che mi sembrano ripetitive e poco originali. Mi fa un po' impressione anche vedere ancora nuovi episodi di Tex, per esempio. Tex Willer viene pubblicato da settant'anni, cosa ci sarà ancora di nuovo? Ne sto guardando un disegno recente, e Tex non è più Tex, è diventato un mascellone con sospetti di culturismo e chissà cosa ci sarà ancora da raccontare, su Batman, su Tex, su Spiderman, sui Fantastici Quattro, su Dylan Dog e su Martin Mystere. A voi piacciono queste cose? Fate pure, io torno indietro di cent'anni e qualcosa, e apro ancora una volta le porte a Winsor Mc Cay e a Little Nemo. Sono sempre le stesse tavole, ma ogni volta c'è l'entusiasmo della prima volta che le ho viste. (sono sicuro che da qualche parte c'è ancora qualcuno così grande, è impossibile che non ci sia; il difficile sarà trovarlo, o trovarla, visto lo stato dell'editoria italiana).

sabato 18 luglio 2020

Disimparare


"Sto disimparando tutto quello che ho imparato", mi dice l'amico Bellini, un anno dopo aver cambiato lavoro. Si aspettava qualcosa di meglio, ma più che altro il nuovo posto di lavoro gli permetteva di fare meno chilometri e di stare più vicino alla famiglia. Ma il suo non è un caso isolato, è anzi un lamento molto comune: molti di noi si trovano a lavorare in ambienti che richiedono solo un lavoro meccanico e ripetitivo, spesso noioso e burocratico, che con la chimica ha poco a che fare.
E la verità pratica è forse proprio questa: che per lavorare in un'industria chimica aver studiato chimica non è affatto necessario. Spesso basta il buon senso, l'aver vicino un collega che ti dà le dritte giuste; a volte anche questo è superfluo, non necessario: basta una buona raccomandazione, e puoi anche andare in cima al mondo, saldo come una roccia, con tutta la tua ignoranza (quella di partenza e quella guadagnata sul campo). (A proposito, che la raccomandazione valga solo nei posti statali è un altro mito da sfatare: c'è dappertutto e funziona sempre.)
Molto utile è per esempio aver fatto l'idraulico, e averlo fatto bene: chi guarda un impianto chimico da fuori vedrà subito di quanti tubi e valvole e raccordi è fatto, e magari se ne spaventerà. E fondamentale è la caldaia, che produce vapore; i distratti lo scambiano per fumo, ma è acqua allo stato gassoso, cioè vapore. Siccome il vapore è caldo, serve a molti scopi: per evitare che i composti che gelano (cere, grassi) otturino le condutture, oppure per scaldare e pulire le autoclavi.
Ma nemmeno tutte queste cose sono sufficienti ad avere un buon posto di lavoro, o a far carriera. Non conta nemmeno l'impegno, a molti sembrerà assurdo ma invece è spesso così.
Sembrerà strano, ma non sono queste le cose che contano, nel lavoro: conta di più saper dire di sì al capo, per esempio. Tanto, il fesso che lavora anche per te, e magari correndo, lo si troverà sempre.

giovedì 16 luglio 2020

L'operaio stupido e il capo a piede libero


La Ditta distribuisce un libro a fumetti, con suggerimenti per evitare gli infortuni. E' un buon provvedimento, e mi complimento per l'idea; e siccome mi piacciono i fumetti gli do subito un'occhiata.
La veste grafica non è male, e i disegni sono simpatici e ben sceneggiati. Certo non è qui che si possono pretendere finezze, ma il livello è discreto. Soddisfatto del primo esame, e anche della legatura robusta, mi appoggio al muro e leggo con più attenzione.
Nel primo episodio (sono episodi di una pagina ciascuno) un operaio un po' distratto si versa addosso qualcosa. Morale: bisogna stare attenti. Nel secondo episodio, passa una bella ragazza e un operaio, che vuol dimostrare quanto è forte, prova a sollevare un peso eccessivo, rimediando un forte mal di schiena. Nel terzo episodio, un operaio decisamente stupido... Ma è tutto così questo libro? Vado avanti, e la musica non cambia; va avanti così fino alla fine, con operai stupidi o distratti che fanno errori che si potrebbero evitare: e così è la vita, in effetti.
Ma io chiudo il libro e vado a guardare le referenze: non conosco gli autori ma in copertina c'è anche l'approvazione dei sindacati, tutti e tre uniti come capita raramente di questi tempi. Non so bene se tutto questo è giusto, ma appoggio con delicatezza il libro su un tavolo e riprendo a lavorare, ma guardandomi intorno con attenzione. Chissà mai che non ci sia un operaio stupido anche qui nei dintorni, che potrei farne le spese in prima persona...

