domenica 31 maggio 2020

Carosello

Quando si affronta la questione della pubblicità in tv la regola è porre una specie di aut-aut apocalittico: via tutta la pubblicità, oppure tutta pubblicità e senza regole. Ma questo è il modo sbagliato di porsi il problema (c'è anche chi non se lo pone affatto, il problema, e sguazza felice nella melma: ma se loro sono contenti così, noi altri poveri disgraziati mica dobbiamo seguirli come scemi, finché c'è vita c'è speranza di migliorare). Il modo giusto è dire che la pubblicità serve ed è importante, ma deve rispettare alcune regole; e la prima regola è che abbia degli spazi ben definiti, o meglio che resti dentro spazi ben definiti, da non travalicare. Il che mi riporta ai tempi di Carosello, cioè alla tv come l'ho conosciuta io, la Rai di prima dell'invasione delle tv commerciali.

Evocare Carosello è pericoloso perché parte subito una raffica di luoghi comuni da far spavento: "altri tempi, nostalgia, la durata degli spot", eccetera eccetera; ma almeno qui su questo mio blog posso fermare subito l'ondata di stupidaggini che tutti ripetono a palla, e provo a fare un discorso più ragionato. La tv devono farla i funzionari tv (e che siano ben preparati, persone colte e non raspausc), e i pubblicitari devono solo badare alla loro pubblicità. Tutto qui. Il problema, insomma, non è "pubblicità sì pubblicità no", ma usare un minimo di buon senso e di intelligenza.

Bruno Bozzetto, in un'intervista recente, ricorda quegli anni e dice che negli spot di carosello non si poteva dire il nome del prodotto: lo definisce come una cosa assurda, invece io trovo che sia stata un'idea geniale, Carosello non sarebbe stato così bello e non lo ricorderemmo ancora oggi se fosse stato puro e semplice spot. La pubblicità allora era in mano a dei veri "creativi", come Bozzetto, Pagot, Marcello Marchesi (chiedo scusa a chi mi sto dimenticando), e ancora oggi tutti si ricordano dei personaggi associati al prodotto, non solo i cartoons (molto divertenti) ma anche gli attori, Mimmo Craig, Virna Lisi, Ernesto Calindri, Cesare Polacco... Ai tempi di Carosello succedeva ogni tanto di dire "ma chi è quel cretino che se l'è inventata?". Allora succedeva ogni tanto di chiederselo, oggi succede ogni tanto di NON chiederselo. La soluzione vera, per tagliar corto, sarebbe dunque mandare via i cretini e tornare ad avere i creativi: è possibile? Direi di no, ogni volta che mi tocca guardare la pubblicità mi ritrovo sconfortato e depresso, compro certi prodotti solo perché li conosco, ma se fosse per gli spot ne farei subito a meno. Così si va verso il peggio, la gente si lamenta della qualità dei programmi ma poi non fa niente per migliorare le cose; la mia è solo una modesta proposta, rimettere (per legge) la pubblicità dentro gli appositi recinti. Tutto qui.

PS: raspausc è parola lombarda, le ultime tre lettere vanno pronunciate ush, come "uscio" insomma. Il significato penso che sia chiaro, e spero che i quattro quinti dei funzionari tv e dei "creativi" pubblicitari si riconoscano in questa parola. Se si offendono, pensino alle scemenze di cui sono responsabili, e alle cose belle e utili che si potrebbero fare avendo a disposizione un mezzo così potente.

venerdì 29 maggio 2020

Verzéte

In italiano si dice "apri", qui dalle mie parti, tra Milano e il confine svizzero si dice "derva", e dalle parti di mia mamma a Parma "apri" diventa "vira". In Veneto invece si dice "verzi", non con la zeta di Zorro ma con un suono intermedio tra esse e zeta; penso che siano tutte varianti di una stessa radice che io non saprei indicare, ma lascio volentieri la questione agli esperti anche perché "verzi" oggi mi serve soltanto per raccontare una storiella che conosco fin da bambino e che per molto tempo non ho ben capito. La storiella la raccontava mia nonna, quella veneta, la nonna paterna, ed è quella presente un po' in tutte le raccolte di fiabe, la storia dello stupido che fa un po' di fortuna ma sempre stupido rimane. La storia per intero non la conosco, purtroppo, ma ne ho qualche frammento: il giovane elegante e urbanizzato torna a casa dai genitori contadini e simula di aver dimenticato tutto quel mondo di duro lavoro, chiede il nome degli oggetti, cos'è questo e cos'è quello, fino a quando non mette il piede su un rastrello e il rastrello (chi conosce i rastrelli sa che fanno spesso di questi scherzi) si raddrizza di colpo e il manico gli va a sbattere sul naso. Il giovane dice subito "ahia porco rastrello" e i presenti commentano serafici: "vedi che ti ricordi come si chiama?".