PS: Rileggo questo mio appunto dopo quasi vent'anni, e ripenso all'acciaieria Thyssen di Torino, alle sentenze su Porto Marghera, a Casale Monferrato e all'infinita serie di rimandi sulla lavorazione dell'amianto, alle discariche abusive in Lombardia (in Lombardia, tra Pavia e Cremona)... Anche in ferrovia, la colpa - si sa - è sempre del macchinista, o dell'addetto agli scambi. I capi la fanno sempre franca, anche questo si sa: se sono stupidi o impreparati, c'è sempre qualcuno che li protegge.


martedì 14 luglio 2020

Anidride solforosa


Ebbene sì, sono ancora nell'ufficio del Direttore, l'ultimo in fondo, in alto, nella palazzina degli uffici. Il Direttore dice che sto diventando noioso, che i miei colleghi non mi sopportano più, e che insomma, anche il mio capo merita più rispetto, che diamine.
Al fatto che il mio capo sia una brava persona, ma del tutto inesperta e incompetente non posso ovviamente accennare, in questa sede: soprattutto perché il Direttore lo sa benissimo, visto che è stata una sua scelta. Adesso si è fatto male uno dei miei colleghi e il Direttore è molto arrabbiato, soprattutto con me che ho osato obiettare qualcosa riguardo ai suoi provvedimenti (è per questo che sono qui).
- C'è un problema grosso con lo smaltimento dei campioni usati per le analisi, questo non lo può negare – dico allora al Direttore: che non può negare, perché lo sa benissimo. E' per questo che è successo l'incidente al mio collega, e non per altro: un vasetto di acido solforico abbandonato in mezzo ad altri innocui. Un vasetto che non doveva assolutamente essere lì, e che non doveva assolutamente essere un vasetto ma un contenitore più idoneo a un acido così concentrato e pericoloso: due gravi incurie, inconcepibili in un laboratorio e in una fabbrica bene organizzate.
E così, visto che non può farmi niente, il Direttore si sfoga dando l'incarico di organizzare bene lo smaltimento dei campioni al mio capo, che ovviamente non ne sa molto e non si fa ben consigliare.
Infatti, la maggior parte dei campioni viene spostata fuori, all'esterno e all'aperto, dentro a dei bei bidoni azzurri ben etichettati; ma l'acido dodecilbenzensolfonico, chissà perché, no. Lui, il prodotto dell'impianto di solfonazione, rimane dentro al laboratorio: va tenuto da parte, dentro ad un secchiello.
Ed ecco dunque Angelo che si volta verso di me col viso rosso, soprattutto sugli zigomi e intorno agli occhi, un eritema che mi allarma.
- Che cos'hai fatto, Angelo? – gli dico subito.
- Perché? – chiede lui, e va a vedersi allo specchio.
La soluzione è subito chiara: Angelo ha smaltito un vasetto di acido dodecilbenzensolfonico (è un detersivo, che neutralizzato e diluito serve per i lavapiatti e i lavapavimenti) vuotandolo nel secchiello appoggiato sul bancone. Naturalmente, per farlo ha dovuto aprire il secchiello: mica si può versare qualcosa dentro un secchio chiuso. E lì, in agguato, stava un gas: l'anidride solforosa, e forse anche solforica, a quel punto. Si sviluppa sempre qualcosa, dall'acido dodecilbenzensolfonico non neutralizzato. E' per questo che, in una ditta chimica ben organizzata, l'acido dodecilbenzensolfonico lo si tratta con una certa attenzione, anche se di per sé non è pericoloso come altri acidi: quanto meno, lo si mette sotto una cappa. L'anidride solforosa, e quella solforica, a contatto con l'acqua o anche solo con l'umidità, danno acido solforico e solforoso: è il principio ben noto al quale si deve la corrosione di tanti monumenti, per via delle piogge acide. Il marmo dei nostri palazzi antichi, e delle statue, è magari millenario e ha resistito benissimo al tempo fino alla nostra epoca, nella quale abbiamo bruciato più zolfo di quello che avremmo dovuto; e i risultati si vedono, anche sul Duomo di Milano.
E dunque anche il mio collega Angelo, come il David di Michelangelo e come gli angeli del Duomo, è particolarmente sensibile alla corrosione. Non sopporta l'aggressione degli acidi, e la sua pelle lo sta gridando con molta evidenza. Il secchiello finisce subito fuori dalla porta, lo portiamo fuori subito e lì resterà: fino al prossimo incidente o inconveniente, quanto meno. Nel qual caso, vedremo quale altre sorpresa ci riserverà quest’allegra combriccola che ci governa.