Però prima c'è un'altra scena, il giovane che torna a casa e per darsi un contegno quando bussa alla porta invece di dire "verzi" dice "verzéte" e da dentro gli rispondono "non ghe n'avemo più". Verzéte, piccole verze, dei cavoli insomma. E' un umorismo basso, s'intende, sul tipo di quello di Bertoldo; ma mi sono chiesto spesso perché dire "verzéte" dato che si tratta pur sempre di parlare in dialetto. Se quel giovane voleva darsi un contegno, avrebbe dovuto usare l'italiano; ma poi la questione è di poco conto e non ci ho più pensato fino a quando non mi è venuta in mente la più che probabile soluzione. E' dunque possibile che la storiella sia nata ai tempi del fascismo, quando fu vietato usare il "lei" come forma di cortesia; dovendo dare del voi, ecco che il "verzi" diventa un "verzéte", sottinteso "verzéte voi". Un sottile antifascismo, forse, che di certo sarebbe piaciuto a Luigi Meneghello.

Sia quel che sia, la storiella continuava con altri momenti buffi, ma io non so ricostruirla. Per capire cosa vi succede, forse è meglio rivolgersi alle versioni più conosciute, non solo Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno ma anche i Grimm, Calvino, Rabelais. Per intanto, verzéte per tutti; o anche verzone pantagrueliche, come quella qui sotto.

(Nuova Zelanda, 1890circa)

mercoledì 27 maggio 2020

Prédessée


L'altro giorno ho chiesto a una mia vicina di casa, italiana cresciuta in Argentina, se è facile comprendersi con gli altri americani parlando spagnolo. Mi ha risposto di sì, che ci si capisce bene un po' con tutti, anche con colombiani, messicani e salvadoregni; l'unico problema è con le cose da mangiare perché hanno quasi tutte nomi diversi in ogni Paese.
La risposta mi è piaciuta, mi ha fatto sorridere e le ho risposto che è più o meno così anche da noi, parliamo tutti italiano ma spesso basta fare pochi chilometri per veder cambiare il nome delle cose che mangiamo. Un esempio: il prezzemolo. In Lombardia, e se non ricordo male anche in Veneto, il prezzemolo è di solito erborìn; però non in tutta la Lombardia, in alcune zone prevale prédessée. Da mia mamma, a Colorno (pochi chilometri da Parma, ma diverso da come si parla a Parma città), il prezzemolo diventa borgnaerbi (bor-gnerbi con la ä dei tedeschi e la gn di gnomo: ma se non siete nati lì non riuscirete mai a pronunciarlo come si deve). Sempre a Colorno, i piselli sono riviòot (ma, anche qui, la pronuncia...) e il finocchio è scartocén; a proposito di piselli, in Veneto si chiamano bisi e "risi e bisi" è una ricetta molto famosa.
A questo punto mi sono incuriosito e ho chiesto all'amica Giacinta come si chiama il prezzemolo a Matera: mi ha risposto ptrsn. Poi, per telefono, mi ha anche fatto sentire come si pronuncia e ho cominciato a capirne qualcosa di più: la soluzione della crittografia è "petrosino". Petrosino rimanda a Pietro (che sia san Pietro?) ma anche alla pietra (però il prezzemolo non cresce fra le pietre) ed è inoltre il nome comune del prezzemolo anche in altre parti d'Italia (ad Amalfi, "petrosillo"). E qui arriva il colpo di scena: "Petroselinum crispum" è infatti il nome scientifico del prezzemolo.
Credo proprio che rinuncerò a parlare il materano, ma intanto la curiosità è rimasta: come si chiama il prezzemolo dalle vostre parti?

PS: A Livigno, le carote sono gnif e la patate tartufol; a Caserta le melanzane si chiamano molignani e i cachi diventano "cachisse"; nel comasco la valeriana (insalata) passa al maschile e diventa "acciarìtt", ma a pochi passi da qui, verso Milano, gli acciarìtt diventano laccìtt. (Chi volesse continuare, è più che benvenuto.)

sabato 23 maggio 2020

Il doppio cognome

Gli spagnoli e i portoghesi il doppio cognome lo hanno da sempre; ma loro, beati loro, si chiamano tutti Gomez y Gonzales o Ruiz y Rodriguez y Velazquez, quindi il problema non si pone. I portoghesi e i brasiliani si chiamano Da Costa e Da Silva, e va bene anche qui. Da noi invece il doppio cognome, se reso obbligatorio, sarebbe davvero un bel problema. I cognomi italiani sono tanti e anche molto coloriti, gli accostamenti casuali e sorprendenti abbondano e ce ne siamo accorti un po' tutti, magari a scuola o sul lavoro. Io non avrei avuto problemi con i cognomi dei miei genitori e anche con quelli dei nonni (pura fortuna), ma per esempio già chiamarsi Bianchi Rossi suscita una certa ilarità; peggio ancora andrebbe a Pozzi Neri, ma dato che esistono cognomi come Di Dio o Diotallevi (eccetera) il rischio di trovarsi una bestemmia come doppio cognome è davvero alto.
Ambu e Lanza sono due cognomi esistenti, così come Soffritti e Cipolla, Saporiti e Cotti, Longhi e Corti, Pesce e Gatto, Perico e Losa, Grandi e Piccinini, fino a Storti Malfatti Malvestiti (battuta anni '60: due sindacalisti e un politico Dc), Malerba Gramigna (uno scrittore e un critico letterario), eccetera: l'elenco dei doppi cognomi che sarebbe meglio evitare è quasi infinito. C'è anche l'effetto eco (o rimbombo): Lorusso Russo, Lobianco Bianco, Fumagalli Galli, Campana Campanaro Campanile, Formentini Formenton, Nicolini Nicoletti, e la sequenza dei patronimici Di Pietro Di Giovanni Di Maria Di Giuseppe Di Battista Di Nicola, o ancora Corbelli e Corbellini, Fanti Fantoni Fantini Fantin Fantozzi...
Insomma, spero che il doppio cognome rimanga su base volontaria, che non sia obbligatorio: pensate solo, accostamenti buffi a parte, alle firme che vi tocca fare in banca o all'assicurazione. Cinquanta firme alla volta, da fare una per una, per esteso, e magari vi chiamate Pierfrancesco Bernardeschi Mangiacavalli. Io ho un cognome di sole quattro lettere e ne sono ben contento, ogni volta che mi capita di fare delle firme ne ringrazio il cielo e magari penso che avere per nome di battesimo un trisillabo come Giuliano sia un inciampo, e mi trovo ad invidiare Carlo Bo e Dario Fo che con tutte quelle firme se la sarebbero cavata in meno di metà del tempo che ci ho messo io.

Le barzellette su nomi e cognomi esistono da sempre, a militare, a scuola, sul lavoro; fermo restando che perdere il cognome materno non è bello (a meno che non si tratta di cognomi di cui vergognarsi, come Mussolini), dubito che sia un problema serio e spero che il Parlamento si occupi prima di altre cose più importanti, come l'assistenza alla maternità, le scuole, l'inquinamento acustico e ambientale, il diritto alla privacy, il cambiamento climatico (siccità e inondazioni), i ponti che crollano, la sanità pubblica, e tante altre cose ancora che di sicuro voi ben conoscete.

mercoledì 20 maggio 2020

Cambio bile


Qualche anno fa (non molti) passeggiavo per un mercato famoso di Milano e mi sono trovato davanti un cartello fatto a mano: "CAMBIO BILE". La bancarella era di un nordafricano, e vendeva un po' di tutto, piccoli oggetti, accessori per telefonini, cartoleria. Magari si potesse cambiare la bile, mi sono detto, e stavo tirando via diritto ma poi ho pensato che non era giusto, e che non potevo lasciare quell'uomo nelle mani dei fotografi da social network. Così mi sono avvicinato e gli ho spiegato: "Cambio Pile", non bile. La bile è questa cosa qui (ho indicato dove, so bene dov'è perché mi hanno operato alla cistifellea). L'uomo mi ha ringraziato molto, e mi ha chiesto se potevo correggere io; mi ha aperto una confezione di pennarelli ma quello che ho preso non scriveva, ho disegnato una P meglio che potevo, penso che abbia poi scritto nella maniera giusta ma non ho più verificato. Mi ha anche detto qualcosa sulle due lettere, P e B, che evidentemente da noi sono ben distinte ma nella sua lingua no; non so se fosse egiziano, marocchino o di altra nazionalità, ormai per me era ora di tornare a casa e non gliel'ho chiesto ma mi è rimasta un po' di curiosità e avrei preso volentieri un tè con una persona così gentile.