sabato 11 luglio 2020

L'ossido di etilene e la libido dei ratti


Arrivo un po' in ritardo, leggermente trafelato, in sala riunioni. La lezione sta per cominciare, e ovviamente i primi arrivati si sono già accaparrati i posti migliori: quelli in fondo e un po' defilati, come è giusto e naturale che sia.
Il Professore ha già iniziato la sua lezione, che fa parte di un "corso". Fare corsi è un po' diventata una moda, o forse una mania; spesso sono utili, e a volte indispensabili. Certo è, quantomeno, un tantino esagerato definire "corso" una lezione di un'ora, ma passi. Sono tutti contenti: non c'è bisogno di studiare, non ci sono esami alla fine e poi, soprattutto, si può riposare un'oretta. Sempre meglio che lavorare, insomma.
Comunque il Professore è un Professore vero, con tanto di laurea e cattedra universitaria: conosce bene la sua materia e si vede, difatti inizia subito con il riempire la lavagna di formule chimiche anche un po' complesse. Mi guardo intorno: c'è il Direttore e c'è un altro laureato, o forse due; ci siamo io e un altro diplomato; poi ci sono gli operai (terza media, se va bene: compresi i capiturno), e infine, proprio dietro di me, i due addetti dell'impresa spurgo pozzi neri.
Non c'è niente da ridere: primo, perché gli addetti allo spurgo pozzi neri servono, eccome, in questa società. Se si fermano loro, sorgono subito dei problemi; se invece si ferma il Direttore del Personale, tanto per fare un esempio, il mondo va avanti lo stesso, e forse va anche meglio. E poi, in una Ditta come questa, solo loro hanno le pompe e le attrezzature giuste per vuotare le vasche di contenimento e per bonificare i serbatoi: e quindi sono quasi sempre qui, e magari gli tocca di lavorare vicino a serbatoi o reattori pericolosi. Sono quindi i benvenuti, ed è bene che anche loro conoscano i pericoli cui vanno incontro.
Il professore pensa di contenersi, e di fare una lezione un po' all'acqua di rose; e invece dopo la prima formula chimica la platea è già andata in tilt, io compreso perché mi sono alzato alle cinque e ho un gran sonno. Forse il nostro conferenziere se ne accorge, e prova un po' ad alleggerire.
- E' cancerogeno l'ossido di etilene? Non si sa con certezza. Studi ne sono stati fatti, ma quello che si sa di certo è solo che l'ossido di etilene distrugge completamente i tessuti che tocca, e quindi non si può parlare di mutazioni...
Beh, un po' di attenzione l'ha ottenuta. Adesso è contento e si lancia, conscio della sua esperienza in situazioni simili.
- Ha effetti sulla libido l'ossido di etilene? Esperimenti condotti sui ratti parrebbero dimostrare di sì.
L'uditorio sorride, e si fanno battute sottovoce. La vita sessuale dei ratti è un argomento che si presta, e nascono anche delle domande, alle quali il Professore risponde contento.
Ma ormai l'ora di riposo è passata, il foglio bianco della lavagna è tutto coperto da disegni e da formule, ed è ora di andare. Il Direttore è molto contento, sorride soddisfatto e anche un po' orgoglioso.
- Bella lezione, Professore! Complimenti...
Anche il Professore è contento, e gli operai possono tornare a lavorare.

mercoledì 8 luglio 2020

Per un’applicazione corretta delle norme antinfortunistiche


Ieri mattina sono andato in banca, dopo mesi, e mi sono reso conto che con le nuove norme sul covid è peggio che entrare in ospedale (lo dico per esperienza diretta, entrare in un ospedale è davvero più semplice); a parte questo, mi ha colpito osservare, e non è la prima volta, che sulla scrivania c'erano due pacchi di carta da fotocopie sotto il monitor del computer. Non è la prima volta che mi capita di osservarlo, e ogni volta mi torna in mente come è cominciata quest'usanza, all'apparenza innocente. Io c'ero, dunque, e se avete un po' di pazienza posso raccontarlo.

La ditta dove lavoro è parte di una multinazionale che presta molta attenzione alla sicurezza e all'ambiente di lavoro. Perciò si fanno molti corsi, o magari brevi lezioni, su come funziona l'azienda, coinvolgendo tutto il personale: ed è di certo una bella cosa. E' per questo motivo che lunedì mattina ci troviamo convocati in sala mensa, ad ascoltare il medico di fabbrica che ci spiega come vanno utilizzati i terminali video, e soprattutto come vanno posizionati. L'informazione è esauriente e l'esposizione buona: come regolare la luce nei locali per evitare affaticamento visivo, e come posizionare il video e la tastiera per evitare problemi alla spina dorsale, artrosi cervicale, e via dicendo. Tutte cose che magari si sanno già, o alle quali magari si può arrivare con un po' di attenzione; ma è bello che vengano ripetute e soprattutto è bello che sia propria l'azienda dove lavori a promuovere queste iniziative.