Il problema, oggi, è che anch'io sto diventando vecchio e sono sempre meno attento quando scrivo. Faccio errori che non avrei mai fatto, anche scrivendo a mano, e sul computer comincio ad avere bisogno dei correttori automatici - dei quali è meglio non fidarsi, perché lasciano passare errori anche peggiori del "cambio bile". Comunque sia, ne approfitto per riportare qualche altro refuso curioso - mio o di altri, ammesso che la cosa abbia importanza.
Il primo che mi ha dato da pensare è "da noi travate" invece di "da noi trovate": era su un sito di annunci e mi ha fatto dire subito "no grazie, sono alto quasi due metri e di travate ne ho già prese fin troppe", alcune memorabili come quella che presi a Firenze nei primi anni '80 (un bar con i servizi ubicati in un sottoscala) o a casa mia nei primi anni '90 (penso di aver sollevato di qualche centimetro le fondamenta del garage). Leggendo invece in fondo a un articolo la parola"aspettimao" (aspettiamo) mi sono ricordato che anch'io qualche volta sono diventato Giulinao; però poi se facevo notare l'errore (sorridendo) mi guardavano male, soprattutto le donne.
Un'altra serie di refusi che mi sono piaciuti o che mi hanno fatto pensare: payboy invece di playboy, optare invece di potare, e un lungo digiugno, prima del quale viene probabilmente il mese di mangio. Interessanti anche automonili (automobili da gioielliere?), mare piumoso (più mosso...), i forini d’oro (migliaia di forini d’oro), e la buonanote, che forse è una litote, o forse un saluto in musica, o un invito a prender nota (prendi nota delle note, buonanote). Sulla saracinesca di un negozio chiuso, nel paese dove abito, spiccava un invito a inviare a un altro indirizzo la corrisponza (che è poi la corrispondenza). La chiusura di questo post è per un leader che si rivolge alle nasse, probabilmente il leader dei pescatori, e per il calciatore Rinaudo, che il 16 gennaio 2012 in un Cesena-Novara di serie A, scese in campo con scritto sulla maglia "Rinuado" e (forse proprio per questo) fece anche un autogol. La partita finì 3-1 per il Cesena, Rinaudo/Rinuado giocava nel Novara dove era appena arrivato dal Napoli. Così è andata.


sabato 16 maggio 2020

Un'automobile targata miao


La targa Miao è veramente esistita, e in rete è molto facile trovarne qualche foto. Sono riuscito a recuperare anche l'anno preciso in cui nacque: 1965. Per un bambino di sei o sette anni, come ero io, trovarsene una in cortile è stata una grossa sorpresa: che sia forse uno scherzo? I grandi ovviamente lo sapevano già, io alle targhe delle macchine cominciavo appena a farci caso. Ovviamente, la targa era Milano-A-Zero, la provincia di Milano aveva raggiunto la quota di un milione di automobili e sulle targhe non c'era più spazio, così si decise di inserire le lettere dell'alfabeto, con risultati spesso curiosi se non esilaranti. Oltre alla targa MIA0 e MIA0000 uscirtono anche MIE0 e MIE0000 e se non ricordo male anche MIN1 (mini); MIKPP invece rimase solo una battuta. Anche nelle altri grandi città, con province molto popolate, arrivarono le targhe con le lettere, come TOP0, TOR0, TOR1.
La targa TOR0 fu oggetto di interesse presso alcuni tifosi del Torino Calcio, ma non era possibile ordinare le targhe su misura e mi pare che non lo sia nemmeno oggi con il nuovo sistema. In altre nazioni non è così, per esempio in California le targhe sono personalizzate e ci si può scrivere quello che si vuole (a condizione che non ci siano doppioni) e in Svizzera tengono regolarmente delle vere e proprie aste nelle quali il miglior offerente può acquistare e usare targhe con numeri particolari, rese disponibili dalla rottamazione di automobili ritirate dalla circolazione. Molti cercano la propria data di nascita, per esempio, oppure un numero a cui sono affezionati; molto concupita la targa TI 01 (la prima automobile immatricolata nel Canton Ticino), ma certe occasioni si presentano raramente e ovviamente sono molto costose. Alcune targhe erano teoricamente possibili, ma non è mai arrivato il loro momento: per esempio per noi comaschi la targa COM0 era tecnicamente possibile, ma la provincia non era abbastanza grande per arrivare alle lettere come a Milano, poi venne la scissione di Lecco e le cose finirono lì. Cose curiose succedevano già prima: molto diffusa a Piacenza era la targa PC1, che si leggeva proprio PCI, il partito al governo in Emilia Romagna per più di trent'anni (con ottimi risultati, detto en passant); a Parma invece era facile trovare il Partito Repubblicano di Ugo La Malfa. A Varese c'era la targa VAI (VA 1), a Cremona la Croce Rossa (CR I), e poi fate voi.
Da una ventina d'anni le cose sono cambiate, e le sigle delle province sono sparite dalle automobili; c'è molta burocrazia in meno con questo sistema, per esempio bastava traslocare di pochi chilometri per essere costretti a cambiare la targa dell'auto (nella zona dove abito io bastano pochi minuti per passare dalla provincia di Como a quelle di Milano e di Varese). A me non importa molto di avere la mia denominazione d'origine stampata sulla targa ma so che c'è chi ci tiene ancora - nel caso, basta comperare un adesivo o magari fabbricarselo in casa, visto che si può. Oltretutto, avere la sigla della provincia sull'auto poteva essere pericoloso: gli ultras del calcio, per esempio, alle volte distruggevano le automobili all'uscita dello stadio e l'indicazione di provenienza era ovviamente la prima scelta, anche se voi non vi intendevate di calcio il pericolo era più che reale. Comunque sia, la mia automobile attuale, che ha compiuto vent'anni, è targata Belluno-Varese; e un mio amico siciliano è stato molto contento di ritrovare la sua macchina targata Enna pur essendo residente a Como da quarant'anni. Fra un anno o due magari anch'io ne approfitterò anch'io per avere le mie iniziali, GB; ma non è detto, e chissà cosa potrà succedere quando arriverà quel momento.

 
(le immagini: una cartolina postale del 1904,
un fumetto trovato on line senza indicazioni,
un disegno di Thornton Utz, "road to Suburbia")
 

martedì 12 maggio 2020

Le Balcon al Piccolo Teatro

Di Jean Genet ignoravo perfino il nome, e dopo aver visto "Le balcon" al Piccolo Teatro non me ne sarei mai più interessato. Quel giorno, il 27 febbraio 1977, ero stato cooptato da un amico di mio fratello: "vuoi venire anche tu?". Avrei preferito che mi avessero invitato prima, magari per un Brecht (c'era stata in cartellone "L'opera da tre soldi"), ma non ero mai stato al Piccolo Teatro e ho detto subito di sì. Il testo, risalente agli anni '50, era stato molto discusso: l'azione si svolge in un bordello e molte scene erano piuttosto esplicite. L'allestimento di Strehler era bello, ma c'erano state critiche negative sui giornali e anche qualche fischio alla prima rappresentazione, che aveva fatto scalpore perché di regola al Piccolo c'erano solo applausi.
Franco Quadri, su Repubblica, ne scriveva così:
Nelle parole di Genet, Le balcon è «la glorificazione dell'Immagine e del Riflesso». Tutto quanto vi si vede rappresentato non vive infatti di luce propria ma è dimensionato da una serie di riferimenti. Il bordello in cui si svolge l'azione è una casa di illusioni, forse il teatro stesso: rinasce qui lo schema di una società autoritaria attraverso dei piccoli figuranti che arrivano alla soddisfazione rivestendosi delle maschere del potere, giocando i ruoli del vescovo, del magistrato, del generale. Da fuori intanto giungono le urla di una rivoluzione che divampa (ma tutte le apparizioni dei rivoluzionari sono state tagliate nella edizione di Strehler): là all'ordine partorito dall'immaginazione si contrappone una ricerca di valori autentici. In uno spettacolo che prende alla lettera le indicazioni più esplicite del testo, proponendosi di chiarificare quanto l'autore aveva velato di voluta ambiguità, e di liberare dal dubbio e dal fremito irrazionale questa sagra del travestitismo e del teatro nel teatro, anche il gioco dei riflessi diventa esteriore: si condensa cioè nella scatola scenica di Luciano Damiani, complesso apparato a più strati di pareti verticali od oblique, di pilastri, di soffitti, sempre ugualmente di specchio. Le immagini così si moltiplicano, ma per restare segni nitidi, asettici, di un paradigma tecnologico lontano dal polveroso scorrere di paraventi delle molte segrete del casino: sfilano tette e culi nudi, plastica e cuoio, fruste e bicipiti, ma impaginati per benino secondo la grafica di Crepax piuttosto che aderendo allo spirito laido del mondo sfatto di Genet. Assieme al gusto della profanazione è scomparso anche il ritualismo, riassunto nella scultorea durezza dei costumi raffinatamente intagliati da Damiani per delineare le simbologie del potere, inghiottendo l'umanità dei personaggi che rivestono. (...)