Due giorni dopo, arrivo sul mio posto di lavoro e trovo tutto rivoluzionato: scrivanie spostate, armadi divelti dai loro posti e sovrapposti in maniera strana, eccetera. Il mio capo ha deciso che la disposizione dei banconi e delle scrivanie com'era prima non andava più bene, e ha deciso di cambiare. Fin qui nulla di male, ma io entro nel locale e non credo ai miei occhi: i terminali video sono stati collocati molto in basso (a 70 cm da terra, per l'esattezza), per arrivare a leggere quello che c'è scritto sullo schermo bisogna fare contorsioni impossibili, e in più il corpo del computer, quello che contiene l'hard disk, è stato posto lontano dallo schermo. Motivo di quest'ultima trovata? I cavi elettrici non sono abbastanza lunghi per supportare la nuova collocazione del video.
Non so se abbandonarmi alla rabbia o alla sconforto, o magari mettermi a ridere visto che il mio capo è anche membro delle commissioni sulla sicurezza all'interno della ditta. Che fare? Risolvo il problema in modo creativo: prendo una grossa scatola di cartone e la metto sotto il video del pc che devo usare. E' una cosa molto vistosa e non proprio comoda, io stesso faccio molta fatica a leggere i caratteri perché adesso lo schermo è molto alto: ma quanto meno si devono tenere le spalle diritte e bisogna alzare bene la testa. La mia soluzione viene molto criticata, e alla fine si trova una soluzione alternativa: il mio scatolone viene tolto, e al suo posto si mettono due pacchi di carta per fotocopie.
E' passato un anno, e la zona ufficio è ancora così; e nel frattempo il nostro medico di fabbrica ha completato il suo giro di istruzione sull'uso dei terminali, e sta per iniziarne un altro...

PS: sono passati vent'anni, il mio capo di allora è poi andata in giro a fare corsi e conferenze sulla sicurezza in fabbrica (magari l'avete anche incontrata), e i due pacchi di carta da fotocopie, come dicevo all'inizio, sono ormai diventati uno standard operativo.

lunedì 6 luglio 2020

Boiacca e Buricchio


La parola "buricchio" salta fuori da un quiz televisivo: bisogna indovinare cosa significa. Io indovino subito, perché mia nonna a Parma aveva un gatto che si chiamava così, ma con la maiuscola: Buricchio. Scoprire che "buricchio" è una parola che si trova sui dizionari un po' mi sconcerta, sarà vero? Sul mio Zingarelli, per esempio, non c'è. Provo a fare una ricerca on line, e su wikipedia trovo quel che cercavo: non c'è una voce a nome "buricchio", come mi aspettavo, ma trovo comunque un rimando a un libro per bambini che si chiama "Sussi e Biribissi", scritto da Paolo Lorenzini nel 1902. Paolo Lorenzini è figlio di Carlo Collodi, come a dire il fratello di Pinocchio (Collodi è uno pseudonimo, per chi non lo sapesse), e Buricchio è un gatto amico dei due protagonisti del libro. Forse è proprio da quel libro che mia nonna aveva preso il nome del gatto che dormiva sereno sul centrotavola della sua casa.
 

I dizionari, si sa, riservano molte sorprese: una volta sistemato Buricchio, devo dire che la sorpresa più grande per me è stata trovare la voce "boiacca" sullo Zingarelli. Non me l'aspettavo proprio, e dopo tanti anni non mi sono ancora ripreso. Ho sempre pensato che fosse una voce gergale, dialettale, e invece ecco cosa mi dice il dizionario: «Boiàcca (etimologia incerta): nell'edilizia, malta cementizia fluida usata durante la messa in opera di mattoni e piastrelle di rivestimento, per farli aderire tra i loro interstizi, al pavimento o alla parete.»
Che dire, ho avuto molti muratori in famiglia, boiacca è una parola che ho ascoltato spesso e dentro di me ero ben convinto che fosse una parola veneta, magari una storpiatura di termini tecnici come "calcedrà" (calcio idrato, la calce). Invece no, boiacca ha il suo posto nello Zingarelli e adesso che lo so ne sono ben contento, perché è una parola legata al mondo del lavoro e a persone che mi sono state care.

PS: il gattino è del 1902, ma non è Buricchio.