Strehler si era risentito molto per il risalto dato ai fischi (pochi, ci teneva a precisare) da un quotidiano del pomeriggio che aveva fatto un titolo scandalistico (penso che fosse "La Notte": all'epoca era l'unico quotidiano che usciva nel pomeriggio a Milano) e sul Corriere della Sera uscì un articolo (a firma D.R., probabilmente Donata Righetti) dove Strehler diceva di voler conoscere le ragioni di quei fischi. Uno dei "fischiatori" rispose, con una lettera molto dettagliata:
Corriere della Sera, 1977, lettera di Giovanni Curti:
« Le Balcon »: perché di un fischio
Milano. Allora, visto che, contro ogni mia intenzione, la cosa ha fatto notizia, vorrei soddisfare la curiosità di Strehler: io sono una delle tre o quattro persone che, in occasione della prima di Le Balcon al Piccolo Teatro, ha espresso il suo dissenso con qualche fischio (oh, leggero, appena a fior di labbra, che diamine!). Un dissenso di cui peraltro mi sono immediatamente pentito non appena ho potato accorgermi che, per contrasto, gli applausi (oh, davvero fiacchi e appena cordiali fin lì) crescevano d'intensità aggiungendosi a qualche voce che gridava il suo "bravo" non senza una punta d'isterismo. Comunque, dicevo, io ho fischiato. Non so chi altri lo abbia fatto, ma per quanto mi riguarda posso dire che sono uno studente universitario, pendolare, militante della sinistra, e che ho fischiato perché, a mio avviso, si tratta di uno spettacolo sostanzialmente mancato. Sarebbe troppo lungo elencare qui tutte le ragioni di un dissenso, ma alcune voglio indicarle: 1) Genet non tollera alcun bagliore di speranza, alcuna "prospettiva"; 2) il "pirandellismo" di Genet è solo apparente: in realtà nulla gli è più estraneo della dialettica essere-parere intesa in senso pirandelliano; a tratti, invece, l'altra sera pareva di assistere a un allestimento pirandelliano fatto dalla Compagnia dei Giovani. 3) l'espediente della scena tutta a specchi è terribilmente datato (anni '60): lo so anch'io che Genet richiede gli specchi, ma non è una buona ragione per recitarlo in una cornice che purtroppo richiama in modo eccessivo il night club della metà degli anni '60. 4) mi domando se la cosiddetta lettura "totale e oggettiva" di un testo significhi la sua riproposizione neutra, acritica; non nego che i personaggi siano stati visti in maniera critica, ma purtroppo la mia impressione è che non si sia andati al di là di una dimensione satirica. La verità è che il testo stesso è chiaramente datato e che la proposizione dei suoi significati universali non dovrebbe tralasciare di sottolinearne la parziale caducità; 5) tutta la caratterizzazione dei personaggi è di maniera, come se si trattasse di realizzare la consueta e consunta satira del piccolo borghese; 6) le trovate della regia sono molte, ed è proprio qui il punto, secondo me: non essendo poeticamente risolte, restano delle "trovate". 7) la distribuzione dei ruoli non mi ha convinto: non sono un critico e non mi è quindi consentito muovere rilievi personali, però almeno tre ruoli importanti (due donne e un uomo) erano stati affidati a tre attori (ineccepibili in altre occasioni) qui visibilmente a disagio. E poi, via, i fischi qualche volta sono salutari.
Strehler in un intervento successivo (molto lungo, tre colonne molto fitte) accettò le critiche, pur sottolineando che si trattava di un dissenso di poche persone, facendo una breve storia delle contestazioni e delle difficoltà avute nei trent'anni di storia del Piccolo Teatro (trent'anni, dal 1947 al 1977). Strehler teneva soprattutto a ribadire che il pubblico del suo teatro non era certo inerte e succube come qualcuno voleva suggerire, e quindi dava il benvenuto anche ai dissensi purché propositivi. Da parte mia, dopo lo spettacolo e dopo aver letto questi interventi ero andato in biblioteca (a Como) e mi ero portato a casa il testo originale di "Le Balcon": Franco Quadri aveva ragione, Strehler aveva tagliato parti fondamentali per capire il testo. Aveva ragione anche il "contestatore" Curti, ma intanto io mi ero appassionato al lavoro di Strehler, sia pure con uno spettacolo sbagliato (succede) e da allora sarei diventato uno spettatore assiduo, non solo per Strehler. Di Jean Genet, come dicevo all'inizio, non mi sarei invece mai più occupato: di sicuro Genet non scriveva per me.
 
Di quello spettacolo, rileggendo ciò che avevo messo da parte e pensando ai quarant'anni che sono passati, mi porto dentro il ricordo di un periodo in cui il teatro faceva parte della vita quotidiana, quando di teatro si scriveva sui giornali con grande spazio, spazio del tutto sparito da almeno un quarto di secolo, da quando Vittorio Feltri sul Giornale licenziò di fatto i critici teatrali, poi imitato più o meno in sordina da tutti gli altri quotidiani. Oggi non c'è quasi più critica, non solo teatrale ma anche musicale, cinematografica, letteraria: ci sono brevi note degli uffici stampa, o poco più. Il pubblico latita, tranne che in poche occasioni; e il colpo inferto in questo 2020 dal "lockdown" è molto probabilmente di quelli micidiali. Ripartirà, il teatro, ma dal basso.
Il cast dello spettacolo: Anna Proclemer, Tino Carraro, Renzo Ricci, Renato De Carmine, Giulia Lazzarini, Franco Graziosi, Enzo Tarascio, Anna Saia, Erika Blanc, Maristella Greco, Elena Croce, Alan Steel, Armando Benetti. Le scene e i costumi sono di Luciano Damiani e le musiche di Fiorenzo Carpi. E' stato l'ultimo ruolo recitato in teatro da Renzo Ricci, uno dei più grandi attori del Novecento italiano.
 


domenica 10 maggio 2020

Pirandello con Giulio Bosetti


Conoscevo già i "Sei personaggi in cerca d'autore" grazie alla Rai, che all'epoca svolgeva ancora servizio pubblico e non correva ancora dietro alla pubblicità. Forse un allestimento radiofonico, o forse in tv, ma mi aveva molto colpito (ed è impossibile non rimanerne colpiti) quella scena dei personaggi, quasi dei fantasmi, che appaiono davanti all'autore e che chiedono di essere rappresentati. Del resto, è una scena che conosciamo tutti e che tutti ricordano (almeno, io lo spero). L'allestimento del 1976-77 diretto e interpretato da Giulio Bosetti è stato il mio primo spettacolo "vero" a teatro dopo la catastrofe di una recita per le scuole che ho descritto l'altro ieri. Questa volta il nostro insegnante appassionato di teatro ci aveva scelti con cura, per evitare pessime figure; del resto, era una recita del circuito normale, bisognava pagare il biglietto e non era nell'orario scolastico quindi non era un pretesto per saltare l'interrogazione. La recita era a Como, gennaio 1977, al Teatro Sociale; con Giulio Bosetti (il padre), recitavano Marina Bonfigli (la madre), Patrizia Milani (la figliastra), Alberto Mancioppi (il figlio), Lino Savorani (il capocomico), Rina Mascetti (madama Pace). L'allestimento era della Cooperativa Teatro Mobile, e purtroppo non posso aggiungere altro perché all'epoca non aveva ancora l'abitudine di conservare i programmi di sala. Ricordo che era stato un buon allestimento, come si può intuire dai nomi degli attori.

Un altro spettacolo, un mese dopo, sempre con gli stessi compagni e compagne di classe e con lo stesso insegnante: Il Gabbiano di Anton Cechov, sempre al Sociale di Como, febbraio 1977. Il Teatro Stabile di Padova, regia di P. Antonio Barbieri; Trigorin era Paolo Ferrari, Nina era Mariella Fenoglio, Konstantin era Marzio Margine, Elena Zareschi era Irina. Recitavano anche Gastone Bartolucci, Laura Tavanti, Adolfo Geri, Adriana Vianello; scene di Maurizio Monteverde. Cechov lo avrei capito solo molti anni dopo, forse ero troppo giovane, non faceva comunque parte del mio mondo anche se in quel periodo stavo leggendo tutti gli scrittori russi che trovavo. Anche di questo spettacolo non ho conservato ricordi particolari, se non quello delle mie compagne di classe presenti in sala; ma eravamo tutti, del resto, dei provinciali al loro primo ingresso in teatro - o quasi. Di regola, i teatranti parlano di noi provinciali con un certo distacco, per non dir di peggio, e snobbano gli spettacoli pomeridiani che chiamano "matinée", ma che invece sono importanti, così come sono importanti i prezzi dei biglietti. A diciotto anni, di regola, si hanno pochi soldi in tasca e non si ha nemmeno l'automobile per tornare a casa alla sera tardi, dopo mezzanotte, come fanno i viveur. Il risultato di queste politiche, anche grazie alla Rai che ha smesso di produrre cultura, e se la produce la mette in una nicchia (ma che sia una nicchia piccola, per carità) è che da molto tempo non appena i diciottenni hanno l'automobile e un po' di soldi vanno da un'altra parte, e non a teatro.

2- continua

mercoledì 6 maggio 2020

Recita per le scuole


Il mio primo incontro con il teatro è stato, come per molti, una recita per le scuole: "Romeo e Giulietta" di Shakespeare, in un allestimento "in abiti moderni" come ci avevano detto al momento della presentazione dello spettacolo, in classe. L'anno doveva essere il 1975, o forse il 1976, e non ricordo il nome della compagnia che lo rappresentava, tutti attori giovani, in un teatro di Como che forse era il Sociale - chiedo scusa ma mi è difficile mettere insieme tutti questi ricordi così lontani. Il motivo per cui ne parlo qui invece lo ricordo benissimo, ed è l'interruzione dello spettacolo a causa di miei compagni di classe che erano molto vicini al palcoscenico e che rifacevano il verso agli attori. Uno di quei miei compagni di classe l'ho già ricordato qui, era con altri suoi amici che conoscevo solo di vista, tutti più o meno figli di papà, quindi senza nemmeno la scusante dell'ignoranza o della mancanza di esperienze. L'attore protagonista, quello che interpretava Romeo, interruppe lo spettacolo; era molto arrabbiato e invitò i molestatori a presentarsi, a non nascondersi, chiedendo di rispettare l'impegno e il lavoro degli attori e dei tecnici. Avrei poi scoperto che il mondo delle recite per le scuole è fatto così, ci vuole una gran pazienza e spesso è difficile portare a termine le recite. Sono passati tanti anni, io la scuola l'ho finita da gran tempo e con il mondo scolastico non ho più avuto contatti se non qualche coetanea poi diventata insegnante, ma so che questi comportamenti non sono mai cessati, troppo facile rispondere con una scemenza a un attore in scena. Per gli attori, le recite scolastiche sono una fonte di guadagno; ma so per certo che ne farebbero volentieri a meno, e non so dar loro torto se ripenso a questa esperienza. E' un peccato che vada a finire così, perché le recite scolastiche sono fondamentali per arrivare ad avere un nuovo pubblico.
Io invece di esperienze non ne avevo, ma lo spettacolo mi interessava anche se non era "Romeo e Giulietta" quello che stavo cercando. Avrei scoperto molti anni dopo che non è affatto un dramma sdolcinato, ma capirlo quel giorno, con tutto quel casino combinato da spettatori sprovveduti, sarebbe stato ben difficile; però avevo già letto Beckett e Pirandello, e di lì a poco avrei iniziato con Shakespeare, ma con Amleto e Re Lear, il Sogno di una notte di mezza estate, l'Otello, tanto altro ancora. Ma per oggi mi fermo qui, spero di riuscire a recuperare i nomi di quella compagnia e per intanto scrivo il nome dell'insegnante che ci avrebbe portati ancora a teatro, ma stavolta solo quelli veramente interessati: si chiamava Anselmo, aveva solo pochi anni più di noi e insegnava nel laboratorio di chimica analitica.

(1-continua)


domenica 3 maggio 2020

Otello con Orson Welles


Katia ed io avevamo un amico trevigiano, un bravo anglista che è vissuto con noi in Inghilterra per qualche anno, molto tempo fa. Appassionato di Shakespeare, gli piaceva specialmente l’Otello, e una volta siamo andati insieme Katia lui e io, a vedere appunto l’Otello di Shakespeare - si dice «Othello» - in un teatro di Londra, nella messa in scena, credo restata famosa, di Orson Welles, il regista e attore che conoscete. Era davvero un Otello memorabile, questo gigantesco uomo con la blusa aperta sul petto, un metro almeno di larghezza di torace visibile sotto, e quel vocione rugginoso, quegli occhioni roteanti. Il nostro amico però non era affatto contento, l’aspetto sì, ma la recitazione non gli piaceva per niente. Quando siamo usciti diceva: «Non è mica cosi, non è mica questo». E faceva capire che secondo lui Orson Welles aveva sciupato le cose più sublimi che ci sono in quel dramma. Era evidente che sentiva la superiorità schiacciante dei propri ritmi interiori, percepiti leggendo «con gli occhi», rispetto a una banale, melodrammatica resa teatrale.
Gli abbiamo chiesto di darci un esempio, e lui ha scelto quella scena seconda dell’atto quinto, la grande scena in cui Otello arriva nella stanza di Desdemona - si dice « Desdemòna» - sul punto di ucciderla, il grande monologo che comincia «It is the cause, it is the cause, my soul», « E’ la causa, è la causa, anima mia», che non si sa cosa voglia dire, ma è tanto più suggestivo per questa incertezza.
« E’ la causa, è la causa, anima mia»: si capisce e non si capisce. Nella grande poesia succede molto spesso questo, che non capire del tutto stimola il capire. Al nostro amico interessava soprattutto quel quarto o quinto verso del monologo, il famoso «Put out the light, and then put out the light», «Spegni la luce, e poi spegni la luce». Prima «spegni la candela», la candela che ha in mano, e poi «spegni la luce di lei», uccidila. Una di quelle cose intense, squilibrate, potenti che si trovano in Shakespeare. «Put out the light, and then put out the light». Noi diciamo al nostro amico: "Sentiamo"; e lui, un po’ di raccoglimento e poi esce con una vocina stridula, astrale: Pit eit the leit, ind thin pit eit the leit!! E noi ci siamo messi a ridere, ma non avremmo dovuto perché si capiva che lui sentiva lo strido della gelosia omicida, e della disperazione amorosa, in un modo perfettamente degno del testo - e grottesco tuttavia. Non volendo oggi esercitarmi nel grottesco, cercherò di stare attento nella mia lettura a non stridere troppo.

Luigi Meneghello, da "Leda e la schioppa", pag.29 ed. Moretti & Vitali 1989